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Friday, July 28, 2023

Perché la schermitrice ucraina Olga ha sbagliato

Competere nello sport significa legittimare automaticamente l'avversario. Accettarlo, riconoscergli quella dignità che la guerra esclude. Perché lo sport è conflitto, ma nonviolento. Se opponi una spada alla mano tesa dell'atleta sconfitta, non è più sport. È un'altra cosa: politica, guerra

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 28 luglio 2023 

Nello sport competono avversari. Nella guerra invece si scontrano nemici. La schermitrice ucraina Olga Kharlan e la russa Anna Smirnova conoscono bene questa regola elementare: perciò hanno accettato di battersi fra loro ai mondiali di scherma di Milano. 

Poi però la vincitrice Olga è stata squalificata per aver rifiutato di stringere la mano ad Anna. A Olga va tutta la nostra simpatia, perché nelle stesse ore in cui in Italia si gareggia, in Ucraina i suoi amici e coetanei muoiono. Vengono uccisi da un anno e mezzo anche i giovani compagni della russa Anna, certo. Con la differenza che i primi difendono la libertà e l'indipendenza del loro Paese, mentre i secondi sono aggressori e occupanti di posti in cui non dovrebbero trovarsi. Scusate la banalità, ma dal 24 febbraio 2022 bene e male sono facili da individuare. 

Più difficile dirimere fra buoni e cattivi sulle pedane sportive. Sono stati scritti libri interi sulla funzione catartica e mimetica dello sport. Che sublima in riproduzioni non cruente le tensioni fra gruppi, scaricandole in situazioni di finta guerra trasferite dal campo di battaglia a quello agonistico. 

Consideriamo Olga nostra sorella e figlia. Lei giocava quadruplamente in casa, non solo perché tutti tifiamo Ucraina (come nel 1936 avremmo parteggiato per il nero Usa Jesse Owens a Berlino davanti ad Adolf Hitler); ma anche perché Olga si è rifugiata da noi con la famiglia per sfuggire ai bombardamenti di Vladimir Putin, perché vive a Bologna con il fidanzato schermidore italiano, e perché ha gareggiato a Milano. 

Le consigliamo tuttavia di leggere il libro 'Sport e aggressività' (ed.Il Mulino, 2001). Imparerà dagli autori, i sociologi Norbert Elias (scappato dalla Germania nel 1933 perché ebreo, imprigionato in Inghilterra sette anni dopo perché tedesco) ed Eric Dunning che competere nello sport ('sportivamente', appunto) significa legittimare automaticamente l'avversario. Accettarlo, riconoscergli quella dignità che la guerra esclude. Perché lo sport è conflitto, ma nonviolento. Un gioco, non un sopruso come quelli di Putin. 

Se invece Olga considerava Anna una nemica da distruggere, e non una leale avversaria con cui misurarsi, per coerenza non le restavano che due scelte: rifiutarsi di incontrarla ('in-contro', non scontro), oppure cercare di farle del male con la spada che impugnava. "Olga lotta per la sua gente e per la sua patria", la giustifica il fidanzato campione Luigi Samele. E fa bene. Ma se oppone una spada alla mano tesa dell'atleta sconfitta, non è più sport. È un'altra cosa: politica, guerra. 

Nell'antica Grecia ogni conflitto armato veniva sospeso durante le Olimpiadi. Nell'incivile mondo moderno accade l'esatto contrario: le Olimpiadi vengono sospese durante le guerre. Oppure boicottate: Mosca 1980 per l'invasione sovietica dell'Afghanistan (vizio abituale); Los Angeles 1984 per ripicca dei Paesi comunisti. 

Putin è riuscito anche in questo campo a fare di peggio: ha sfregiato i Giochi di Pechino 2008 violando i giorni di tregua olimpica con l'attacco alla Georgia. Insomma, ci sono mille motivi per escludere il regime putinista dallo sport. Già prima dell'aggressione a Kiev, la Russia non poteva partecipare alle Olimpiadi perché barava (anche) sul doping.

Ma proprio questa condizione di paria internazionale avrebbe potuto consigliare meglio Olga. Senza contare che nella vittoria lo sportivo è magnanimo: battuta Anna, una velocissima stretta di mano (magari volgendo gli occhi da un'altra parte) avrebbe impedito alla russa di spacciarsi perfino per vittima.

