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Monday, November 15, 2021

Maria Grazia Cutuli, smettete di chiamarla giovane collega



Moriva vent'anni fa, ammazzata in Afghanistan. Fino a due anni prima era solo una precaria, fra sostituzioni di maternità e contratti a termine

di Mauro Suttora

HuffPost, 15 novembre 2021

Adesso Maria Grazia Cutuli è una via di Milano, fra Lambrate e l'Ortica. Fu ammazzata in Afghanistan vent'anni fa, il 19 novembre 2001. Due suoi assassini sono stati condannati nel 2018 in Italia a 24 anni. Erano in carcere a Kabul, chissà se quest'estate i talebani li hanno liberati. 

Speriamo che nel ventennale della sua morte i giornalisti italiani non la definiscano ancora «giovane collega»: non si è più giovani a 39 anni. Quanto alla «collega», anche lì ci andrei cauto: fino a due anni prima Maria Grazia era solo una precaria, fra sostituzioni di maternità e contratti a termine.

Proprio come tutti i «martiri» della corporazione che, ha notato sarcastico il Guardian inglese, ha bisogno di «eroi» per giustificare le proprie sudditanze e frustrazioni. Giancarlo Siani, ucciso nell’85 dai camorristi, era un abusivo del Mattino di Napoli; Ilaria Alpi non era assunta dal Tg3. 

E Antonio Russo, assassinato nel 2000 in Georgia? Dimenticato perché cronista di Radio radicale, denuncia il Guardian. Eppure Russo fu l’unico giornalista al mondo che nel 1999 rimase a Pristina sfidando le deportazioni e le stragi serbe in Kosovo, ricevette premi per questo. Poi però si era intestardito a occuparsi di argomenti «a perdere» come la Cecenia, massacrata dai russi.

Con la Cutuli fu ucciso Julio Fuentes. Lo conobbi quando era a Milano come corrispondente del quotidiano spagnolo El Mundo e stava con Maria Grazia. Lui sì che potè fare il suo mestiere da «giovane». Perché, come succede nei media di tutto il pianeta tranne l’Italia, in Spagna i reporter hanno 20-30 anni. Si comincia così, andando in giro con curiosità ed energia: è il primo gradino del cursus honorum, anche poco pagato. Poi, una volta quarantenni, messa su pancetta e famiglia, ci si fissa in redazione, si incassa l’aumento e si diventa writer, editors, capiredattori, «culi di pietra».

Da noi invece accade il contrario: la nomina a inviato speciale arriva verso i 40-50 anni, cioè proprio quando la disponibilità a «consumare la suola delle scarpe» diminuisce. È capitato a Ettore Mo, il migliore di tutti, e anche alla Cutuli nominata inviata «sul campo». Santo.

Risultato: ogni volta che sono andato per guerre ho incontrato due tipi di giornalisti. C’erano gli americani, inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, che partivano all’alba e tornavano in albergo impolverati solo verso sera, per trasmettere i loro servizi. Poi c’era il gruppetto degli italiani, distinti e simpatici cinquantenni che distillavano preziose analisi geopolitiche ai bordi piscina, sorseggiando cocktail e controllando ogni tanto le agenzie per vedere se era successo qualcosa.

Non li biasimavo: alla loro età sarebbe stato crudele spingerli fuori, nel fango, fra le pietre, non parliamo di sacchi a pelo, i reumatismi. Uno dei più brillanti di loro, stanziato per un mese nel 1990 all’Intercontinental di Amman durante la prima guerra del Golfo, aspettando inutilmente il visto per Bagdad, riuscì a farsi confezionare due completi su misura da un sarto giordano, a spese del giornale.

Un altro, al quale l’allora mio direttore Vittorio Feltri aveva chiesto una copia di un qualsiasi giornale iracheno, per tradurlo e allegarlo al settimanale Europeo, gli rispose che non si trovavano più. Appena atterrato ad Amman feci fermare il taxi al primo incrocio, comprai da uno strillone un quotidiano stampato a Bagdad e lo spedii a Milano. «Ma qui, nell’edicola interna dell’hotel, non li vendono più», mi spiegò il grande inviato speciale, «e fuori è pericoloso uscire, da quando gli arabi hanno picchiato Lilli Gruber».

Un’altra particolarità italiana sono i posti da corrispondente estero. Siamo gli unici al mondo a non farli ruotare ogni tre anni, come capitò anche a Fuentes. La loro principale funzione, da noi, è accogliere ex direttori o caporedattori trombati, possibilmente ignari della lingua locale.

Ecco, anche di queste buffe cose parlavamo con Maria Grazia. Dei giovani giornalisti italiani costretti a marcire per anni di fronte a un computer mentre i loro coetanei dei media esteri raccontano il mondo, magari in classe economica, in bus, in treno, in alberghi non a 5 stelle, magari senza autista privato, scorta militare e traduttore al seguito. Magari in bici, come Beppe Severgnini a Pechino nel 1989 prima della strage di piazza Tian an men. E i loro colleghi «anziani» intanto facevano colazione con ambasciatori e collezione di note spese, telefonavano a mogli, amanti, e scacciavano la noia con un bicchierino o due.

Ultimamente le cose sono migliorate: a turno, ogni tanto, con cautela, anche i giovani vengono spediti fuori dalle redazioni, a prendere un po’ d’aria. A scoprire com’è fatta la realtà. «Ma ormai c’è la rete», obiettano i direttori, molti dei quali non si sono mai spinti (professionalmente) oltre Milano e Roma. Fanno bene: si diventa direttori così in Italia, mica cercando notizie a Peshawar o a Cinisello Balsamo. Anche perché, scriveva il collega Benjamin Franklin, «le notizie sono solo quelle che dispiacciono a qualcuno. Tutto il resto è pubblicità». La Cutuli lo aveva capito, e per questo era considerata una rompicazzo tremenda. Altro che «giovane collega», valorosa postuma.

Mauro Suttora

Saturday, September 22, 2018

Grillini e preservativi


I CINQUESTELLE SI OCCUPANO DI PRESERVATIVI

di Mauro Suttora

Libero, 22 settembre 2018

La democrazia diretta dei grillini? Funziona. Ma solo sui preservativi. In questi giorni tutti gli iscritti al Movimento 5 stelle (M5s) hanno ricevuto una mail dalla società Casaleggio & associati per dirimere una questione fondamentale: è giusto che i profilattici abbiano l’Iva al 22%, o sarebbe meglio ridurla al 10%?

Non stiamo scherzando. Il senatore grillino Gaspare Antonio Marinello, 63enne dottore all’ospedale di Sciacca (Agrigento), forse per sfuggire alla noia dei parlamentari peones, ha presentato una proposta di legge di due articoli per abbassare la tassa sui preservativi.

Nobili le sue motivazioni: «Sono  357 milioni le nuove infezioni sessuali ogni anno, di cui una su quattro su quattro rappresentate da: clamidia, gonorrea, sifilide e tricomoniasi. Un adolescente su venti presenta un’infezione batterica di questo tipo», scrive nella lunga relazione che è stata pubblicata dalla piattaforma Rousseau, massimo (e unico) organo decisionale del primo partito italiano.

Il senatore è preoccupato: «La distinzione tra contraccezione e prevenzione non è sempre chiara tra i giovani. Il 70% usa il profilattico come strumento di prevenzione, ma il 17% dichiara di ricorrere alla pillola anticoncezionale, collocandola erroneamente tra gli strumenti di prevenzione».

Quindi, più preservativi per tutti: «Nonostante siano considerati dispositivi medici, il prezzo in Italia continua ad essere molto elevato a causa, anche, dell’Iva applicata al 22%». Soluzione: aliquota agevolata al 10%.

Fra due mesi tutti i cittadini aderenti al M5s potranno democraticamente votare sulla proposta del senatore Marinello. Di nuovo sovrani sul proprio destino di consumatori di preservativi. E se il voto online avrà esito positivo, il prezioso disegno di legge verrà depositato in senato.

Sulla piattaforma Rousseau si è già acceso il dibattito: «Ma con tutti i mega problemi che ci sono, infinitamente più seri e importanti, ai preservativi ha pensato?! Non aggiungo altro…», scrive l’iscritto Andrea Ferruccio Chiarini.

Gli risponde Massimiliano Milazzo: «Il fatto che esistano problemi più gravi non significa che non debbano essere affrontati anche quelli più piccoli».

Obietta il tradizionalista Filippo Dalla: «Non credo che l'abbassamento dell'iva sui preservativi sia la via giusta per combattere le malattie sessualmente trasmissibili. Una buona formazione su una sessualità ordinata (non certo incentivando la promiscuità sessuale) e un cammino sull'affettività (più che sul sesso) potrebbero fare molto di più. Vi suggerisco inoltre di approfondire il discorso sui metodi naturali, che non costano nulla».

Più concreto Maurizio Barzi: «Sono contrario, non credo che diminuire in modo molto marginale il prezzo dei preservativi aiuti. Piuttosto, sarei per investire la stessa cifra, con le stesse coperture, in educazione sessuale. Non credo che le persone che oggi non comprano i preservativi perchè costano 10 euro li comprino perchè dopo costeranno 8».

Romano Racanella invita i senatori grillini a coordinarsi: «Facciamo una legge unica per Iva agevolata per prodotti per l’infanzia, preservativi, medicine, e poi parlatevi tra di voi: Pierpaolo Sileri propone la stessa cosa per prodotti per l’igiene intima femminile».

