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Wednesday, March 07, 2012

Stipendi dei ministri

CURIOSITA': MONTI HA UNA PALAZZINA A VARESE E DUE NEGOZI IN CORSO BUENOS AIRES A MILANO. LE BUCCE DI BANANA DI PAOLA SEVERINO E GIULIO TERZI

di Mauro Suttora

Oggi, 24 febbraio 2012

Quelli che ci hanno rimesso di più sono Corrado Passera e Paola Severino. Per diventare ministro di Sviluppo e Trasporti il primo ha rinunciato a uno stipendio da tre milioni e mezzo l’anno (era il più importante banchiere italiano, capo di Intesa San Paolo) e ora ne guadagna 220 mila. Gli rimane però un patrimonio di venti milioni.

Perde addirittura il 97 per cento del proprio reddito annuo la nuova titolare della Giustizia. «Ammirevole», commenta con Oggi il politologo Piero Ignazi, «ed è un bene che cominci a succedere in Italia. Negli Stati Uniti è normale che professionisti di successo accettino di “servire la comunità“ per un certo periodo, abbandonando lucrosi affari privati. Da noi è già accaduto con il sindaco di Milano Pisapia, anche lui avvocato di nome come la Severino».

Più disincantato Antonio Polito, editorialista del Corriere della Sera, che ci dice: «La mia approvazione per Passera o la Severino non aumenta grazie ai loro sacrifici: se hanno deciso così, vuol dire che fare il ministro gli piace, o gli interessa. L’importante è che siano competenti e capaci».

Qualcuno però storce il naso. «Siamo passati dal governo di Creso [Berlusconi] a quello dei Paperoni», constata Luca Telese sul Fatto, «dall’autocrazia dell’imprenditore fai-da-te agli ottimati illuminati. La politica è diventata il gioco dei ricchi. E Paperone diventa antipatico quando chiede prestiti a Paperino».

Nessuno lo ricorda, ma la legge che impone ai ministri di esibire la propria dichiarazione dei redditi risale al 1982. Quindi, il governo Monti non ci ha regalato nulla: ha solo deciso, dopo trent’anni, di rispettare una norma desueta. «Però la trasparenza è importante», dice Polito, «e oltre ai redditi è bene conoscere tutti gli interessi di chi amministra la cosa pubblica. Perché i condizionamenti privati esistono. Non è guardonismo».

Certo, fa un po’ impressione scoprire che la ministro degli Interni Anna Maria Cancellieri possiede 24 immobili. Ma spesso si tratta di unità immobiliari minuscole, come box, negozi o terreni, oppure di lasciti ereditari posseduti in quota minima assieme a fratelli e parenti.

Monti e sua moglie, per esempio, sembrano essere grandi possidenti immobiliari, con le loro 26 proprietà (di cui dodici appartamenti). Ma poi si scopre che la metà di queste stanno in un’unica palazzina di Varese, nel trafficato viale Borri, frutto di un investimento di famiglia (il padre di Monti, dirigente bancario, sfollò da Milano durante la guerra). Gli abitanti dei sette alloggi (con quattro box) non sapevano di pagare l’affitto a un padrone così illustre. «E, a dirla tutta, non sono tanto d’accordo con le sue liberalizzazioni», confessa l’ortopedico Rapetti, che occupa il negozio di 40 metri quadri.

Una curiosità: oltre agli appartamenti dove vive a Milano (zona Fiera) e a Bruxelles (dov’è stato commissario Ue per dieci anni, fino al 2004), Monti possiede anche due negozi all’angolo fra corso Buenos Aires e via Redi a Milano. «In totale la sua rendita immobiliare annua ammonta a 77 mila euro», scrive Claudio Bernieri nella prima biografia pubblicata sul premier (Il sacro Monti, ed. Affari italiani).

Monti ha rinunciato agli stipendi di presidente del Consiglio e ministro dell’Economia. Ma conserva le pensioni da ex commissario Ue (170 mila euro annui) e di professore universitario, cui aggiunge dallo scorso 11 novembre (11.11.11, data simbolica?) i 300 mila euro da senatore a vita. In totale, quindi, non sarà un gran salasso rispetto al milione del suo reddito 2011. L’unico introito che non ha più è quello di presidente dell’università Bocconi.

«Sono comunque impressionato dai guadagni dei ministri-professori», storce il naso Stefano Zecchi, docente di Estetica. «Io, a fine carriera e ordinario da quando avevo 34 anni, prendevo 5mila euro al mese. Ora non più, c’è il contributo di solidarietà. Vedo invece che i miei colleghi Fornero, Giarda, Profumo e Ornaghi riescono a decuplicare il mio stipendio. Bravi, perché grazie al prestigio della cattedra universitaria ottengono consulenze e nomine nei consigli d’amministrazione. Ma non si pensi che i professori guadagnino così tanto».

