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Sunday, August 16, 2020

Nembo kid a Nembro? Quel maledetto 5 marzo



TUTTO QUEL CHE NON TORNA NEL RACCONTO DI CONTE SULLA MANCATA ZONA ROSSA A NEMBRO E ALZANO (BERGAMO)  

di Mauro Suttora

Huffington Post, 16 agosto 2020

Il premier Conte dice la verità su quel maledetto 5 marzo, sulle poche cruciali ore in cui lui afferma di avere appena saputo che i suoi scienziati gli chiedevano la zona rossa alla periferia di Bergamo, ma contemporaneamente a Bergamo già arrivavano 370 fra carabinieri, poliziotti, finanzieri e soldati per sigillarla?

Lo decideranno i magistrati. Paolo Mieli, nel suo pur rispettoso editoriale sul Corriere della Sera del 13 agosto, gli crede poco. Gabriella Cerami sull’Huffington Post dell′8 agosto ha già rilevato le contraddizioni in cui è caduto il premier dopo essere stato costretto a desecretare i verbali del Cts (Comitato tecnico scientifico).

Ha smentito le sue stesse parole. Quattro mesi fa, infatti, dichiarò al Fatto Quotidiano: “Il 3 marzo il Cts propone una zona rossa per Alzano e Nembro. Chiedo agli esperti di formulare un parere più articolato. Mi arriva la sera del 5 marzo e conferma l’opportunità di una cintura rossa per Alzano e Nembro. Il 6 marzo decidiamo di imporla a tutta la Lombardia. Il 7 arriva il decreto”.
Invece l′8 agosto, dopo la pubblicazione obtorto collo del verbale Cts, Conte dichiara: “Del verbale del 3 marzo sono venuto a conoscenza il giorno 5”.
Gli fa eco il ministro della Salute Roberto Speranza: “Ho saputo del verbale il giorno successivo. E il 5 l’ho trasmesso a Conte”.

Se fosse vero, sarebbe una illustrazione agghiacciante della lentezza della nostra burocrazia. Tutte le agenzie di stampa, i siti giornalistici e le tv riferirono la proposta del Cts sulla zona rossa di Bergamo già la stessa sera del 3 marzo. Gli unici ignari in Italia erano Conte e Speranza? Il dinamico Casalino non avvertì il suo premier?

Ma che le date non combacino lo dimostrano soprattutto gli avvenimenti in loco. Nella giornata del 5 marzo infatti arrivano ad Alzano e Nembro numerosi reparti di forze dell’ordine da tutta la Lombardia. In certi casi, gli stessi uomini che hanno già isolato con successo la zona rossa di Codogno (Lodi).
Nel primo pomeriggio cominciano i sopralluoghi. Tutti danno per scontato il blocco di Alzano e Nembro. L’unica incertezza riguarda il quando. Quella sera stessa? L’indomani mattina?
È stabilita perfino l’ora esatta e il posto del concentramento da dove partiranno le pattuglie per il blocco simultaneo delle strade in entrata e uscita della zona rossa: le 19 dal comando provinciale dei carabinieri nella circonvallazione delle Valli a Bergamo.
Contemporaneamente, i reparti prendono alloggio in due alberghi, a Osio Sotto e Verdellino.

Tutto a insaputa del premier, che adesso postdata la propria cognizione della richiesta di zona rossa al 5 marzo? Oppure la ministra dell’Interno e il prefetto di Bergamo stanno cinturando a sua insaputa Alzano e Nembro (che non sono paesini in mezzo al nulla come Vo’ Euganeo, ma una delle zone industriali più antropizzate d’Europa)?
Oppure ancora, prendendo per buona la sua seconda versione: Conte sa da Speranza del verbale soltanto  il 5 mattina, ma veloce come Nembo Kid riesce a spedire un intero gruppo interforze a Bergamo in poche ore, nonostante la lentezza della nostra burocrazia di cui sopra?