E mentre i senatori grillini si dilettano con gli assorbenti per le signore, i loro capi si guardano bene dal far votare la mitica «base» dei cittadini su argomenti più scottanti come Ilva, Tav o Tap: lì potrebbero avere sgradevoli sorprese.
Mauro Suttora




Friday, October 03, 2014

Andiamo a vedere come fanno in Svizzera

di Mauro Suttora

3 ottobre 2014

numero speciale di Dissensi e Discordanze, direttore Mauro della Porta Raffo

articolo originale su Dissensi e Discordanze

Quando avevo quattro anni, i pedalò sul lago a Lugano.
E la parola Monteceneri scritta sulla grande radio a valvole di mio padre.
Quarant’anni dopo, Fox Town e Serfontana.
Questa è la Svizzera che ci fa sognare.
Noi lombardi che almeno una volta abbiamo votato Lega sperando che, senza la zavorra Roma+Sud, la Lombardia diventi un grande Canton Ticino.
Noi cinefili che ogni agosto ci siamo consolati delle mancate vacanze correndo una sera a Locarno per una magica proiezione in piazza.
Noi ecologisti che festeggiammo il no svizzero alle centrali atomiche nel referendum del 1990 (Vittorio Feltri, allora mio direttore all’Europeo, nuclearista disarmante: «Radioattività? Tanto di qualcosa bisogna morire»).
Noi anarchici sulle orme di Bakunin e Kropotkin, noi libertari in pellegrinaggio steineriano al monte Verità di Ascona.
Noi federalisti che ammiriamo l’autonomia dei cantoni (Glarus può decidere addirittura che non desidera immigrati slavi).
E perfino noi grillini (scettici), studenti di democrazia diretta negli unici due posti al mondo dove si vota in piazza alzando la mano: Glarona e Appenzello.
Poi, ovviamente, abbiamo anche letto Jean Ziegler, e sappiamo che le banche svizzere “lavano più bianco”.
Abbiamo passeggiato nelle città elvetiche dopo le sei del pomeriggio o al sabato, la domenica: c’è più vita in un cenotafio.
Ma l’amore per la Svizzera resta immenso.
Da trent’anni, una volta al mese, come giornalista propongo: “Andiamo a vedere come fanno lì”.
Così nel 1987 feci vincere un premio a Gianfranco Moroldo, fotografo di Oriana Fallaci, che riuscì a inquadrare un soldato svizzero appostato accanto a una mucca durante una nostra inchiesta dell'Europeo sull’esercito ‘di popolo’. [articolo sull'Europeo]
Poi, nel 1999, il beatle George Harrison che scelse Lugano per farsi curare il tumore.
Due anni fa un’altra occasione triste: visita alla clinica della dolce morte dove Lucio Magri si fece eutanasizzare.
Ogni volta che posso mi faccio invitare dalla mia amica Januaria Piromallo nella sua villa di Gstaad.
Lì, acquattati negli hotel, stanno tutti i miliardari greci che, se riportassero i loro patrimoni a casa, risolverebbero la crisi del loro Paese.
Durante l’ultimo viaggio tornando da Strasburgo, aprile 2014, una fantastica scoperta: l’ascolto guidato, alla radio Svizzera italiana, di una sinfonia di Mendelsohn.
Sono questi i piaceri della vita, oltre all’erba rasata a zero e i fiori perfetti nelle aiuole.
Mauro Suttora

Wednesday, July 11, 2012

parla Oscar Giannino

LA RICETTA LIBERISTA DEL CERVELLO DELL'ISTITUTO BRUNO LEONI

di Mauro Suttora

Oggi, 20 giugno 2012

«Lo stato non è padre e neanche padrone: è padrino!» «Vendere subito il patrimonio immobiliare statale per alleggerire debito e tasse!»

Se si googla «Oscar», subito dopo il premio del cinema e Wilde esce lui, con mezzo milione di citazioni: Oscar Fulvio Giannino da Torino. Ogni giorno alle nove del mattino e della sera (in replica) conduce un programma di successo su Radio 24, scagliandosi contro politici, stato e imposte. Lo fa stando in piedi, vestito da dandy come il suo omonimo Wilde.

Ora ha ottenuto un successo: il premier Mario Monti promette massicce dismissioni del patrimonio pubblico. Che lui invocava da mesi: «Avrebbe dovuto farlo il primo giorno di governo, invece di aspettare mezzo anno caricandoci di altre tasse».

Questa sua piccola vittoria personale ha spinto Giuseppe Cruciani, altro conduttore di Radio 24 (La zanzara), a lanciare lo slogan «Oscar for president». Scherzoso ma non troppo. Giannino infatti, che è anche editorialista di Panorama e dei quotidiani di Caltagirone (Messaggero, Mattino, Gazzettino), da vent'anni fa il giornalista: capo dell'economia al Foglio di Giuliano Ferrara e a Libero di Vittorio Feltri. Ma prima era in politica: «Mi sono iscritto al Pri a tredici anni, affascinato da Ugo La Malfa. Poi, con Spadolini, ero segretario dei giovani repubblicani. Quando i giovani facevano politica sul serio: eravamo 15 mila. Infine, portavoce del partito».

Gli altri portavoce si chiamavano Mastella, Martelli, Veltroni, e Giannino li rintuzzava ogni giorno. Con l'eloquio torrenziale ma preciso che oggi esibisce nella radio degli industriali. Dove qualcuno storce il naso: troppo aggressivo contro il governo, troppo estremista, liberista, quasi leghista.

«È una beffa della storia», dice incurante lui, «che dopo vent'anni proprio ora la Lega Nord, messa in ginocchio dal Trota, veda trionfare le proprie tesi sul Financial Times, che prevede un Euro diviso in due: quello attorno alla Germania, cui si aggrega la Padania, e quello mediterraneo per il resto d'Italia».

Giannino è uno dei cervelli più brillanti dell'Istituto Bruno Leoni, think tank libertario ma non berlusconiano. E ogni mattina demolisce quelli che definisce «miti»: «Il primo è che la colpa della crisi sarebbe di Angela Merkel. Ma i tedeschi ci hanno avvisato per anni che non avrebbero mai assunto debiti di altri Paesi. L'hanno scritto perfino nella Costituzione. Loro nel 2002-2006 hanno tagliato di sei punti spesa pubblica e tasse, alzando reddito e produttività. Sacrifici che hanno rafforzato l'export. Da noi nulla, invece. E pensare che il nostro Nordest ha una forza industriale perfino superiore alla loro».

Gli altri miti?
«Stampiamo moneta, dateci una Bce come la Fed statunitense. È una fesseria colossale, finché i mercati restano separati e senza unità politica, o almeno una politica economica comune. A meno che non si voglia un’Europa come l’Impero Romano d’Oriente, con moneta in perenne svalutazione. O come l’Italietta dopo gli anni Sessanta. Mito numero tre: è un complotto della grande finanza mondiale che specula, restituiamo alla politica il potere di battere moneta. È una teoria complottista degna di Giacobbo».

La parola magica è «crescita».
«Sì, ma sostenuta come? Estremisti keynesiani come Krugman propongono un deficit pubblico anche a doppia cifra pur di finanziarla. Ma la ricetta non è applicabile all'Italia, con debito al 120%. Il nostro Stato succhia per sé già troppe risorse. Rispetto a vent’anni fa il nostro prodotto procapite è cresciuto del 9%. Eppure il reddito procapite è sceso del 4%. Dove sono finiti, quei 13 punti che mancano nelle tasche degli italiani? Se li è pappati il signor stato, per pagare una spesa pubblica in perenne crescita, oggi oltre il 60% del Pil legale, cioè di chi le tasse le paga».

Ma l'euro è stato un affare?
«Ecco un altro luogo comune! Certo, da quando c'è l'euro ci siamo impoveriti. Ma la colpa, come ho appena spiegato, è della spesa statale. L’euro ci ha regalato 7 punti di Pil annui di minori interessi sul debito, prima che esplodesse lo spread dall’estate scorsa. Ma questi soldi hanno aumentato la spesa pubblica, invece di creare più investimenti con meno tasse. L’euro non è un bene assoluto: se i mercati restano separati e non funzionano come vasi comunicanti per costi e produttività, l’euro non può e anzi non deve reggere. Ma noi siamo il secondo Paese esportatore manifatturiero del continente, e operare a moneta unificata nel più grande mercato di consumo mondiale - l’Europa è ancora questo, non per molto - è stato un grande vantaggio per moltissime imprese».

Che fare, allora?
«L’Italia deve abbattere il suo mostruoso debito pubblico dismettendo patrimonio pubblico, e non picchiando nelle tasche dei cittadini. Tutto il mattone statale, cioè per cominciare almeno 400 miliardi, 27 punti di pil, va girato a un fondo immobiliare gestito tramite gara da privati, che lo cederanno nei tempi più adeguati al miglior realizzo. Questo fondo potrebbe emettere obbligazioni per una volta e mezzo almeno la stima del patrimonio».

È questa la ricetta per Monti?
«Sono molto deluso dal governo, che pure nel mio piccolo ho contribuito a legittimare di fronte a centinaia di migliaia di ascoltatori ogni giorno, prima della sua nascita e ai suoi primi atti. Non ha toccato la montagna stregata della pubblica amministrazione. Che pena questi “tecnici” che presentano come gran cosa tagliare 4 miliardi su 700 di spesa pubblica, cioè lo 0,57%, quando decine di migliaia di imprese italiane affrontano crisi in cui si taglia anche il 25-30% di costi da un anno all’altro».

Cosa devono fare, invece?
«Abbattere il debito con le cessioni pubbliche, ma nel frattempo tagliare anche la spesa per un equilibrio di entrate a un livello ben più basso di quello immaginato da Monti con la manovra triennale. Risparmiare in tre anni di impegno pancia a terra 6-7 punti di pil di spesa improduttiva, da tradurre a parità di saldi in abbattimenti fiscali per lavoro e impresa. In ballo c’è la sopravvivenza economica dell’impresa e del lavoro italiani. Con uno Stato molto più magro, e perciò costretto a diventare più efficiente».
Mauro Suttora

Wednesday, June 15, 2011

2011: fuga da Berlusconi?

DOPO LA SCONFITTA A MILANO E NAPOLI, I LEGHISTI E PERFINO QUALCUNO NEL PDL LO CONSIDERA UNA ZAVORRA

di Mauro Suttora

Oggi, 8 giugno 2011

Bollito. Debole. Esibizionista. Re Mida al contrario. E poi leggero, imprudente, logoro, nervoso, ossessionato dai giudici, bislacco, poco lucido... Perfino «ingessato come Breznev». Così è stato definito Silvio Berlusconi dopo il voto del 30 maggio. Ormai il centrodestra, perse Milano, Napoli, Trieste e Cagliari, non governa più alcuna grande città d’Italia tranne Roma e Palermo. Un disastro.