Il commendevole spogliarello finanziario ministeriale ha provocato qualche piccola scivolata. La Severino si era dimenticata di dichiarare la propria villa da dieci milioni sull’Appia con parco e piscina, acquistata nel 2005. È intestata non a lei, ma a una società. Pizzicata dal Fatto, ha dato la colpa a un errore del commercialista.

Si è irritato con il sito Dagospia, annunciando querela, il ministro degli Esteri Giulio Terzi. Che vive con la compagna e madre dei suoi gemellini Antonella Cinque in una casa accanto a piazza di Spagna. Lo splendido appartamento le è stato affittato da Propaganda Fide (ente missionario del Vaticano) una decina d’anni fa, quando la Cinque era stretta collaboratrice del ministro della Sanità Girolamo Sirchia. Dagospia ha scritto che Terzi abita lì, lui ha smentito, ma senza precisare che l’affitto è in capo alla compagna.

Bucce di banana evitabili se, oltre ai propri redditi e patrimoni, politici e funzionari pubblici pubblicassero anche quelli dei coniugi. Finora l’ha fatto solo Monti. Ma, in un Paese in cui i tangentari intestano tutto a mogli e parenti, sarebbe una buona idea. Avete fatto trenta, fate trentuno.
Mauro Suttora

Wednesday, March 02, 2011

Berlusconi? Ha i secoli contati

Dopo il rinvio a giudizio su Ruby, il premier non si arrende

«Farà di tutto per rimanere al potere», prevedono gli esperti. «E ci riuscirà», dicono in molti. Ma fino a quando? Per ora, la sua maggioranza si allarga

di Mauro Suttora

Oggi, 2 marzo 2011

«Bisogna chiederlo alla Sfinge. O alla Pizia. Impossibile prevedere alcunché, quando c'è di mezzo Berlusconi». Giovanni Sartori, 86 anni, massimo politologo italiano, per decenni professore alla Columbia University di New York, non riesce a rispondere alla domanda: Silvio Berlusconi è alla fine? Due anni fa gli aveva dedicato il caustico libro Il Sultanato . Ma adesso dice a Oggi: «Il nostro premier è imprevedibile, sfugge a ogni regola. Certo, tutti i politici seguono una loro parabola più o meno lunga di fortune e avversità. Ma per lui i precedenti statistici non funzionano. È un caso unico. Posso solo esprimere la mia opinione personale: per causa sua l'Italia sta vivendo una situazione allucinante».

L'incriminazione per concussione e prostituzione minorile che lo vedrà sotto processo a Milano il 6 aprile non sembra avere intaccato la determinazione di Berlusconi di rimanere al potere: «Governerò fino alla fine della legislatura, nel 2013», ha dichiarato. Ce la farà?

«Berlusconi ha i secoli contati...», scherza Antonio Polito, già senatore della Margherita e direttore del quotidiano Il Riformista. «Ha superato crisi peggiori. Dopo la sconfitta del 2006, per esempio, sembrava finito. Casini e Fini parlavano apertamente di successione. Ma già nel 1996, quando Prodi vinse la prima volta, si diceva che era troppo vecchio, che non era un politico di professione... Insomma, la risposta è nella storia: è rinato altre volte».

«C'era una sola possibilità che Berlusconi cadesse», aggiunge il professor Piero Ignazi , direttore de Il Mulino , «ed era tramite la fronda interna. Come con Mussolini. Ma lo scorso 14 dicembre Fini ha fallito il suo 25 luglio, e ora Berlusconi sta facendo di tutto per rimanere al proprio posto. Riuscendoci, perché i suoi parlamentari non sono eletti, ma nominati da lui in persona. Il suo partito non segue le regole normali della politica, perché è un partito patrimoniale. E lui dispone di risorse infinite, finanziarie e non».

«Se non ora quando», allora? Utilizziamo lo slogan delle donne scese in piazza il 13 febbraio per la «dignità», disgustate dal Rubygate.
«Credo che la parabola di Berlusconi si compirà col ventennio della sua discesa in politica», risponde Marcello Veneziani, editorialista del quotidiano berlusconiano Il Giornale. «Andrà in pensione al compimento dei 19 anni, sei mesi e un giorno. Alla conclusione di questa legislatura, tra poco più di due anni. C'è però la possibilità - o il rischio, a seconda dei punti di vista - che proprio la volontà di farlo cadere prima produca il suo protrarsi sulla scena politica, perfino con un nuovo mandato di governo».

