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Wednesday, January 21, 2015

Dati falsi sui dipendenti pubblici


LA TRUFFA DEL PARAGONE CON LA GRAN BRETAGNA

di Mauro Suttora

Oggi, 14 gennaio 2015

Perfino contarli è difficile. Quanti sono i dipendenti pubblici in Italia? E, soprattutto: sono troppi, pochi, giusti? Circolano dati fantasiosi, secondo cui noi ne avremmo «soltanto» 3,2 milioni, contro per esempio i 5,2 milioni della Gran Bretagna, Paese che ha più o meno lo stesso nostro numero di abitanti.

Peccato che il paragone sia campato in aria, per due motivi: i britannici sono un milione in meno, e i nostri un milione in più. Nel Nord Europa, infatti, il part-time è molto più diffuso che in Italia. E le stesse statistiche ufficiali di Londra avvertono che i loro lavoratori pubblici si riducono a 4,2 milioni in «full-time equivalent», cioè dividendo il totale delle ore lavorate per 36 (l’orario settimanale a tempo pieno). È evidente, infatti, che due dipendenti a 18 ore settimanali equivalgono a uno a tempo pieno.

Ma c’è un’altra grande disomogeneità fra i due dati. Nel Regno Unito sono giustamente considerate «pubbliche» intere categorie che noi invece, chissà perché, definiamo «private». Gli autisti dei bus, per esempio. Dipendono da società formalmente autonome (Transport for London, Atm a Milano, la romana Atac), ma sono lavoratori pubblici, poiché i deficit delle loro società sono colmati dalle tasse. E così postini, ferrovieri, spazzini, lavoratori dell’Anas e delle municipalizzate.

Perfino i 13 mila dipendenti Rai sono pubblici. Però, chissà perché, le nostre statistiche non li definiscono tali. In realtà, calcolando tutti questi lavoratori di aziende che dipendono finanziariamente da Stato ed enti locali, i dipendenti pubblici italiani salgono oltre i quattro milioni. Come in Gran Bretagna.

Wednesday, June 22, 2011

Chi è Lorenza Lei, direttrice Rai

Oggi, 15 giugno 2011

Passerà alla storia come colei che cacciò Michele Santoro dalla Rai? Dopo dieci anni di inutili tentativi altrui, Lorenza Lei ci ha messo pochissimo. Nominata direttrice generale Rai all’inizio di maggio, dopo un solo mese il turbolento tribuno di Annozero era già fuori. Con una liquidazione di 2,3 milioni, certo, e senza la clausola di non concorrenza per uno o due anni contro l’ex azienda, usuale per chi strappa buonuscite così pingui. Per questo il premier Silvio Berlusconi non è soddisfatto.

Ma anche la sinistra protesta per la fine di un programma che nell’ultima puntata ha attratto più di otto milioni di spettatori: uno su tre, e addirittura uno su due dopo il battibecco fra Santoro e il viceministro Roberto Castelli. Avendo scontentato tutti, può darsi che Lorenza Lei abbia fatto la cosa giusta.

Ma chi è questa signora dallo strano cognome, prima donna a guidare la Rai (Letizia Moratti e Lucia Annunziata furono presidenti, carica non operativa)? Coro unanime: «Gran lavoratrice». In questi suoi primi 40 giorni al comando non ha cambiato abitudini: prima ad arrivare al mattino, ultima ad andarsene alla sera. «Fa impazzire il settimo piano di viale Mazzini, lavora anche la domenica», dice il consigliere d’amministrazione Pdl Antonio Verro. Niente feste romane alla sera. Unica uscita pubblica: un convegno dei Fratelli delle scuole cristiane con la sua protetta Lorena Bianchetti e i suoi protettori Gianni Letta e cardinale Camillo Ruini. Nessuna dichiarazione o intervista. Unica volontà filtrata all’esterno: più servizio pubblico, meno reality.

Bolognese, 51 anni, figlia di comunisti, separata, un figlio 28enne chef che vive con lei e la nonna, e cucina cene per gli ospiti (di recente Anna Falchi). Lorenza Lei è la risposta vivente a tutti i genitori che allontanano i figli da studi ritenuti poco «produttivi» come antropologia o filosofia. Lei si è laureata al magistero in antropologia filosofica. E ora eccola alla guida della più grande industria culturale italiana (13 mila dipendenti, 16 canali), dopo una carriera fulminea: l’assunzione a tempo indeterminato in Rai, infatti, risale ad appena dodici anni fa. Prima, dal 1996 al ’99, era solo una manager precaria, introdotta in Rai International da Renzo Arbore che la apprezzava.
«L’ho conosciuta a Bologna prima che entrasse in Rai», dice a Oggi Piero Di Pasquale, ex vicedirettore di Rai International, «è sempre stata una donna risoluta e sicura, con obiettivi molto alti. Aveva una visione precisa di ciò che voleva e doveva fare».