La novità è che questi giudizi contro il premier non sono stati pronunciati da avversari, ma da esponenti del suo partito o alleati. Il candidato sindaco napoletano Gianni Lettieri addirittura non voleva che Berlusconi partecipasse al concerto di chiusura della campagna elettorale con il cantante Gigi D’Alessio. Invece il capo è arrivato, per la prima volta dopo 18 anni è stato contestato, e alla fine il dipietrista Luigi De Magistris ha trionfato con il 65 per cento. Cosicché Berlusconi, forse temendo altri fischi, è andato in auto alla parata militare del 2 giugno a Roma, senza concedersi il bagno di folla (plaudente) degli anni scorsi.

Cos’è successo? 2011, fuga da Silvio? Neanche nella sua piazza Duomo a Milano il premier si è fatto vedere al comizio finale per il ballottaggio di Letizia Moratti. E pensare che fino a pochi mesi fa la sua presenza era contesa ovunque ci fosse un’elezione: bastava una sua apparizione per far vincere perfetti sconosciuti del Pdl, dalla Sardegna agli Abruzzi. «Era come re Mida, trasformava in oro tutto ciò che toccava. Ora invece...», sibilano i leghisti. Adesso qualcuno considera Berlusconi quasi una zavorra. «Il suo modo di comunicare non funziona più», lo boccia Paolo Glisenti, consulente della Moratti. Insulto sanguinoso, per colui che perfino i nemici ammettono sia stato il mago indiscusso della comunicazione negli ultimi trent’anni in Italia, prima con le tv e poi in politica.

Cominciano le defezioni. Elio Catania, capo dell’Atm milanese famoso per gli otto milioni di liquidazione ricevuti dal centrodestra dopo due soli anni non brillanti alle Fs, si è subito proposto con un’e-mail al nuovo sindaco di Milano Giuliano Pisapia. La vistosa sottosegretaria Daniela Melchiorre ha lasciato l’incarico appena ricevuto. L’ex presidente di Confindustria Antonio D’Amato ha votato De Magistris. E anche il presidente della Bpm (Banca popolare di Milano), l’ex prodiano Massimo Ponzellini, sembra pronto a un altro salto della quaglia. Piccoli episodi, ma indicativi di un cambio di vento. «Viviamo alla giornata», confessa la parlamentare Pdl Deborah Bergamini.

L’unica deputata berlusconiana che finora ha avuto il coraggio di dissociarsi pubblicamente è la bionda bolzanina Micaela Biancofiore: «In queste condizioni il Pdl non va da nessuna parte», ha sbottato, minacciando addirittura di fondare un nuovo partito. Poi però ha precisato che se Silvio la chiamasse personalmente, potrebbe recedere. Così come hanno fatto nei mesi scorsi le ministre Mara Carfagna e Stefania Prestigiacomo, riconquistate dopo pochi giorni di capricci dal fascino (politico) del capo.

Ecco, il carisma: «Berlusconi ha perso altre volte, ma nel ’96 e nel 2006, dopo le sconfitte con Prodi, il suo carisma era fuori discussione», spiega Giuliano Ferrara, berlusconiano di ferro. Ora invece «Berlusconi è indebolito, sta prendendo tratti di immobilismo impressionanti. È risucchiato da una logica conservatrice che lo isola e lo induce a un monologo ripetitivo».

Più brutale Vittorio Feltri, altro campione del centrodestra: «Berlusconi è talmente preso dalle sue cose che non ha più testa per pensare ai cittadini. Per questo il vento ha cominciato a cambiare. L’uomo è robusto, ma ha le sue debolezze. Mi riferisco alle donne, ma non solo: c’è anche la mania di esibirle. Il Cavaliere ha esagerato. Prima Noemi, poi la D’Addario, infine il fragoroso epilogo del bunga bunga, Olgettina, Minetti e Ruby. Anche i tifosi di Berlusconi hanno arricciato il naso. Se si fa la somma delle sue leggerezze, si comprende perché molti elettori si sono stancati».

E i processi, la guerra con i magistrati? «Per anni hanno procurato voti perché c’era la convinzione che il premier fosse vittima di un intrigo. Ma negli ultimi tempi hanno dato l’impressione di assorbire tutte le sue energie fisiche e mentali».

Le conclusioni di Feltri sono drastiche: «Nel Pdl la parola d’ordine è “Si salvi chi può”. Ciascuno cerca di arraffare e di assicurarsi un bottino per sopravvivere. Spero di sbagliarmi, ma se si va avanti così fra poco chi ha issato Silvio sul piedistallo più alto si impegnerà a farlo precipitare con gran fragore».

Addirittura? E chi sarà il Pietro che rinnegherà prima che il gallo canti? Il ministro della Cultura Giancarlo Galan, già governatore del Veneto, non ha dubbi: «Il vecchio nucleo centrale di Forza Italia è nettamente distinto da altre esperienze. Per esempio quella di Formigoni. Anche la fusione con An è stata uno sbaglio. Oggi nel Pdl cercano di dettar legge La Russa e Alemanno che, con tutto il rispetto, hanno un’altra storia e valori diversi dai nostri, liberali e moderati. Forse loro sono lì che piangono perché in Italia c’è il divorzio, invece noi siamo felici».

E, in polemica con avversari del testamento biologico come il ministro Maurizio Sacconi, la sottosegretaria Eugenia Roccella o il vicepresidente dei senatori Pdl Gaetano Quagliariello, il laico Galan aggiunge: «Volevamo meno regole, e ora pretendiamo di regolamentare perfino gli ultimi minuti di vita di un malato. Ma almeno da queste elezioni è uscito qualcosa di positivo: la saldatura fra i fondatori di Forza Italia e nuove personalità come Alfano, Frattini, la Prestigiacomo».

Angelino Alfano, nuovo segretario unico del Pdl: riuscirà a governare il Pdl, tenerlo unito, e far durare la legislatura fino alla scadenza naturale del 2013? La Lega Nord non tradirà? Chi sarà il nuovo candidato premier? Anche il Pdl organizzerà primarie per stabilirlo, e con quali regole? Ma soprattutto: Berlusconi accetterà il pur fedele Alfano come delfino, oppure anche lui farà la triste fine degli altri eredi designati (Pierferdinando Casini, Gianfranco Fini, Giulio Tremonti)?

Fra tre mesi Silvio compie 75 anni. È l’età in cui perfino i cardinali vengono mandati in pensione. Ma c’è da scommettere che, dopo 17 anni in cui ogni settimana gli avversari lo hanno dato per finito, Berlusconi si senta ancora assai in forma. «Teniamocelo, a costo di rimetterlo a nuovo», dice Feltri. «Anche se il motore batte un po’ in testa, meglio lui revisionato che qualche rottame comunista riverniciato di buonismo». Insomma la lotta continua, nonostante tutto. I berlusconiani possono criticarlo, anche con durezza. Possono litigare e dividersi fra loro. Ma, come dice Ferrara, «Berlusconi è ancora senza alternative per il suo movimento popolare».

Mauro Suttora

Tuesday, April 19, 2011

Feltri, ora fai il pacifista?

BISOGNA AIUTARE GLI INSORTI LIBICI

editoriale su Libero, 19 aprile 2011

di Mauro Suttora

Caro Feltri, vent’anni fa, quand’eri mio ottimo direttore all’Europeo, Saddam invase il Kuwait e scoppiò la prima guerra del Golfo. Io ero antimilitarista, tu invece trovavi giusto che l’Italia mandasse aerei a bombardare l’Iraq con gli Usa. Ora è il contrario: io sono diventato militarista, tu pacifista. «Abbiamo sbagliato a intervenire in Libia», sostieni.

Sono appena tornato da Bengasi. Lavoro per un settimanale, Oggi, quindi non ho dovuto «coprire» l’attualità quotidiana della guerra. Ho cercato invece di rispondere alle domande che tutti ci poniamo da due mesi: chi sono gli insorti della nuova Libia libera? Vale la pena aiutarli? Ho così intervistato alcuni dei tredici “ministri” del loro governo provvisorio.

Ahmed Zubair Al Senussi, per esempio, il loro decano: 77 anni, cugino del principe Idris di cui avete pubblicato proprio domenica (sotto il tuo articolo) una bella intervista da Washington. Il mio Senussi, anch’egli della famiglia reale cacciata da Gheddafi nel ’69, è soprannominato «Mandela libico» perché è stato in carcere 31 anni (perfino più dei 27 del Nobel della pace).

Arrestato nel ’70 per aver tramato contro il dittatore, che lo ha torturato (non ha più le dita dei piedi) e tenuto in isolamento totale senza vedere la luce del giorno per undici anni. «Come ha fatto a non impazzire?», gli ho chiesto. «Pensavo a mia moglie e leggevo il Corano».

Ecco, penso io, il solito islamista che si finge tollerante ma poi, conquistato il potere, fa finire la Libia come l’Iran, l’Afghanistan talebano o Gaza. Poi però mi dice che il Corano è stata la sua unica lettura solo perché non gliene permettevano altre: «Invidio Mandela che in prigione aveva tanti libri, e poteva essere visitato dai familiari». I parenti di Senussi, invece, non seppero per una dozzina d’anni se fosse vivo o morto. E quando suo fratello ebbe il permesso di andarlo a trovare la prima volta, fu per dirgli che la moglie Fatima era scomparsa.

Liberato nel 2001, oggi Senussi assicura che gli insorti vogliono libertà, una democrazia «liberale», legalità, rispetto dei diritti e delle minoranze. Che i musulmani libici sono tolleranti. E che ama l’Italia, visitata con sua moglie nel ’66 («Belle Roma e Milano, stupenda Palermo»).

Gli stessi propositi voltairiani me li ha giurati nel suo compìto francese Salwa Deghali, trentenne prof universitaria di legge, tre figli, unica donna del governo. È reduce da quattro anni alla Sorbona di Parigi per un dottorato in diritto costituzionale. E Fathi Terbil, il giovane avvocato che assiste le famiglie dei 1.270 trucidati nel massacro del carcere Abu Selim di Tripoli del 1996: il suo arresto lo scorso 15 febbraio ha scatenato la rivolta.