«Ma no, all'80 per cento ci sarà il voto anticipato entro l'anno prossimo», prevede Pierluigi Battista , commentatore del Corriere della Sera. «L'astro berlusconiano è in fase di oscuramento, lo scandalo di Ruby gli ha dato una botta fortissima. Anche il più favorevole dei sondaggi dà il Pdl attorno al 30 per cento, contro il 37 con cui vinse le elezioni tre anni fa. Sommando la Lega Nord il centrodestra arriva al 40. Ma a quel punto il centrosinistra torna competitivo, se riesce a mettere assieme una coalizione che raggiunga quella percentuale. La partita è aperta».

«La partita si riapre solo se si va a elezioni», obietta Polito, «e questo lo deciderà Berlusconi, che adesso è in una posizione di forza. Per tre motivi. Primo, è il padrone indiscusso del partito di maggioranza relativa. Secondo, dispone di una maggioranza parlamentare anche dopo la grave spaccatura di Fini. Anzi, questa maggioranza si allarga poco a poco. Terzo, non vedo la ragione per cui Bossi dovrebbe mollarlo. Direi perfino che alla Lega conviene un Berlusconi indebolito, perché così può ottenere più cose. Viceversa, non penso che Bossi vada con Bersani perché con il Pd il federalismo lo fa meglio... Per tutte queste ragioni, Berlusconi è difficilmente scalzabile».

«In un Paese maturo e civile», dice Veneziani, «si penserebbe a impegnare i prossimi due anni a costruire una credibile alternativa o successione a Berlusconi, lasciandolo governare per il resto del mandato ricevuto dagli elettori, incalzandolo solo sul raffronto tra promesse e realizzazioni, e tra l'azione di governo e le necessità dell'Italia. Si potrebbe guidare una transizione incruenta. Sarebbe un modo responsabile per tutti, nell'interesse del Paese ed evitando spargimenti di sangue da ambo le parti».

Quindi il premier non è in declino?
«Che Berlusconi sia stanco e a volte tradisca segni di declino mi pare vero», ammette Veneziani, «ma finché si permane in questa situazione, l'impressione è che si scelga tra il male e il peggio: tra Berlusconi e il nulla. Quando il fumo dei giorni sarà passato, si farà un bilancio onesto dell'unico leader politico dei nostri anni che passerà alla storia. Nel bene e nel male. Si allontana invece l'ipotesi che possa aspirare al Quirinale».

Le manifestazioni delle donne del 13 febbraio hanno danneggiato Berlusconi? «Avrei avuto grossi problemi a condividere un'iniziativa che sembrava essere "contro" le prostitute», dice Marina Terragni, commentatrice del settimanale Io donna. «Poi le promotrici hanno aggiustato il tiro, non più le "indignate" contro le "indegne". Certo è che il nostro uomo sembra avere grossi problemi nei rapporti con l'altro sesso. Non parliamo di quelli con l'ex moglie Veronica, ma in generale di come lui si rivolge alle donne. Quando dice "Io non le ho mai pagate", pur di fronte all'evidenza delle buste e degli esborsi del suo ragioniere per le ragazze di via Olgettina, probabilmente è sincero. Perché è fermo a una concezione vecchissima, da residuato bellico anni Cinquanta, del rapporto uomo-donna. Quella del cumenda che fa il "presente" alla favorita, o del playboy che pensa di lusingare le signore con complimenti appicicaticci. Non è mai brutale. Anzi, è gentile, come dimostrano le registrazioni del suo colloquio con la D'Addario dopo la notte insieme. Però questa sua "antichità" di approccio colpisce in Berlusconi, un uomo che invece in molti altri campi, dall'impresa allo spettacolo, è il simbolo della modernità».

Ma le disavventure femminili di Berlusconi degli ultimi due anni, dalla moglie Veronica che lo accusa pubblicamente di essere «malato» di sesso a Noemi, dalla D' Addario alla Minetti e a Ruby, possono spostare il consenso delle sue elettrici?
«Chi lo sa», risponde la Terragni. «Lui è caduto nella trappola in cui cadono tutti i vecchi con le ragazzine: l'illusione che loro subiscano il fascino della maturità, delle tempie brizzolate... Quel che è sicuro è che anche l'altra parte, il centrosinistra, ha grossi problemi con le donne. Per esempio, non si capisce perché non candida premier una come Rosy Bindi, che metterebbe d'accordo tutte le anime della coalizione. E poi c'è quella ex miss Padania seno alto Cadey...».
Prego?
«Ma sì, quella ragazza che la sinistra ha assoldato per presentare la manifestazione contro Berlusconi l'11 dicembre 2010. In piazza San Giovanni a Roma, ma ci rendiamo conto, quella di Enrico Berlinguer! Perché a sinistra il problema della "gnocca" se lo sono posto. Seriamente. Decidendo di imitare il gusto Mediaset».