Poi c’è il mistero su chi e quando riuscì a far fare marcia indietro a Conte. La zona rossa di Bergamo abortì, probabilmente perché i bergamaschi - tutti, non solo i padroni - preferiscono rischiare di morire piuttosto che non lavorare.

Ma poiché il contagio si espande con una velocità di accelerazione al quadrato, se il 3 bastava isolare Nembro e Alzano, il 6 era necessario farlo con tutta la Lombardia (come ha giustamente detto Conte1, prima versione). E alla fine, il 9 marzo, l’intera Italia si ritrovò in lockdown proprio perché erano state persi sei giorni preziosi.
Sull’eventuale numero di infetti e morti in meno a Bergamo sorvoliamo, per buon gusto.

Il presidente Usa Nixon non dovette dimettersi per il Watergate (una piccola, insignificante effrazione), ma perché disse il falso sul Watergate. Clinton passò i guai non per quel che gli fece Monica, ma perché lo negò.
Le parole del gentile e flautato premier Conte svolazzano nell’aria. Inafferrabili come un virus.
Mauro Suttora

Wednesday, August 14, 2013

L'ottava resurrezione di Berlusconi

DOPO LA CONDANNA A TRE ANNI PER FRODE FISCALE: A 77 ANNI HA ANCORA VOGLIA DI COMBATTERE

di Mauro Suttora

Oggi, 7 agosto 2013

«Io sono qui. Resto qui. Non mollo». Chi si illudeva che la carriera politica di Silvio Berlusconi fosse terminata con la condanna definitiva a quattro anni di carcere, è servito. Tante volte è stato dato per morto, altrettante è resuscitato. «Anche gli avversari, al di là di tutto, devono ammetterlo», dice a Oggi Daniele Capezzone, presidente Pdl della commissione Finanze della Camera, « ha un’energia obiettivamente impressionante. Sembra una rockstar».

Silvio ha 76 anni, 77 fra sette settimane. Il presidente americano Richard Nixon era un ragazzino, al confronto, quando dovette andarsene per lo scandalo Watergate: aveva ‘soltanto’ 61 anni. Pure lui sotto i colpi di magistrati che stavano mettendolo sotto impeachment. Evitò l’umiliazione dimettendosi nell’agosto 1974.

Berlusconi è sette volte nonno. Potrebbe essere perfino bisnonno: sua nipote Lucrezia, prima figlia di Piersilvio, ha 23 anni. Ma non ha alcuna intenzione di ritirarsi. Dove trova la voglia di combattere ancora? Da un po’ di tempo ha smesso di vantarsi della propria giovanilità. Anzi, ha addirittura preso il vezzo di aumentarsi gli anni: «Ne ho quasi 78», ha detto al direttore del quotidiano Libero Maurizio Belpietro qualche giorno fa. Svista o esagerazione per sembrare più anziano? «Mente perfino sull’età», ringhiano i nemici sulla rete.

Odiato, amato. Due curve di tifosi contrapposti. Dieci milioni di voti presi cinque mesi fa. Sei milioni di voti persi in cinque anni. Ma comunque ancora capo del primo partito italiano. O secondo partito, se si sapesse chi è il capo del primo (il Pd). Ha governato l’Italia per 3.340 giorni: il terzo per durata dopo Benito Mussolini e Giovanni Giolitti. Ma il primo della storia repubblicana: più di Alcide De Gasperi, Giulio Andreotti, Aldo Moro, Bettino Craxi.

Il record di cui si parla in questi giorni, però, è quello giudiziario. Processi subiti in vent’anni: 27. Processi in corso: sette, come i nipoti. Quelli più fastidiosi: i due civili. Perché rischia di dover  pagare oltre mezzo miliardo di euro all’odiato Carlo De Benedetti (editore dei giornali Repubblica ed Espresso), e centomila al giorno alla seconda ex moglie Veronica.

Finora, sempre assolto o prescritto. Per la prima volta il primo agosto è stato condannato. Entro il 15 ottobre deve scegliere se scontare un anno (tre sono svaniti con l’indulto 2006, per cui può ringraziare Romano Prodi allora premier) in affidamento ai servizi sociali o agli arresti domiciliari.
 