Ci sono poi Omar Hariri, il 75enne ministro della Difesa, pure lui con una dozzina di anni di carcere sulle spalle. E Mahmud Jibril, ministro degli Esteri, ex docente universitario di economia negli Usa: quando parla risulta così sincero che ci ha messo solo mezz’ora per convincere Sarkozy a salvare i civili di Bengasi da una strage il 19 marzo, e pochi minuti in più per far riconoscere da Frattini la Libia libera il 4 aprile.

Sono sicuro che anche tu, caro direttore, se potessi conoscere i nuovi dirigenti di Bengasi cambieresti idea. Sono gente come noi: ingegneri, professori, magistrati, avvocati, giornalisti, improvvisamente catapultati a governare un Paese. E a combattere contro uno dei tiranni più feroci e longevi della Terra: solo Fidel Castro è durato più dei 42 anni di Gheddafi.

«Ancora non ci rendiamo bene conto di essere liberi, a volte ci sembra di sognare», mi hanno confessato. Per questo, forse, devono ringraziare anche i «traditori», come tu (correttamente) li chiami: il generale Fattah Younis, comandante della piazza di Bengasi che si è rifiutato di sparare contro la folla, o l’anziano ex ministro della Giustizia Mustafa Jalil nominato presidente del consiglio provvisorio in mancanza di meglio.

Mentre camminavo per le strade di Bengasi, così uguali a quelle di una nostra cittadina meridionale degli anni ’50, stesse case, alberi e piastrelle sui marciapiedi, pensavo agli eroi che abbiamo appena festeggiato in Italia dopo 150 anni: Garibaldi, Mazzini, Cavour. Non prendiamoci in giro: oggi frasi come «combattere per la libertà» ci appaiono francamente desuete. Io per primo, confesso, piuttosto che rischiare di morire in guerra probabilmente emigrerei in Canada. E sai quanto sono allergico alla retorica.

Eppure, se oggi nel mondo c’è qualche giovane «eroe» che dà la vita per la libertà, bisogna cercarlo fra gli entusiasti ragazzotti libici che partono per il fronte di Brega. Sventolano bandiere italiane, francesi, inglesi e americane, oltre che libiche. Perfino quelle blu dell’Europa e azzurre dell’Onu, incoscienti. Abbracciano sorridenti qualsiasi giornalista straniero incontrino. Chiedono «Help us!», aiutateci.

Poi, dopo qualche giorno, magari la loro foto finisce incollata sul compensato del nuovo «muro del pianto» sul lungomare di Bengasi, vicino a quelle delle altre vittime degli assassini professionisti di Gheddafi. Loro sono volontari dilettanti, come i Mille. Per questo perdono e ci innervosiscono. Senza la protezione degli aerei Nato verrebbero spazzati via in poche ore.

I loro amici, nel collegamento wi-fi che offrono gratis ai computer degli ormai pochi giornalisti stranieri rimasti (la Libia non fa più notizia, che palle lo stallo), hanno messo la sciagurata password: “We win or we die”: o vinciamo o moriamo. Aiutiamoli a rinsavire. E quindi a vivere, se non a vincere. Per ora, che si accontentino di una Libia libera a metà.

Caro Feltri, sono sicuro che troverai argomenti per farmi cambiare idea, e distogliermi da questa inedita deriva bellicosa che stupisce me per primo.
Tuo ex antimilitarista

Mauro Suttora

Wednesday, October 27, 2010

Daniela Santanchè

LA ZARINA DI BERLUSCONI

di Mauro Suttora

Oggi, 20 ottobre 2010

Secondo i più appassionati fra i suoi sostenitori, Silvio Berlusconi è un misto di Gesù Cristo, Napoleone, Giulio Cesare e re Sole. Quindi, ora che il premier sembra essersi stufato dei vari Bondi, Cicchitto, La Russa, Verdini, Gasparri e Quagliariello che lo attorniano ma creano solo casini (o ci sono finiti dentro), Daniela Santanchè è messa benissimo. A detta di alcuni, sarà lei la nuova segretaria del Popolo delle libertà.

Gesù, infatti, amava i figliol prodighi. Affidò addirittura la Chiesa a Pietro, che lo rinnegò tre volte. E allora, che importa se nel 2008 la Santanché tradì Berlusconi con Storace, osando perfino candidarsi premier contro di lui? Silvio l’ha perdonata. Anzi, l’ha nominata sottosegretaria otto mesi fa, visto che non avendo raggiunto il quattro per cento è rimasta fuori dal Parlamento, come Bertinotti.

Napoleone amava i colpi di scena. Vinceva battaglie e guerre perché era imprevedibile. Proprio come Silvio. Che dopo la sorpresa del predellino, ce ne sta sicuramente apparecchiando altre. Santanchè compresa.

E poi Giulio Cesare. Al diavolo i cursus honorum: prima di lui, per comandare nell’antica Roma (diventando console) bisognava inerpicarsi in una noiosa carriera da politico di professione: tribuno, questore, edile, pretore, censore... Il divo Giulio fece piazza pulita di tutta questa burocrazia. E così anche Berlusconi, il quale ha magicamente creato dal nulla eurodeputate ventenni e ministri trentenni, senza costringerli a gavette da consiglieri circoscrizionali o provinciali prima di portarli a Strasburgo o al governo. Nulla osta, quindi, che la Santanché venga installata a capo del primo partito d’Italia: in fondo fa politica da undici anni, tempo abbastanza lungo per i fulminei parametri berlusconiani.

E Luigi XIV di Francia? Nella Versailles del ’700 l’importanza dei ministri si misurava con la loro vicinanza al re Sole durante i banchetti. Oggi, con l’«accessibilità» a Berlusconi ad Arcore o a palazzo Grazioli. E da qualche mese la Santanché, invidiatissima, è una delle poche cui Silvio risponde sempre quando lei telefona, o porge l’orecchio se gli sussurra nelle riunioni. Ormai è fidatissima: quasi quanto l’indispensabile Letta e gli scudieri della giustizia, il ministro Alfano e l’avvocato Ghedini.

Se Berlusconi non riuscirà a issare Daniela al comando unico del Pdl, quindi, sarà più che altro per non dispiacere alle altre pretendenti. Si mormora infatti di un triumvirato rosa shocking, con la Santanché affiancata dalle junior Mariastella Gelmini (ex Forza Italia) e Giorgia Meloni (ex An). E ambizioni ne hanno molte altre suscettibili favorite (politiche), dalla veterana Prestigiacomo alla Carfagna, fino alla più recente ma scalpitante Brambilla.

Intanto, l’inesauribile zarina continua a macinare affari, uomini e politica. Dopo la discoteca Billionaire di Porto Cervo con Flavio Briatore e Lele Mora, e lo stabilimento Twiga di Forte dei Marmi (200 euro al giorno, soci ancora Briatore più Paolo Brosio e Marcello Lippi), si è lanciata nella pubblicità. La sua Visibilia (14 milioni di fatturato, 12 di debiti) fino a tre settimane fa riusciva nel miracolo di essere contemporaneamente la concessionaria di due quotidiani concorrenti: Libero e Il Giornale. Adesso Belpietro si è sganciato, accusandola di avere privilegiato Feltri. E si capisce: con il secondo Daniela vorrebbe rilevare la proprietà del Giornale da Paolo Berlusconi, oppure fondare una nuova testata di cui ha già depositato il nome: Fuori dal coro. Intanto, lavora anche per i giornali gratuiti DNews e Metro, e per il nuovo settimanale Io Spio.

Ora poi è anche sentimentalmente legata ad Alessandro Sallusti, numero due di Feltri. E numero tre dei suoi compagni, dopo il chirurgo estetico Paolo Santanchè, sposato nell’82 a soli 21 anni, e l’industriale farmaceutico lucano Canio Mazzaro. Quel che pensa degli uomini che reputa poco decisi, come Fini e gli ex colleghi di An, Daniela lo ha detto chiaramente: «Hanno le palle di velluto». Poi si è corretta: «Ora è estate, ce le hanno di lino». Altre sue frasi passate alla storia: «Per fare carriera non l’ho mai data», e «Berlusconi è ossessionato da me. Tanto non gliela do...»

In politica, la Santanché ultimamente si è specializzata nell’anti-islamismo. Scelta intelligente, lavoro assicurato per i prossimi trent’anni. Richiestissima nei dibattiti tv come interlocutrice aggressiva di imam: baruffa, share e blob garantiti. Una volta è riuscita a dire in diretta: «Maometto era un pedofilo. L’ultima delle sue mogli aveva nove anni». Putiferio. Ora deve girare con la scorta.