Ce l’avrà anche adesso che le piovono addosso critiche da destra e sinistra, dopo i consensi unanimi raccolti al momento della nomina? Perché la Rai è un gigante malato da risanare (98 milioni di deficit nel 2010), ma le spine sono soprattutto politiche. E le quattro maggiori tutte targate Rai3: Giovanni Floris (Ballarò), Fabio Fazio (Che tempo che fa), Milena Gabanelli (Report), Serena Dandini (Parla con me). Queste trasmissioni proseguirano, anche se il centrodestra le cancellerebbe volentieri. Fazio si è lamentato con una lettera a Repubblica: «Mi trattano male, non rifarò Vieni via con me in Rai con Roberto Saviano».

Il programma della Dandini perde

«Non è vero che Berlusconi sia deluso da Lei», dice Verro. «Non gli piace la gestione della Rai, ma lei che c’entra, è lì da poco. In tre consigli d’amministrazione ha presentato tre diversi palinsesti. Sull’ultimo ho grandi perplessità. La storia per cui vogliamo approvare preventivamente ospiti e scalette di Floris, Fazio e Gabanelli non ha senso. Chiuderle? No, a meno che non ci siano seri problemi economici, come nel caso della Perego. Anche la Dandini ha conti malmessi, perde cifre enormi. Quanto a Santoro, se fosse rimasto gli avrei impedito di tenere Travaglio, che non è servizio pubblico».

Lorenza Lei deve effettuare molte nomine nei Tg (il Tg2 è vacante da mesi) e nelle reti. I direttori di queste ultime rischiano poteri dimezzati se riuscirà a unificare tutti i programmi di intrattenimento in una sola direzione. «Lei sa bene quel che può fare, ma anche quello che è meglio non fare», spiega Di Pasquale, «perché sa essere molto dura, però con i piedi per terra. In questi ultimi anni si è fatta apprezzare ma anche temere. Prende lei le decisioni, non è una yes-woman».

Dopo aver seguito i programmi per il Giubileo e Rai1, dal 2002 al 2006 Lei è stata capo dello staf di tre direttori generali: Agostino Saccà, il leghista Flavio Cattaneo e Alfredo Meocci. Ha assistito a trecento consigli d’amministrazione, conosce la Rai come le sue tasche. In più è cattolica, partecipa ai convegni del Vaticano e frequenta i cardinali più potenti d’Italia: Angelo Bagnasco e Tarcisio Bertone. Fu lei, prima di entrare in Rai, a organizzare la famosa mostra sulle icone russe nei Musei vaticani. Sul versante modaiolo, invece, nel ’91 curò l’evento «Valentino, 30 anni di magia».

Ci vorrà un po’ di magia anche per sopravvivere fra i trabocchetti e gli anfratti Rai. Dopo i lunghi regni dei dc Ettore Bernabei, Biagio Agnes e Gianni Pasquarelli, i direttori generali non sopravvivono più di due-tre anni. La Lei è diversa dagli ultimi due, il prodiano Claudio Cappon uomo del parastato Iri, e il berlusconiano Mauro Masi, gran manovratore del potere romano. Aziendalista, da cinque anni era «direttrice delle risorse tv». In pratica, ogni contratto e budget è passato dalla sua scrivania. Per far abbassare le richieste ad agenti e artisti pare abbia una tecnica infallibile: li fa aspettare ore senza aria condizionata d’estate e senza riscaldamento d’inverno. Per il produttore Bibi Ballandi «è una tosta, non ti regala nulla».

Si è subito scontrata con il potente agente Lucio Presta. Prima ha fatto trapelare che avrebbe cancellato i programmi di Paola Perego (fidanzata di Presta), di Lorella Cuccarini, e che avrebbe affidato il festival di Sanremo a Carlo Conti, sottraendolo a Presta. Ma di recente pare ci sia stato un riavvicinamento a Presta, che è anche agente di Roberto Benigni e altri importanti artisti. Per Lei, donna di numeri, pianificazioni, share e prodotti, in Rai non devono prosperare potentati.

Ma la Tv di stato, lo sanno tutti, non è una semplice azienda. È anche un ministero, un po’ come il vicino palazzo del Coni. E fra i più importanti di Roma. Quindi per guidare la Rai bisogna essere anche sperimentati politici, oltre che efficaci manager. Altro che Bocconi: chissà che a Lorenza Lei in questi giorni tormentati non venga buona soprattutto la laurea in antropologia filosofica...