Già il fratello Paolo vent’anni fa dovette trascorrere l’estate 1993 ‘recluso’ nella propria villa a Porto Rotondo, accanto alla Certosa di Silvio. Ma le umiliazioni per l’ex premier sono già cominciate. I carabinieri gli hanno ritirato il passaporto. I grillini premono per cacciarlo subito dal Senato. I suoi rispondono che la legge sulla decadenza dei parlamentari pregiudicati è del 2012, e non ha valore retroattivo (la frode fiscale da nove milioni di euro di Mediaset risale a dieci anni fa). 

In ogni caso, gli avversari ora possono definirlo «delinquente» senza diffamarlo. Per il Financial Times è un «buffone». Per l’Economist un «clown», seppure alla pari con Beppe Grillo. Due giornali liberali, non comunisti.

Ma per il Grande Combattente processi e condanne sono solo medaglie: la dimostrazione di essere un Grande Perseguitato. E i giudici sono solo impiegatucci statali, «che hanno fatto un compitino vincendo un concorso». Altro che giustizia uguale per tutti: lo hanno preso di mira solo perché è sceso in politica.

I giudici di Milano lo avevano anche interdetto dai pubblici uffici per cinque anni. Troppi, ha concesso la Cassazione: facciamo tre, ha suggerito il procuratore generale. Rideciderà Milano. Nel frattempo, niente candidature. E allora, per conservare il nome Berlusconi sulla scheda, ecco la figlia Marina. Ha partecipato a tutti i vertici degli ultimi giorni. E si è schierata con i ‘falchi’ accanto a Capezzone, Renato Brunetta, Daniela Santanchè e Denis Verdini. 

Dall’altra parte, i ‘moderati’ Gianni Letta, Fedele Confalonieri, Angelino Alfano e Renato Schifani. In mezzo, la fidanzata napoletana Francesca Pascale e la ‘badante’ casertana Mariarosaria Rossi. Quest’ultima ha ormai sostituito la segretaria storica Marinella Brambilla (diventata madre a 48 anni) e perfino il maggiordomo Alfredo Pezzotti. Per parlare con Berlusconi bisogna passare da lei.

«Ma alla fine le decisioni le prende solo lui», dice Capezzone, «e mi impressiona la sua apertura alle novità. È un perfezionista, capace di arrivare un’ora prima sul palco di un comizio a provare i microfoni. Ma gli piacciono anche i colpi di scena, le improvvisazioni che spiazzano». Una potrebbe essere la drammatizzazione del momento dell’arresto. Chiedere di finire in carcere nonostante l’età. Il martirio porta voti.
Mauro Suttora 

Tuesday, November 22, 2005

Bob Woodward

22 novembre 2005

Ha già fatto cadere un presidente degli Stati Uniti. Riuscirà a distruggerne un altro? Miliardario, rispettato, invidiato, a 62 anni Bob Woodward può considerarsi un uomo fortunato. Ne aveva 29 quando scoppiò lo scandalo Watergate, che nel 1974 costrinse Richard Nixon alle dimissioni. Poi Robert Redford lo immortalò nel film "Tutti gli uomini del presidente": lui era il bello, mentre il collega Carl Bernstein (interpretato da Dustin Hoffman) era il bravo, brutto e un po' sfigato.

Copione rispettato in questi trent'anni: Woodward ha scritto sette libri arrivati primi in classifica, spaziando da John Belushi alla Cia, da Bill Clinton a George Bush junior. Ha vinto ogni premio giornalistico immaginabile, dal Pulitzer in giù. E' entrato nel circuito delle celebrities che si fanno pagare ogni discorso decine di migliaia di dollari. E' sicuramente il giornalista investigativo più famoso del mondo. Tutti i presidenti, democratici e repubblicani, gli aprono le porte della Casa Bianca per confidarsi con lui e regalargli materiale per il successivo bestseller. Newsweek gli ha dedicato cinque copertine, tre dei suoi libri sono stati trasformati in film. Bernstein, invece, ha avuto problemi con tutto: carriera, donne, alcol, soldi, salute. Non si è certo rovinato, se la passa egregiamente pure lui, ma il confronto col collega (amico mai) stride.