Mauro Suttora

Wednesday, September 01, 2010

parla Benedetto Della Vedova

"VOGLIAMO SOLO UN PARTITO DI CENTRODESTRA MODERNO"

Oggi, 25 agosto 2010

di Mauro Suttora

Della Vedova, che ci fa con tutti quei «terroni»?
L’imperturbabile Benedetto valtellinese, «colombissima» finiana, non si scompone: «I settentrionali non ci mancano: Valditara, la Moroni, la Germontani, Menia...»
Ma la stragrande maggioranza di voi 44 parlamentari di Libertà e futuro è meridionale. Infatti si parla di nuova «Lega Sud».
«Fini fa bene a chiedere garanzie sul federalismo. Ora sono in Grecia in vacanza: a causa di Atene perfino la Germania ha tremato. Allo stesso modo, la Lombardia non può ignorare Calabria e Sicilia. Lo dice uno come me, che più di nord non si può...»
È di Sondrio anche il suo ex amico Tremonti.
«Lo conobbi nel 2000, quando trattai con lui per conto di Pannella. Poi purtroppo invece della Bonino scelse Bossi. E oggi non posso condividere le sue analisi contro il mercatismo».
Così come Berlusconi condivide pochissimo di Fini.
«L’unica cosa che vogliamo è un centrodestra moderno, europeo. Come quelli di Cameron, Merkel, Sarkozy. Diventati premier dopo confronti intestini non da poco».
Proprio quel che Silvio detesta: le lotte interne ai partiti.
«Ma tutti i partiti del mondo democratico sono “contendibili”: c’è competizione di idee, e ci si conta nei congressi, o alle primarie».
Partiti del secolo scorso, dicono nel Pdl.
«Non mi pare. Obama e la Clinton si sono scannati alle primarie, e ora governano assieme. Blair e Brown si detestavano. Non parliamo dei due capi francesi del centrodestra, Sarkozy e Villepin, finiti in tribunale».
Appunto.
«Al congresso di fondazione del Pdl Fini disse: “So di essere in minoranza su alcuni temi: bioetica, immigrazione. Non pretendo nulla, solo dibattito”. Il confronto è l’essenza del liberalismo. Qualcuno nel Pdl vuole il centralismo democratico, ma è quello ad essere vecchissimo. Possibile che in una città europea come Milano siamo ridotti a dover scegliere fra La Russa, Cl e Calderoli?»
Verdini dice che il Pdl serve per diffondere le idee di Berlusconi fra la gente.
«Raccapricciante. Vedo in giro troppi analfabeti della politica».
Immigrati: c’era una volta la legge Bossi-Fini.
«Chi prende il filobus 90/91 a Milano prova disagio. La sinistra dice: non dovete avere paura. La Lega dice: dovete averla. Noi diciamo: i problemi non vanno né negati né creati, ma governati».
Quando ha parlato l’ultima volta con Berlusconi?
«Cinque mesi fa. Mi dispiace che ora come editore avalli il tentativo di distruzione di un avversario politico interno».
Non sopportava lo stillicidio di critiche di Fini.
«“Stillicidio” non è una categoria politica, ma sociologica. In realtà non abbiamo mai votato contro il governo. Questi sono i fatti. E non vogliamo farlo nel futuro. Tutto il resto è solo racconto fantasioso di Feltri».
Ma a destra Fini non è più tanto amato.
«Se invece di Feltri leggessero Ferrara, giornalista altrettanto vicino a Berlusconi e intelligente, gli elettori di centrodestra penserebbero diversamente».
Due mesi fa immaginava che sarebbe successo tutto questo casino?
«No. Pensavo che in Berlusconi avrebbe prevalso l’intuito politico, che avrebbe accettato nel suo interesse di un Pdl più aperto e inclusivo».
Finirete in un partito di centro con Casini, Rutelli e Montezemolo?
«No. Vogliamo rimanere nel centrodestra. Ma se vogliono distruggerci, ricorreremo alla legittima difesa».

Wednesday, August 18, 2010

Estate calda per i politici

Quest'anno tutti al mare (in attesa di votare...)

VACANZE AVVELENATE: I POLITICI NON SMETTONO DI DIRSELE E DARSELE

Non era mai successo: in pieno agosto governo e opposizione lottano ancora. Ma è soprattutto dentro la maggioranza che la guerra infuria. Così i potenti si rovinano le ferie. Ecco come

di Mauro Suttora

Oggi, 18 agosto 2010

Non era mai successo. Quest' anno la politica non va in vacanza. I politici, in teoria, sì: Gianfranco Fini ad Ansedonia (Grosseto), il presidente Giorgio Napolitano a Stromboli, Pier Luigi Bersani in Ogliastra (Sardegna), Massimo D'Alema a Gallipoli in Puglia dove come sempre troverà l'autoctono Rocco Buttiglione.

Ma, contrariamente agli anni scorsi, i problemi politici rimangono bollenti quanto il sole d' agosto. E continuano a occupare i titoli principali di giornali e telegiornali: «Tregua fra Berlusconi e Fini o rottura?». E in caso di rottura: «Il governo cade?» E se cade: «Un altro governo o elezioni?». E in caso di elezioni: «A novembre o a marzo?»

FERRAGOSTO IN CARCERE
Ormai siamo a Ferragosto. A fine mese, con i festival dei partiti e il meeting di Cl a Rimini, riprende la stagione politica. L'8 settembre riapre la Camera. Ma questa volta l'estate non placa le polemiche. Mai, nel recente passato, le fibrillazioni del Palazzo erano riuscite a fare notizia in modo così ossessivo. Viene registrato ogni sospiro di Italo Bocchino da Panarea, ogni vaticinio di Umberto Bossi dalla Valcamonica, ogni auspicio di Benedetto Della Vedova dalla contigua Valtellina. Il simbolo di questa frenesia senza soste è Silvio Berlusconi. Che rinuncia addirittura alle ferie, e a Villa Certosa (Porto Rotondo) preferisce Tor Crescenza (periferia di Roma). «Sempre di stracchino si tratta...», scherza qualcuno.

L'unico altro politico che rimane nella capitale, perché odia le vacanze, è Marco Pannella: passa come sempre il Ferragosto visitando i carcerati a Regina Coeli. Dovranno invece visitare il premier (non a Regina Coeli come auspicherebbe Antonio Di Pietro dal suo trattore a Montenero di Bisaccia, Molise) gli sfortunati collaboratori più stretti: Sandro Bondi e Denis Verdini pendolari dalla Versilia, Ignazio La Russa dalla Sicilia, Fabrizio Cicchitto pure lui ad Ansedonia, vicino di villa di Fini e Giuliano Amato.

Ma perché tutto questo tourbillon ? «Piaccia o no», risponde Ferruccio de Bortoli, direttore del Corriere della Sera, «alla maggioranza degli italiani sembra ancora piacere Berlusconi. La realtà è questa. Dunque, niente elezioni anticipate né altri governi». E allora, come se ne esce? «In un solo modo: con un accordo di legislatura fra tutte le componenti del centrodestra: Pdl, Lega, Futuro e Libertà di Fini». Possibile? «Obbligato».

Dissente il fondatore di Repubblica Eugenio Scalfari: «Le lingue dei politici sono biforcute per definizione, ma mai come ora il gioco degli inganni è stato lo strumento principe per la conquista del potere. Berlusconi è il figlio imbarbarito dell' antipolitica, del qualunquismo e dell' anarchismo. Inutile sperare di trasformarlo in un leader liberal-democratico».

INNAMORATO RESPINTO
Paradossalmente, concorda con Scalfari dalla sponda opposta di destra Vittorio Feltri, direttore del Giornale . Anche lui ritiene impossibile un accordo Berlusconi-Fini, perché quest' ultimo dopo l' espulsione dal Pdl «è come un innamorato folle respinto dalla fidanzata: si vendica uccidendola, poi si spara». Elezioni anticipate, allora? «Sarebbe la soluzione più corretta. Ma non è sicuro che Napolitano la adotti. Nulla gli vieta di tentare la formazione di un nuovo esecutivo con dentro tutti: Pd, Idv, finiani, Udc. Al Senato non avrebbero la maggioranza, perché Pdl e Lega conservano un senatore in più. Ma volete che i ribaltonisti non riescano a comprarsi un tizio qualunque per trenta denari?».

Intanto i ministri Alfano, Calderoli, Tremonti e Fitto preparano un accordo Berlusconi-Fini su quattro punti: giustizia, federalismo, fisco e Sud. «Un'intesa può essere raggiunta facilmente», sostiene De Bortoli, «tranne che sulla giustizia. Quello è uno scoglio difficilmente superabile. La saggezza suggerirebbe di accantonare le leggi ad personam e mettere al primo posto le esigenze dei cittadini».

Come la velocizzazione della giustizia civile: riforma auspicata anche da Adolfo Urso, viceministro finiano rimasto nel governo assieme ad Andrea Ronchi, e che per questo ha votato diversamente dai 43 fuoriusciti sulla mozione Caliendo. Ma ai berlusconiani stanno molto più a cuore la nuova legge Alfano (di livello costituzionale, dopo la bocciatura della Corte) per l'immunità delle alte cariche dello Stato, e quella sul processo «breve». «È proprio qui il nocciolo del problema: Fini spera che prima o poi le grane giudiziarie eliminino Berlusconi», dice Feltri.

«Sarà Bossi a decidere la partita», prevede Scalfari, «è lui a tenere in pugno il manico del bastone. La giustizia non gli interessa: per la Lega quella è solo merce di scambio, l'ha già ceduta a Berlusconi. I leghisti vogliono invece carta bianca sul federalismo e su fisco e Sud, che ne sono due sfaccettature. Sul federalismo Bossi non accetta condizionamenti».

In effetti, è da 23 anni - da quando entrarono per la prima volta in Parlamento - che i leghisti si battono per il federalismo. E ora che è in dirittura d'arrivo, se non lo ottengono o se lo vedono annacquato, tornerebbero a minacciare la secessione. Ma è difficile che i finiani, in buona parte provenienti dal Sud, accettino il federalismo, che inevitabilmente penalizzerà le loro regioni.

Quindi elezioni anticipate? I leghisti non le temono, i sondaggi dicono che farebbero il pieno al Nord. Anche a spese del Pdl. Quanto al Pd, è quello messo peggio, quindi farà di tutto per evitare il voto. Intanto, prosegue il martellamento dei giornali di Berlusconi contro Fini. «Cacciamo gli affaristi!», è lo slogan con cui il presidente della Camera ha aperto la campagna di iscrizioni per il suo nuovo partito, Futuro e libertà. Ma i berlusconiani gli rinfacciano la casa di Montecarlo lasciata ad An da una ricca ereditiera, e finita chissà come al fratello della compagna di Fini dopo un'apparente svendita a una società caraibica. L'estate è calda.

Mauro Suttora

Wednesday, January 27, 2010

Mentana torna a Mediaset?