Friday, August 17, 2012

Armi e pugni: forti negli sport forti

La maggioranza assoluta delle medaglie italiane alle Olimpiadi di Londra è arrivata da tiro e scherma. Perché siamo così forti negli sport con le armi?

di Mauro Suttora

Oggi, 9 agosto 2012    

"No, non vado a caccia", sorride Jessica Rossi, la ventenne che ha sbalordito l'Italia abbattendo 99 piattelli su cento e vincendo l'oro. La sua è una delle tredici medaglie conquistate con le armi in queste Olimpiadi: fucili, fioretti, archi, pistole, sciabole, carabine. La maggioranza assoluta dei nostri trofei.

Se poi aggiungiamo anche le tre medaglie vinte con il pugilato e il bronzo del judo, le uniche vittorie "nonviolente" si riducono a canoa, canottaggio, anelli e poco altro.
Cos'è successo? Siamo diventati improvvisamente un Paese "militarista" senza accorgercene, almeno nello sport?

La scherma, innanzitutto. Le sue sette medaglie non sono una novità. È da vent'anni che dominiamo il mondo: "Le antiche scuole europee sono tutte in crisi, tranne noi", constata orgoglioso il siciliano Giorgio Scarso, presidente di Federscherma. E, sull'onda di Valentina Vezzali e delle altre, dal 2005 a oggi i tesserati delle 350 società sono esplosi da 12 a 20 mila.

Jesi, paese di appena 40 mila abitanti sopra Ancona, è un fenomeno unico sul pianeta, con la sua valanga di ori da Seul '88 a oggi. Ma c'è anche Livorno con Aldo Montano e Andrea Baldini, Napoli con Occhiuzzi, Monza con Arianna Errigo...

Il tiro con l'arco dell'oro a squadre ha invece una storia recentissima. È disciplina olimpica da appena 40 anni (Monaco '72). La Fitarco fa parte del Coni solo dal '78, ma gli appassionati aumentano e oggi sono 20 mila.

Luciano Rossi, 59 anni, guida la Fitav (Federazione italiana tiro a volo, 24 mila tesserati). Non è parente di Jessica: umbro di Foligno, è deputato Pdl e, lui sì, amante della caccia. Grazie a Dio da tempo i piattelli hanno sostituito i piccioni come bersagli. Resta il problema degli impianti, che non sono tanti e necessitano di grandi spazi all'aperto.

La Uits, poi: Unione italiana tiro a segno. Giuseppe Garibaldi ne è stato il padre nel 1861. La sua storia si intreccia con quella dei poligoni militari e civili. Sono quelli, infatti, gli unici posti dov'è permesso sparare al chiuso in Italia. Che sia la carabina d'oro e d'argento del fiorentino Niccolò Campriani, o la pistola di Luca Tesconi, sono specialità che attraggono soprattutto militari e agenti di polizia.

È finito nei guai Ernfried Obrist, 69 anni, di Caldaro (Bolzano),  presidente dell'Unione tiro a segno dal 2004, perché due anni fa è stato fotografato con tiratori vestiti da SS: "Era una rievocazione storica", è stata la sua debole difesa.

Come a Pechino, anche a Londra il pugilato ci ha dato tre medaglie. La boxe professionista è in declino (9mila tesserati contro i 72 mila del tiro a segno) ma, dice il presidente della Federazione Franco Falcinelli, "si avvicinano alla gym boxe gli universitari, facendoci diventare uno sport d'élite". Il judo è popolarissimo fra i ragazzini, anche se quest'anno siamo passati dall'oro di Giulia Quintavalle al bronzo di Rosalba

I successi sportivi fanno pubblicità alla nostra industria armiera: vale mezzo miliardo di euro e dà lavoro a 11 mila occupati. È la maggiore esportatrice mondiale, con una quota del 90 per cento. Tutti i trenta finalisti olimpici del tiro a volo hanno usato fucili italiani, delle bresciane Perazzi e Beretta, e quasi tutti hanno sparato cartucce tricolore (Fiocchi di Lecco e altre). La Pardini di Camaiore (Lucca) ha invece vinto sei medaglie sulle dodici del tiro a segno.