Mauro Suttora
(hanno collaborato
Marianna Aprile e Tommaso Gandino)

Wednesday, June 10, 2009

Massimiliano Dona e Affari tuoi

AFFARI DIMEZZATI, PACCHI TROPPO GENEROSI?

Oggi, 3 giugno 2009

«Da gennaio, quando abbiamo depositato un esposto alla magistratura su possibili irregolarità, le vincite medie ad Affari tuoi si sono quasi dimezzate».
Parla Massimiliano Dona, segretario dell'Unc (Unione nazionale consumatori). Cinque anni Striscia la Notizia accusò il quiz preserale di scegliere come concorrenti non persone comuni, ma gente già abituata alle telecamere. Lo scopo: rendere il programma più frizzante. Allora la Rai cominciò a invitarlo in studio per garantire la trasparenza del gioco.

In questi anni il programma è stato bersagliato spesso da polemiche: come avete reagito?
«Tenendo nella massima considerazione le accuse, anche quelle più recenti secondo cui il gioco era pilotato per fare in modo che i pacchi “danarosi” arrivassero fino alla fine, per tenere alti gli ascolti. Nonostante molte verifiche, non ho però trovato alcun riscontro concreto».
Che rapporti avete con la Rai e la società Endemol, produttrice del programma?
«Massima disponibilità, almeno fino a quando ho depositato l'esposto per alcune anomalie rilevate nell’attuale edizione». Comprensibile.
«Certo, ma non è da me che deve difendersi. Io ho solo tutelato gli utenti televisivi ed il soggetto pubblico che ne gestisce i soldi – cioè proprio la Rai – dalle condotte illecite di terzi. Credo che la Rai mi ringrazierà quando conterà i denari risparmiati grazie al mio intervento.
Che tipo di irregolarità avete rilevato?
«All’inizio di questa stagione le vincite si erano fatte esorbitanti. Almeno quattro giocatori avevano portato a casa il premio principale di 500 mila euro, e l’andamento di molte partite mi era sembrato sospetto. La mia attenzione poi è stata attirata da alcuni strani comportamenti dei concorrenti nella fase di preparazione dello studio televisivo, quella che precede la messa in onda».
Cioè?
«I pacchi vengono allestiti in una stanza segreta, e poi portati in sala da alcuni addetti: l’ordine con il quale entravano in studio, che non era quello numerico, poteva dare indicazioni sul valore del premio all’interno. Alcuni concorrenti lo avevano capito, e così bastava osservare quell’operazione per assicurarsi una bella vincita a danno della Rai».
E quindi?
«Ora aspettiamo che i magistrati accertino se i concorrenti hanno approfittato di una porta lasciata inavvertitamente socchiusa o, invece, siano stati invitati ad entrare dopo aver ricevuto la chiave. Comunque, da quando la nostra Unione ha chiesto ed ottenuto di modificare le procedure, le vincite si sono dimezzate».

Lei si è fatto intervistare su questo da Striscia la notizia, la trasmissione conocorrente di Affari tuoi. Non le sembra di cattivo gusto?
«No, perché i cittadini hanno il diritto di essere informati di come vengono usati i soldi pubblici. E ho richiesto a Striscia di non essere arruolato in una guerra di audience, alla quale l’Unc rimane estranea. Avrei fatto l’intervista anche alla Rai, se me l’avesse chiesto: in tal modo, peraltro, avrebbe manifestato solidarietà con chi le sta proteggendo il portafogli».
Reazioni dai telespettatori?
«Hanno saputo distinguere il nostro esposto dalle precedenti polemiche, che riguardavano più con una questione di ascolti. Ho ricevuto molti messaggi di solidarietà».
Come andrà a finire?
«Non vorrei che, come spesso accade, a rimetterci siano le persone oneste: i molti lavoratori seri della Rai, gli addetti ai lavori, gli autori, lo stesso presentatore - attualmente Max Giusti - che non hanno alcuna responsabilità. Per questo, mi rivolgo a chi sa perché chiarisca la situazione».
Pensa che la Rai la chiamerà ancora come garante?
«Credo di si. In fondo, cinque anni fa mi avevano chiamato per controllare. E io ho controllato».

Mauro Suttora

Monday, March 02, 2009

Obama taglia i charity gala

LA BENEFICENZA PRIVATA USA

di Mauro Suttora

Libero, sabato 28 febbraio 2009

Avete presente quei cenoni che si vedono spesso nei film americani, con i tavoli rotondi da dieci posti nei saloni degli alberghi, gli uomini in smoking, le signore in abito lungo e qualcuno che parla dal podio?
Sono i «charity gala», feste di beneficenza privata che negli Stati Uniti compensano il basso livello di welfare pubblico (e di tasse).