IMPERO MEDIASET, IL FONDATORE DEL TG5 E IL PARTITO DELL'AMORE

Un anno fa Mentana se ne andava da Matrix tra dure polemiche. Ora, le clamorose voci di un ritorno. E Feltri, a sorpesa, lo benedice

di Mauro Suttora

Oggi, 27 gennaio 2010

Vittorio Feltri, ha sentito che Enrico Mentana torna a Mediaset?
«Davvero? A me non risulta».
A noi sì: ci sarebbe già stato un incontro diretto Mentana-Silvio Berlusconi, poi uno con Fedele Confalonieri, e adesso la pace attende solo di essere ratificata da Berlusconi junior, Pier Silvio.
«Mah, se succederà, sarà un bene per tutti: con Mentana in Tv ci guadagna la Tv, e soprattutto lui. È un conduttore capacissimo, un fuoriclasse. Un po' meno bravo come ospite: l'ho visto a disagio ultimamente».

Fra i giornalisti berlusconiani lui è considerato il moderato, lei l'estremista.
«Ma facciamo due mestieri diversi. Io dirigo un giornale d'opinione, lui a Matrix metteva lì cinque ospiti e li faceva parlare. Io mi devo esporre, altrimenti senza opinioni che razza di giornale d' opinione farei? E devono essere opinioni forti, che non facciano addormentare i lettori, se no loro smettono di comprare il Giornale. Mentana invece prima faceva un telegiornale che doveva accontentare tutti senza sbilanciarsi troppo. Perché in prima serata sei obbligato a essere ecumenico, non puoi fare il fazioso. E poi Matrix, in cui non doveva prendere posizione. Questo non vuol dire disistima da parte mia verso Mentana, anzi: ripeto che è bravissimo».

Il ritorno di Mentana all'ovile è il primo risultato del «partito dell'amore»? Berlusconi dopo l' assalto subìto il 13 dicembre ha annunciato che «l'amore trionferà contro l'odio e l'invidia». Ha cominciato lui, perdonando il figliol prodigo?
«Berlusconi fa le cose che reputa convenienti, e ha una speciale abilità nel farlo. Come Mentana, d'altronde».

Però dopo la cacciata di un anno fa da Matrix Mentana era molto arrabbiato. Non sono neppure riusciti a mettersi d'accordo su che cosa fosse successo, se dimissioni o licenziamento. Poi si è sfogato scrivendo contro Berlusconi un intero libro, in cui ha accusato le Tv Mediaset di essere militarizzate, al servizio dei suoi interessi politici.
«Erano anni che Mentana non si trovava bene a Mediaset. E quando sei irritato, lasci anche solo per un'impuntatura. Era un rapporto che si poteva benissimo rappattumare, ma sotto incazzatura detesti tutto e tutti. Mentana aveva bisogno di sfogarsi, e lo ha fatto scrivendo un libro fondamentale di cui non è fregato nulla a nessuno».

E allora cosa sarà successo, per farli riavvicinare?
«Ma niente, il tempo medica tutto. È come quando si litiga con la moglie: lì per lì la vuoi lasciare, poi ci ripensi e si fa la pace. Mentana ha capito di avere pestato una m... Pardon, poi dicono che sono volgare... Ha capito di essere scivolato su una buccia di banana, e siccome oltre che a essere bravo è anche intelligente, è tornato sui suoi passi. Inutile stare lì a rodersi e a far niente. Sempre che questo ritorno si avveri».

"USATO SICURO COME RONALDINHO"?

Ma per Mediaset il recupero di Mentana non rischia di essere una minestra riscaldata?
«Mentana rappresenta sempre una garanzia. Come quei grandi campioni un po' usati ma sicuri, tipo Ronaldinho...».

Tornerà a Matrix, al posto del povero Alessio Vinci che non ha fatto grandi ascolti e viene regolarmente battuto da Bruno Vespa?
«Alessio Vinci è tutt'altro che un fesso, è bravo a fare Tv di qualità e sicuramente avrà successo con un programma diverso».

A proposito, Feltri, lei come si trova con un giornale diverso?
«Quand'ero a Libero dicevano che ero il grillo parlante di Berlusconi. Ora invece mi accusano di prendere ordini da lui. Però gli stessi dicono anche che lo danneggio perché ho criticato Fini. Insomma, che si mettano d' accordo con loro stessi. Ultimamente, poi, quando ho criticato anche Berlusconi perché non abbassa le tasse, a Repubblica si sono stupiti per la mia indipendenza, ed eccoli tutti lì a chiedersi cosa c'è sotto. Non capiscono, forse perché non sanno bene cos'è l'indipendenza...».

IL FIGLIOL PRODIGO: PERSONAGGI E INTERPRETI
Fedele Confalonieri, 72 anni, presidente di Mediaset, con Enrico Mentana, 55, e Pier Silvio Berlusconi, 40, vicepresidente Mediaset. Il premier Silvio Berlusconi, 73, padrone delle tv Mediaset, e Vittorio Feltri, 66, direttore del quotidiano Il Giornale, di proprietà della famiglia Berlusconi.
Nel febbraio 2009 Mentana aveva lasciato burrascosamente Mediaset dopo il rifiuto di trasmettere uno speciale di Matrix su Eluana Englaro in prima serata su Canale 5. Nel suo libro Passionaccia (Rizzoli), uscito a maggio, Mentana scrive che Mediaset è un «comitato elettorale».

Mauro Suttora

Friday, June 06, 2008

Iuri Maria Prado e De Marchi

Cambio di linea

Addio editoriali di Prado e De Marchi.
Radio radicale spegne le voci liberiste

di Mauro Suttora

Libero, 6 giugno 2008

Radio radicale ha eliminato i quattro editoriali bisettimanali del mattino (l’orario di massimo ascolto) di Iuri Maria Prado e di Luigi De Marchi. Andavano in onda da una dozzina d'anni. Si cancella così la fase «liberista» della radio e del partito radicale, iniziata nel 1992, che aveva portato all'exploit della lista Bonino nel ’99 (8,5%).

Prado, 43 anni, avvocato milanese, ha uno studio specializzato in «proprietà industriale» (marchi e brevetti). Appassionato di Gadda e Savinio, nel ’96 era stato contattato da Pannella che apprezzava i suoi editoriali sul Giornale allora diretto da Vittorio Feltri. «Ma da quando nel 2006 scrissi su Libero che non avrei più votato radicale, non mi ha più chiamato. Mi ha solo detto: “Mi spiace per te”».

Nel suo ultimo editoriale, l’altroieri, Prado ha ringraziato Radio radicale per avergli sempre garantito totale libertà, «anche quando esprimevo opinioni diverse dalla linea del partito. Un caso quasi unico, in Italia». Ma dopo la svolta a sinistra di Pannella due anni fa, l’alleanza con i socialisti di Boselli nella riesumata Rosa nel pugno e l’appoggio a Prodi, era evidente che Prado e De Marchi si sono trovati spiazzati.

Stesso destino toccato ai due brillanti giovani allevati da Pannella negli anni ’90: Benedetto Della Vedova e Daniele Capezzone. Il primo si è candidato con Berlusconi già nel 2006, pur mantenendo ottimi rapporti con i radicali. Capezzone invece ha consumato un’acrimoniosa rottura con il partito di cui era stato segretario per cinque anni, e ora è portavoce di Forza Italia. L’unico radicale di destra rimasto a collaborare con Radio radicale è Marco Taradash, che cura la rassegna stampa al sabato.

L’ottuagenario Luigi De Marchi è un monumento del libertarismo italiano. Psicologo e politologo, negli anni ’50 introdusse in Italia il pensiero di Wilhelm Reich e nei ’60 fondò l’Aied (Associazione italiana educazione demografica), con i primi consultori sessuali. Nel ’67 si ritrovò in piazza San Pietro con Pannella sotto lo slogan: «Contro l’aborto, sì alla pillola».

All’inizio degli anni ’90 si avvicinò alla Lega, scrivendo saggi sulla «nuova lotta di classe liberale: produttori contro burocrati». In quel periodo anche i radicali si allearono con i leghisti, promuovendo assieme vari referendum liberisti. Due volte alla settimana De Marchi distillava il suo pensiero «psicopolitico» per Radio radicale, prima della seguitissima rassegna stampa del direttore Massimo Bordin.
Suscitava consensi ma anche forti avversioni: «Ogni volta che iniziava la sua rubrica spegnevo la radio per quei tre inascoltabili minuti», dice Angiolo Bandinelli, storico dirigente radicale e commentatore del Foglio.

I maligni collegano l’allontanamento di Prado e De Marchi ai trenta milioni di finanziamento concessi da Prodi nel novembre scorso alla radio per la trasmissione delle sedute parlamentari fino al 2010. «Sciocchezze», commenta il direttore Bordin, «a De Marchi ho già proposto un’altra collocazione nel palinsesto a partire dall’autunno».

Mauro Suttora

Friday, November 23, 2001

Maria Grazia Cutuli

Il Foglio, 23 novembre 2001

di Mauro Suttora

Col cavolo che Maria Grazia Cutuli era una «giovane collega», come hanno blaterato i tromboni del giornalismo in questi giorni. No, in tutta evidenza non si è più giovani a 39 anni. Quanto alla «collega», anche lì ci andrei cauto perché in realtà fino ad appena due anni fa Maria Grazia era solo una precaria, costretta a uno stato di incertezza fra sostituzioni di maternità e contratti a termine.

Proprio come tutti i «martiri» di questa chiusa corporazione che, ha notato sarcastico il Guardian inglese, ha bisogno di «eroi» per giustificare le proprie schiavitù e frustrazioni. Giancarlo Siani, ucciso nell’85 dai camorristi, era un abusivo del Mattino di Napoli; Ilaria Alpi non era assunta dal Tg3. E Antonio Russo, assassinato un anno fa in Georgia? Dimenticato perché cronista di Radio radicale, denuncia il Guardian. Sua madre, al contrario dei genitori di Ilaria Alpi (giustamente ricordata con libri e film), non ha avuto neanche in questi giorni il conforto di un’intervista.

Eppure Russo è stato l’ultimo giornalista al mondo a rimanere a Pristina sfidando le deportazioni e le stragi serbe in Kosovo, e ha ricevuto premi per questo. Poi però si era intestardito a occuparsi di argomenti «a perdere» come la Cecenia. In questi giorni l’unico a ricordarlo è stato Antonio Martino.