Insomma, c'è anche un ritorno economico per questa nostra supremazia nelle armi. I maestri di scherma italiani sono i più richiesti al mondo, allenano nazionali dal Giappone al Messico. Un po' come gli allenatori di calcio, spargono il verbo tricolore nel pianeta. E noi, pacifisti nati, ci ritroviamo increduli ad eccellere in sport bellicosi. "Oltre che per merito di scherma, boxe e dei vari tiri, per demerito delle altre discipline", conclude Gianni Petrucci, presidente del Coni.
Mauro Suttora

Wednesday, May 30, 2012

Elisa Di Francisca

RITRATTO DELLA FIORETTISTA ITALIANA, CHE VUOLE L'ORO ALLE OLIMPIADI DI LONDRA

di Mauro Suttora, inviato a Jesi (Ancona)

Oggi, 23 maggio 2012

Arriva all’intervista con un’ora di ritardo, in quello che gli jesini chiamano pomposamente Palascherma, ma che è poco più di una palestra. Però il suo sorriso è così splendente che si fa perdonare subito. «Sia puntuale almeno a Londra, con gli inglesi», le diciamo.

I suoi allenatori impazziscono. Perché Elisa Di Francisca è l’indisciplina in persona. Una volta a New York scomparve: «Ero solo andata in un museo dopo le gare, non ce la facevo più a stare solo in aeroporti, alberghi e palasport. Giriamo il mondo, ma non vediamo nulla».

Sono agli antipodi

Anche in questo Elisa è agli antipodi di Valentina Vezzali, la sua grande rivale. Tanto lei è impulsiva e irrequieta, tanto la Vezzali è rigorosa e determinata. «Vabbè, ma lei ha otto anni più di me, è sposata, ha famiglia. Non ci frequentiamo e non siamo amiche, ma non per antipatia. È una questione d’età, è proprio un’altra generazione».

Eppure ogni giorno entrambe vengono ad allenarsi qua, con il maestro Stefano Cerioni. E prima della Vezzali con i suoi 28 ori c’era Giovanna Trillini, otto medaglie in cinque Olimpiadi. Tre galline d’oro in un solo, minuscolo pollaio.

Cosa c’è nell’aria di Jesi che produce campionesse di fioretto a getto continuo? Solo 40 mila abitanti, sarebbe come se Mazzola, Rivera e Riva fossero nati tutti nello stesso paese. Naturalmente è arrivata una delegazione di cinesi per studiare il fenomeno. Sono ripartiti in silenzio.

«Chennesò, chevvedevodì?», ride Elisa, «forse il segreto è un buon maestro. Prima di Cerioni, pure lui due ori olimpici, c’era Ezio Triccoli. Per me c’è stato anche l’esempio di Giovanna e Valentina».

Padre siciliano, spirito bollente

O forse è il vino: verdicchio dei colli di Jesi, che su fino ad Arcevia sembrano ancora fare da sfondo ai quadri di Raffaello. Lei, la Di Francisca, ha padre siciliano e quindi sangue caldo. La sera va a ballare con gli amici al Noir, beve, ha un fidanzato con cui litiga, ai giornalisti dice che il sesso prima delle gare fa bene.

Tutto il contrario di quel clima allucinante, quasi da lager, che circonda altri sport, con atleti strappati adolescenti alle famiglie e in perenne ritiro mistico/monastico, con tanto di tabelle, diete, regole, divieti, psicologi, sponsor, agenti, manager, allenamenti opprimenti...

La Dieta a punti Elisa la segue, pesa 60 chili per 1 e 77 di altezza, 13 centimetri più di Valentina e 10 più di Margherita Granbassi, la fiorettista «bella» che dopo l’oro a squadre a Pechino è finita in tv a ballare sotto le stelle e con Santoro.

E tu, Elisa, stai per compiere 30 anni. Che farai da grande? «Metto su famiglia». Ma se con i fidanzati passi il tempo a litigare... «Perché finché faccio scherma è difficile conciliare le cose, so’ sempre via, un giorno a Budapest, l’altro a Shanghai, manco lo so io dove sono. E per fortuna che la scherma non è importante come il calcio, almeno posso camminare tranquilla per strada, senza che me fermano».

«Meglio la scherma dei soldi»

Per diventare famosa (e guadagnare) come la Pellegrini devi trovarti un fidanzato famoso col quale commettere turbolenze. «Ma a me va bene così, è mejo che la scherma non è importante, così non si perde il valore dello sport».

Di nuovo in finale con Valentina, il 28 luglio? «Speriamo. Basta che vinca io, però. E lo farò anche nel ricordo dell’amica Silvia Pierucci, fiorettista, arbitro e psicologa della nazionale».
In quei nove minuti di assalti le due nostre campionesse si giocheranno tutto: quattro anni di lavoro, il primo oro olimpico per Elisa. O l’ultimo per Valentina.
Mauro Suttora