Si va lì per gli scopi più vari (raccolta fondi per malattie, bimbi poveri, politici, università, ospedali, chiese, musei) e si contribuisce sia pagando il posto a tavola (dai cento dollari in su), sia partecipando a un’asta.

Ora Obama dà una bella stangata a tutto questo mondo di filantropia: la charity sarà deducibile dalle tasse, ma con un limite massimo del 28%. Il che, per i ricchi (oltre i 370mila dollari annui) la cui aliquota di imposta sul reddito torna dal 35 al 39% per cento pre-Bush, e anche per i benestanti dai 200mila in su (che salgono dall’attuale 33 al 36), rappresenta un discreto disincentivo.

Nel disperato bisogno di fronteggiare la crisi, Obama rischia così di mandare all’aria il modello americano di redistribuzione sociale. Finora infatti gli statunitensi hanno pagato circa la metà delle tasse degli europei. Ma sanità, assistenza, istruzione, religione, arte e cultura vengono finanziate grazie ai contributi spontanei (e detraibili) dei privati. Niente intermediazione parassitaria di burocrati e politici.

Non c’è famiglia ricca che non abbia una sua fondazione. E attorno alle serate di raccolta fondi si organizza anche la vita sociale degli americani. Ogni sera in un solo quartiere come Manhattan vengono organizzate decine di «charity gala». Sono coinvolti centinaia di camerieri, migliaia di invitati, decine di migliaia di fornitori. Si arriva presto, verso le sei, per l’aperitivo. Poi c’è l’asta. Quindi, verso le otto, tutti a tavola.

Durante la cena c’è qualche discorso: parla il benefattore, il beneficiato, e spesso un vip dello spettacolo o della politica invitato per dar lustro all’evento. Infine, dopo le dieci, negli eventi più festaioli si aprono le danze. Ma già alle undici si comincia ad andare a nanna. Non prima di avere raccolto la «goody bag», un sacchetto con i regalini degli sponsor. Durante i miei anni a New York ho ricevuto di tutto: profumi Dior, mutande, cravatte Yves Saint Laurent, pacchi di pasta De Cecco (a un gala della Camera di commercio italoamericana)…

Quella delle charities è una vera e propria industria. I benefit sono infatti organizzati da schiere di professionisti: maghi del fund-raising, funzionari di fondazioni, consulenti di relazioni pubbliche, addetti stampa… Una ragazza italiana che faceva questo mestiere mi ha svelato che i grandi alberghi come il Waldorf-Astoria, il Pierre o il Plaza impongono che ai banchetti si consumi il loro vino, ovviamente a un prezzo triplo. E se per risparmiare si portano le proprie bottiglie, bisogna versare al potente sindacati dei camerieri una considerevole «cork fee» (tariffa di tappo…)

Per le signore dell’alta borghesia la filantropia è spesso l’attività principale della propria esistenza. A seconda dell’entità del contributo versato dai loro mariti miliardari, possono agguantare un posto nel consiglio d’amministrazione di un museo, di una fondazione, di un club, e sedere accanto a un Rockefeller, un Soros, un Kennedy. Spesso sono le aziende che, per obblighi d’immagine, devono comprare interi tavoli per questi gala. A New York, per esempio, la Rai e le multinazionali italiane finanziano il benefit annuale della Fondazione anticancro, quello del Columbus Day del 12 ottobre (festa degli italoamericani), e i gala della scuola italiana o della fondazione per salvare Venezia.

Nella loro allegra generosità, gli americani finanziano le cause più disparate. A nessuno negli Stati Uniti viene in mente di organizzare una festa senza un qualche scopo benefico. In mancanza dell’otto per mille, anche le chiese devono autofinanziarsi. In un tripudio di marketing, ho visto offrire posti di «serafino» a chi versa almeno diecimila dollari, cinquemila per un «cherubino», più abbordabili gli arcangeli e gli angeli semplici. Risultato: la Chiesa cattolica statunitense è la più ricca del pianeta, nonché la principale contribuente del Vaticano.

Insomma, in nome della sussidiarietà, le buone azioni in America sono tutte «tax deductible». Gli attori presenziano ai gala con tariffe fisse. Noi giornalisti accreditati all’Onu riuscimmo ad attrarre gratis Angelina Jolie alla cena del nostro club nel 2005 solo grazie al suo impegno cosmopolita. A Obama non conviene proprio rovinare questo meccanismo, che funziona.

Mauro Suttora