Con la Cutuli è morto Julio Fuentes. L’ho conosciuto sette anni fa, quando era a Milano come corrispondente del Mundo e stava proprio con Maria Grazia. Lui sì che ha potuto fare il suo mestiere da «giovane». Perché, come succede nei media di tutto il pianeta tranne l’Italia, in Spagna i reporter hanno 20-30 anni. Si comincia così, andando in giro con curiosità ed energia: è il primo gradino del cursus honorum, anche poco pagato. Poi, una volta quarantenni, messa su pancetta e famiglia, ci si fissa in redazione, si incassa l’aumento e si diventa writer, editors, capiredattori, «culi di pietra».

Da noi invece accade il contrario: la nomina a inviato speciale arriva verso i 40-50 anni, cioè proprio quando la disponibilità a «consumare la suola delle scarpe» diminuisce. E’ capitato a Ettore Mo, il migliore di tutti, e anche alla Cutuli nominata inviata «sul campo». Santo.

Risultato: ogni volta che sono andato per guerre ho incontrato due tipi di giornalisti. C’erano gli americani, inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, che partivano all’alba e tornavano in albergo impolverati solo verso sera, per trasmettere i loro servizi. Poi c’era il gruppetto degli italiani, distinti e simpatici cinquantenni che distillavano preziose analisi geopolitiche ai bordi della piscina, sorseggiando cocktail e controllando ogni tanto le agenzie per vedere se era successo qualcosa.

Non li biasimavo: alla loro età sarebbe stato crudele spingerli fuori, nel fango, fra le pietre, non parliamo di sacchi a pelo, i reumatismi. Uno dei più brillanti di loro, stanziato per un mese all’Intercontinental di Amman aspettando inutilmente il visto per Bagdad, riuscì a farsi confezionare due completi su misura da un sarto giordano, a spese del giornale. Un altro, al quale l’allora mio direttore Vittorio Feltri aveva chiesto una copia di un qualsiasi giornale iracheno, per tradurlo e allegarlo all’Europeo, gli rispose che non si trovavano più. Appena atterrato ad Amman feci fermare il taxi al primo incrocio, comprai da uno strillone un quotidiano stampato a Bagdad due giorni prima e lo spedii a Milano. «Ma qui, nell’edicola interna dell’hotel, non li vendono più», mi spiegò il grande inviato speciale, «e fuori è pericoloso uscire, da quando gli arabi hanno picchiato Lilli Gruber».

Un’altra particolarità italiana sono i posti da corrispondente estero. Siamo gli unici al mondo a non farli ruotare ogni tre anni, come capitò anche a Fuentes. La loro principale funzione, da noi, è accogliere ex direttori o caporedattori trombati, possibilmente ignari della lingua locale.

Ecco, anche di queste buffe cose parlavamo con Maria Grazia quando ci sentivamo. Dei giovani giornalisti italiani costretti a marcire per anni di fronte a un computer mentre i loro coetanei dei media esteri raccontavano il mondo, magari in classe economica, in bus, in treno, in alberghi non a 5 stelle, magari senza autista privato, scorta militare e traduttore al seguito. Magari in bici, come Beppe Severgnini a Pechino. E i loro colleghi «anziani» intanto facevano colazione con ambasciatori e collezione di note spese, telefonavano a mogli e amanti e scacciavano la noia con un bicchierino o due.

Negli ultimi anni le cose sono migliorate: a turno, ogni tanto, con cautela, anche i giovani vengono spediti fuori dalle redazioni, a prendere un po’ d’aria. A scoprire com’è fatta la realtà. «Ma ormai c’è internet», obiettano i direttori, molti dei quali non si sono mai spinti (professionalmente) oltre Milano e Roma. Fanno bene: si diventa direttori così, oggi in Italia, mica cercando notizie a Peshawar o a Cinisello Balsamo. Anche perché, scriveva il collega Benjamin Franklin, «le notizie sono solo quelle che dispiacciono a qualcuno. Tutto il resto è pubblicità». La Cutuli questo lo aveva capito, e per questo era considerata una rompicazzo tremenda. Altro che «giovane collega», valorosa postuma.

Tuesday, February 13, 2001

La censura si abbatte sui radicali

PANNELLA: "CIAMPI, ORA TI UCCIDO"

di Mauro Suttora

Il Foglio, 13 febbraio 2001

I dati sono impressionanti. Perfino un antipatizzante radicale di antica data, il consigliere d’amministrazione Rai Alberto Contri, lo ammette: «Li confronteremo con quelli dell’Osservatorio di Pavia, e se verranno confermati prenderemo provvedimenti». 

Negli ultimi cinque mesi, dal primo settembre al 20 gennaio, i radicali sono scomparsi dalla tv. Se si eccettua il due per cento di «Porta a Porta» (40 minuti su un totale di 26 ore di interviste politiche), in tutti gli altri programmi Rai e Mediaset (da Santoro a Costanzo, da Biagi a Primo piano) la percentuale è zero. E l’ospitata di Emma Bonino per Mucca pazza a «Raggio verde», a fine gennaio non cambia di molto le cose.

Il problema è che i radicali vengono censurati da trent’anni. E da trent’anni, invece di subire o protestare urbanamente, Marco Pannella reagisce con veemenza, utilizzando aggettivi pantagruelici e toni tremendissimi. L’ultima volta l’altro ieri: «Ciampi, ora ti uccido», ha sintetizzato in prima pagina Vittorio Feltri sul suo «Libero». 

Ragionamento paradossale ma logico, quello pannelliano: se davvero in Italia c’è un regime che impedisce ai cittadini di «conoscere per deliberare», distorcendo l’informazione che è il pane della democrazia, allora scatta il diritto (e forse perfino il dovere) alla ribellione. «Da gandhiano so bene che uno sparo non salverà il mondo», ammette il leader radicale, precisando però che la sua scelta nonviolenta è a questo punto solo di opportunità, non di principio.

Ragionamenti fragorosi, forse inutili, in questo Paese narcotizzato dai soldi e solo lievemente infastidito dalla rinuncia alla bistecca con l’osso. Ma sufficienti a far scattare la trappola dentro la quale, da un terzo di secolo, Pannella  viene abitualmente inghiottito ogni volta che si permette di denunciare la censura. 

Anche ieri l’imbecille il quale, occupandosi del dito invece che del problema, ha trasformato la vittima in esibizionista da dileggiare, è stata la «Repubblica» del suo nemico eterno Eugenio Scalfari (ex radicale con il veleno degli ex), tramite un corsivo in cui è stato compilato l’elenco dei «penultimatum» e delle invettive pannelliane, dai primi scioperi della fame (1968 per la Cecoslovacchia, 1969 per il divorzio, 1972 per l’obiezione di coscienza) a oggi.

Anche l’ultimo dei 17 digiuni del leader radicale (autunno ‘97) fu causato dal medesimo problema di oggi: lo zero quasi assoluto riservato dai media alle iniziative radicali. E anche allora «si aprì il dibattito»: ma sugli eccessi del «mouse that roars» (il «topolino che ruggisce», come l’Economist ha soprannominato l’indomito Marco), e non su quelli del silenzio tv. 

In questi quattro anni, poi, sono successe due cose: il settantenne Pannella si è beccato due ischemie, quattro by-pass e un’infezione iatrogena che hanno quasi «risolto» il problema; la sua fedelissima Emma Bonino ha preso l’8 per cento alle europee (con punte del 20 per cento in Lombardia e Veneto), dimostrando che i radicali possono essere popolari, e quindi pericolosi.

Così, l’Ulivo ha subito vietato gli spot grazie ai quali la lista Bonino era diventata il terzo partito al Nord. E la saracinesca dell’indifferenza si è richiusa sui pannelliani. L’ultimo episodio sabato scorso: nelle stesse ore in cui Pannella vergava la sua invettiva-appello a Ciampi, la Bonino teneva una conferenza stampa su una certa pillola che permette di abortire senza il trauma dell’intervento chirurgico, assieme a una professoressa francese invitata apposta in Italia in quanto massima esperta mondiale del problema. Che è sicuramente controverso, sia perché l’Italia è uno dei soli tre Paesi europei in cui i cattolici impediscono l’uso della suddetta pillola, sia perché in questi giorni il dibattito sulla «libertà della scienza» è rovente.

Ebbene: neanche una riga, neanche dieci secondi di tg. Stesso esito per un interessantissimo convegno radicale all’università di Roma giovedì scorso, zeppo di dati sui «costi del proibizionismo». Niente. E che il capolista radicale alle prossime elezioni si chiami Luca Coscioni, un malato di sclerosi curabile con le cellule staminali ma condannato a morte (lui sì, sul serio) dal no verde-vaticano alla clonazione terapeutica, finora lo ha scritto solo il Foglio.

Pazienza. Tanto, l’Italia democratica un’opposizione ce l’ha già: Fausto Bertinotti. Lui sì che può parlare in tv, come dimostrano i dati radicali: «Perché piace alla regina: sa stare a tavola, parla di tutto, fa manicure e pedicure...», sibila Pannella. Anche geloso, oltreché cialtrone?
Mauro Suttora

Tuesday, April 11, 2000

Alberto Mingardi

Il Foglio, 11 aprile 2000

di Mauro Suttora

Mandello Lario (Lecco). Qui, nel paese della Moto Guzzi, vive un piccolo mostro. Si chiama Alberto Mingardi. Un bel film di un regista svizzero, Alain Tanner, si intitolava «Jonas, che avrà vent’anni nel Duemila». Mingardi invece ha 18 anni, ma ha già scritto sette libri. Abita con il padre dentista e la mamma casalinga, ma è collegato costantemente con il mondo attraverso il computer. Anzi, no: ormai è obsoleto pure quello, adesso c’è il telefonino «wap», con Internet e la posta elettronica che arrivano direttamente sul display.