La scorsa settimana Woodward ha inaugurato un nuovo capitolo della sua lunga e avventurosa vita professionale. Ha confessato fuori tempo massimo di essere stato il primo a conoscere l'identità di Valerie Plame, agente segreta della Cia. Gliela rivelò un "alto personaggio della Casa Bianca" nel giugno 2003, due settimane prima che ne parlasse Lewis "Scooter" Libby (potente capo di gabinetto del vicepresidente Dick Cheney) alla giornalista Judith Miller.

Perchè il ritardo di questa rivelazione? Ormai Libby ha dovuto dimettersi e ora rischia fino a trent'anni di carcere per quello che negli Usa è un reato gravissimo. Woodward, fra l'altro, non fa il nome della sua nuova "gola profonda", perchè le ha promesso di non rivelarne l'identità fino a quando lei stessa non esca allo scoperto. Si ripetono esattamente, insomma, i fatti degli anni '70: anche allora la Gola profonda del Watergate rimase sconosciuta, per lo stesso motivo. Si è rivelata solo pochi mesi fa: era Mark Felt, oggi novantenne, un dirigente dell'Fbi arrabbiato perchè Nixon gli aveva bloccato la carriera.

Woodward si è a sua volta arrabbiato con Felt perchè gli ha bruciato il libro - e i miliardi - che aveva già scritto aspettando la sua morte. Ma ora è il direttore del suo giornale - il quotidiano Washington Post - ad arrabbiarsi con lui per averlo tenuto all'oscuro della nuova Gola profonda in questi due anni. E Woodward, che al Post è formalmente solo uno dei tanti vicedirettori, ha dovuto chiedere scusa a Leonard Downie. Che differenza con trent'anni fa! Il direttore di allora, Ben Bradlee, sapeva tutto, proteggeva i suoi reporters cuccioli, e pure lui ha mantenuto fino all'ultimo il segreto. Ma non si può certo pretendere che un "senatore" superstar ultrasessantenne come Woodward si abbassi oggi a raccontare i suoi scoop al direttore di turno.

Per la verità lo scoop non c'è mai stato. Perchè nè Woodward nè la concorrente Miller del New York Times hanno mai scritto il nome della Plame. A rivelare il nome dell'agente segreto è stato il columnist di destra Robert Novak, nel luglio 2003. Ma lui se l'è cavata senza un giorno di carcere perchè ha subito collaborato con il procuratore Patrick Fitzgerald. Il quale non ha potuto incriminare il divulgatore del segreto perchè, ha spiegato, "finora contro di lui ho raccolto solo indizi, non prove". Libby, invece, passa i suoi guai non per aver rivelato una notizia che poi non è stata scritta, ma per aver mentito al procuratore sotto giuramento. Quindi la nuova testimonianza di Woodward non lo toglie dalla graticola.

Insomma, si tratta di una vicenda intricatissima. Proprio come il Watergate. Subito dopo l'interrogatorio di Woodward, Fitzgerald ha chiesto l'insediamento di un'altra corte speciale. Chi è la Gola profonda eccellente che rischia l'incriminazione? Tutti hanno smentito, da Cheney a Condi Rice, da Karl Rove "cervello" di Bush all'ex segretario di stato Colin Powell. E' quest'ultimo l'autore della battuta più importante del libro più recente di Woodward, quello in cui si spiega la malaugurata genesi della guerra all'Iraq. Powell, sconsigliando Bush di invadere, lo avvertì: "Chi rompe paga e i cocci sono suoi". Ora Woodward rischia per la seconda volta di rompere una cospirazione segreta dell'uomo più potente della Terra: il presidente Usa.

Mauro Suttora