Si definisce «anarcocapitalista»: «Così metto assieme due parole brutte», gongola. Risultato: lo detestano sia gli anarchici, sia i capitalisti. I primi, perché gli anarchici in Italia sono prevalentemente collettivisti, si sentono di sinistra e piuttosto che far comunella con Mingardi e i suoi «maggiori» (i premi Nobel per l’economia Friedrich Von Hayek, Milton Friedman e James Buchanan) scappano a sognare la rivoluzione con gli autonomi dei centri sociali. I secondi, i capitalisti, lo detesterebbero se leggessero i suoi libretti: «Fragole di dinamite», «Anarchici senza bombe», «Copia pure» (contro i diritti d’autore), «Le ragioni del non voto», pubblicati dalla Stampa Alternativa di Marcello Baraghini.

Tutto è cominciato tre anni fa, quando il quindicenne Mingardi, studente del liceo classico Manzoni di Lecco, torna a casa e legge un editoriale di Sergio Ricossa sul Giornale che suo padre compra ogni giorno. Da allora si entusiasma per il liberismo, compra e legge parecchi libri (da Ludwig Von Mises a Murray Rothbard, da David Friedman - il figlio di Milton - a Bruno Leoni), oltre ovviamente a quelli del suo idolo Ricossa. Infine, conosce un singolare gruppo di libertari leghisti raccolti attorno a Leonardo Facco, giornalista della Padania ed editore in proprio a Treviglio (Bergamo).

La scorsa estate si fa mandare a Torino da Facco a intervistare Ricossa per conto del trimestrale «Enclave», rivista che propugna l’anarcocapitalismo. E lì scocca la scintilla. Alberto, emozionatissimo, pensa che il professore pensi: «Ma adesso mandano a intervistarmi anche i bambini?» Invece Ricossa non solo lo apprezza, ma dopo l’intervista accetta volentieri anche la proposta di pubblicare presso l’editore Facco una raccolta dei suoi articoli sul Giornale. Il libro è corredato da un saggio introduttivo di Mingardi e da una lunga intervista-dialogo fra i due, sotto il titolo «Da liberale a libertario, cronaca di una conversione».

Ma l’intraprendente ragazzo non si ferma qui. Dopo aver prefato Ricossa, si fa da lui prefare un proprio libro, «Estremisti della libertà»: una raccolta di interviste ai principali protagonisti del libertarismo internazionale, tutte raccolte esclusivamente via Internet dal «virtual boy» lariano. Così siamo a sei libri. E il settimo? «Si intitola ‘Fuga dallo Stato’ e uscirà, sempre per Facco editore, dopo l’estate», spiega Mingardi.

«Alberto è diventato il bastone della vecchiaia di Ricossa, assieme sono imbattibili», commenta Fabio Massimo Nicosia, proprietario della libreria Libertaria di corso di Porta Romana a Milano. Spiega l’economista torinese: «Oggi tutti si dichiarano liberali, perfino gli ex comunisti. Quindi, per marcare la differenza, io mi definisco libertario. Anche perché se si resta liberali si fa un buco nell’acqua: perfino il grande Luigi Einaudi ammise alla fine che le sue erano “prediche inutili”».

Giordano Bruno Guerri è un altro intellettuale conquistato dall’energia contagiosa di Albertino. A forza di ascoltarlo, durante le vacanze di Natale fa si è fatto trascinare da lui fino in Costa Rica, dove un gruppo di visionari statunitensi ha fondato «Laissez-faire City»: una città libertaria in cui, grazie a Internet, si sperimenta in concreto una vita senza tasse, senza leggi se non quelle del libero mercato fra individui adulti e consenzienti, e dove i ricchi americani trovano conveniente investire i propri capitali per ragioni fiscali.
Una specie di terra promessa tropico-equatoriale dell’utopia della scuola di Chicago friedmaniana, dopo gli esperimenti riusciti in Cile, quelli un po’ meno riusciti nell’Argentina di Carlos Menem (che cercò di privatizzare le strade), e gli approcci abortiti con il presidente peruviano Albert Fujimori. Ai libertari il Costa Rica sta simpatico, oltre che per il clima e le onde del Pacifico, anche perché è l’unico Paese al mondo senza esercito.

Ma, attenzione, questi disincantati anarchici di destra non sono pacifisti: «Crediamo nella difesa individuale, nel libero porto d’armi come negli Stati Uniti, e nelle milizie private». Che sostituiranno gli eserciti statali, come ai tempi dei mercenari lanzichenecchi? «Perché no? Ciascuna comunità potrà scegliere sul mercato fra varie agenzie di protezione cui appaltare la difesa interna ed esterna».

Un ulteriore incontro eccellente ha catapultato tre mesi fa Mingardi a Potsdam (Berlino), all’esclusivo congresso mondiale della Mont Pélerin Society, una specie di Trilaterale o Aspen dei liberisti, fondata da Von Hayek nel 1947 e composta da professori universitari, grandi industriali e ambasciatori. Agli incontri a porte chiuse di questo think tank si può accedere solo per invito, e per essere ammessi come soci bisogna avere partecipato a tre meeting. Gli unici membri italiani sono Ricossa, Antonio Martino e i professori Angelo Maria Petroni, Domenico da Empoli ed Enrico Colombato.

In questo caso il pigmalione di Mingardi è stato Martino, al quale la figlia Alberta, ingegnere a Milano e convinta libertaria pure lei, ha presentato il liceale prodigio. «Mingardi è un ragazzo straordinario», conferma Martino, «siamo in costante contatto tramite posta elettronica. Questa nuova generazione di libertari si sta moltiplicando rapidamente, e il fenomeno è ancora più significativo in quanto fino a pochi anni fa certi autori e le loro idee erano del tutto sconosciuti in Italia. Un grosso merito in questa opera di divulgazione ce l’ha Aldo Canovari, editore di Liberilibri, che ha tradotto in italiano i principali testi del libertarismo classico e contemporaneo».

Anche Canovari è un fan di Mingardi: «L’ho visto in azione a un convegno della destra qui a Macerata, ha pronunciato un intervento spiritoso e brillante che ha fatto rizzare i capelli al povero Marcello Veneziani. Il libertarismo di mercato è l’approdo ineluttabile del dibattito politico, e non solo a destra: c’è un interesse vivissimo pure a sinistra per le nostre idee, ho ristampato il libro di Bruno Leoni, e perfino il mattoncino da 350 pagine di Rothbard vende bene».

Rothbard è l’autore preferito, la bandiera sventolata più di ogni altra dai neolibertari italiani. Anche da Mingardi. Perché? «Perché è riuscito a fondere la grande tradizione della scuola economica austriaca di Mises e Hayek con l’individualismo americano». E qui in Italia, da che parte pendete? La Lega? «Non solo», precisa Mingardi: «Se proprio votiamo, possiamo farlo anche per Forza Italia o per la lista Bonino».

«Per un libertario non è incongruente essere contemporaneamente leghista, liberale o radicale», commenta il professor Massimiliano Finazzer Flory, animatore del Circolo culturale di via Marina a Milano (area Forza Italia), dove la scorsa settimana il professor Lorenzo Infantino della Luiss ha celebrato l’opera di Mises nel quadro di una serie di conferenze sul pensiero lib-lib-lib (liberale, liberista, libertario). Vota Bonino, per esempio, Marco Faraci, altro enfant prodige del libertarismo: pisano, 24 anni, laureando in Ingegneria elettronica, reaganian-thatcheriano sfegatato, è lui l’organizzatore del miglior sito italiano sull’argomento: «Capitalismo e libertà» (www.freeweb.org/politica/capitalismo).

Ottimo è anche un altro sito libertario: il «www.libertari.org» fondato da Mingardi, che ha spedito in America i 70 dollari per la registrazione, ma che non disdegna di imperversare su tutte le liste di discussione di area anarchica e radicale: «Però il miglior forum è il nostro», precisa, «non è moderato e volano gli insulti».
Instancabile poligrafo, quando gli abbiamo telefonato a Lecco Mingardi stava scrivendo un articolo sulle pensioni private per il Borghese di Vittorio Feltri. «È stato proprio a causa di un altro mio pezzo uscito sul Borghese, dal titolo “La pornografia renderà libera la donna”, che una mia fidanzata, turbatissima dopo la lettura, mi ha lasciato», scherza.

Vicedirettore della rivista Élites dello psichiatra napoletano Mauro Maltonato, redattore di Enclave, Albertino collabora anche con l’Opinione di Arturo Diaconale e ha distillato un saggio su Ayn Rand per l’ultimo numero dei Quaderni Radicali di Giuseppe Rippa. Non pago e poco pagato, trova anche il tempo di scrivere (in inglese) per il Laissez-faire City Times: «Che mi dà cento dollari ad articolo», esulta. Soldi che finiscono (subito) in libri americani ordinati via Internet, e nei viaggi: dopo Costa Rica e Berlino, nell’ultimo week-end Mingardi è corso a Lucca per un seminario sulla “scuola austriaca” organizzato dai professori Dario Antiseri e Raimondo Cubeddu.

E il liceo? Fra tre mesi c’è la maturità, nel primo quadrimestre Alberto ha avuto 8 in storia e 6 in filosofia («La mia prof è una comunista sfegatata, viene a scuola col Manifesto, ma ammetto che sopportarmi è difficilissimo: è la mia preferita»), e in italiano, greco e latino naviga sul 7. Università? «Sono indeciso fra economia e commercio e scienze politiche. Mi piacerebbe andare a Stanford, ma costa 60 milioni l’anno». Hobbies? «Faccio regate sul lago con l’Hobycat 16, un catamarano, suonavo il piano ma non ho più tempo, continuo ad ascoltare cantautori come De André e Vecchioni, mi piacciono perfino quelli di sinistra, e poi Wagner».

Nelle settimane scorse ha abbandonato la virtualità, è uscito dal suo computer e si è misurato per la prima volta con una vicenda politica concreta: la protesta di Moreno Simionato, un agricoltore di Domodossola che si è ribellato alle angherie burocratiche. Anche come organizzatore politico, assieme al suo amico Carlo Stagnaro, ha dato ottima prova di sè: è riuscito a coinvolgere parlamentari come Marco Taradash e Sandra Fei, il caso è stato quasi risolto. E così il tanto detestato Stato ha dovuto indietreggiare per la prima volta davanti ad Albertino Mingardi, che ha 18 anni nel Duemila. Non sarà l’ultima.

Mauro Suttora