Allora, Berlusconi forever? «È della Bilancia, come me e Jovanotti. Quindi non mollerà mai», scherza la scrittrice Guia Soncini, autrice di Elementi di capitalismo amoroso. «Questo ritornello del Berlusconi che è finito lo sento dal 1994, bisognerebbe cambiare repertorio. Molto più inquietanti, semmai, sono quelli che gli stanno attorno. E che non scompariranno tutti magicamente, assieme a lui».

«Ora come ora, comunque, Silvio fa il democristiano: galleggia», conclude Polito. «Per dire che è finito dovrebbe uscire da palazzo Chigi. Quindi occorre una crisi di governo. Ma dov'è la maggioranza alternativa? Lui tenterà di evitare il più a lungo possibile il voto anticipato. Prima lo minacciava, ora visti i sondaggi le parti si sono capovolte, ed è la sinistra a chiederlo. Ne riparliamo almeno fra tre o quattro mesi. Ma probabilmente anche molto più in là, nel 2012».

Mauro Suttora

Monday, December 20, 2010

Politici promossi e bocciati

Chi esce vittorioso dall' ultima crisi?

Il palazzo delle liti. Diamo i voti ai politici italiani

Berlusconi ha respinto per soli tre voti l'assalto dell'ex alleato Fini. Ma gli basterà? E come si sono comportati gli altri leader di partito? Lo abbiamo chiesto ad alcuni grandi esperti. Ecco le loro pagelle

di Marianna Aprile, Gino Gullace Raugei, Mauro Suttora

Oggi, 29 dicembre 2010

Sembrava che le sorti dell'Italia intera dovessero decidersi il 14 dicembre: dopo mesi di liti sempre più aspre, la rottura fra il presidente del Consiglio Silvio Berlusconi e quello della Camera è approdata in Parlamento. Il voto di fiducia al governo era appeso a un filo, perché i deputati ex Pdl che hanno seguito Fini erano quasi 40.

Alla fine ha vinto Berlusconi, e il governo è rimasto in carica. Ma per soli tre voti. Il margine in suo favore è stato ottenuto grazie a transfughi dal Pd (Massimo Calearo e Bruno Cesario), dall'Italia dei Valori (Antonio Razzi, Domenico Scilipoti), e dai voti di due finiane pentite, Catia Polidori e Maria Grazia Siliquini.

Ma come si sono comportati i principali politici italiani in questa crisi e, più in generale, nel 2010? Oggi, con l'aiuto di prestigiosi esperti, ha dato loro le pagelle. E ora, cari lettori, tocca a voi: andate a votare sul nostro sito www.oggi.it.

Silvio Berlusconi: 7. «È inossidabile», dice Stefano Folli, editorialista del Sole 24 Ore, «ha dimostrato di saper riemergere con abilità e spregiudicatezza da una grave difficoltà». «Gli do 10 per la gestione della crisi, 1 per come governa», specifica Piero Ignazi, commentatore dell'Espresso. «Nell' ultimo mese è stato molto abile», aggiunge Pierluigi Battista, editorialista del Corriere della Sera: «Si è nascosto e ha fatto fare ai suoi reclutamento di deputati disposti a tradire il loro mandato: essere alternativi a Berlusconi. Tattica ineccepibile, unita alla capacità di approfittare dei catastrofici errori altrui».

Giorgio Napolitano: 8. «Istituzionale», lo loda Battista. Concorda Ignazi: «La sua è stata una gestione imparziale negli interessi del Paese».

Antonio Di Pietro: 5. Folli: «Superficiale. Dall'Idv sono venute le defezioni decisive. È responsabile di una cattiva scelta dei suoi parlamentari». Ignazi: «Tira troppo la corda, è volgare. Est modus in rebus. Fa il gioco dei Cicchitti. E nel suo partito ha mele marce». Battista: «Nessun Robespierre si sarebbe mai contornato di Scilipotii...» Marco Travaglio (Il Fatto): «Merita 8 per l'opposizione, è l'unico che la fa seriamente, ma 4 per la parte propositiva. Il suo eterno tallone di Achille è l'incapacità di scegliersi collaboratori all'altezza. In certi casi privilegia oscuri traffichini di periferia, che millantano pacchetti di voti».

Gianfranco Fini: 5. Folli: «Precipitoso. Ha avuto il merito di imporsi come alternativa a Berlusconi, ma poi ha sbagliato strategia». Ignazi: «Alla fine ha fallito. E il risultato è quel che conta, in politica». Marcello Sorgi, editorialista de La Stampa : «È lui il vero sconfitto, perché aveva impegnato tutte le sue forze sull'obiettivo mancato dell' abbattimento di Berlusconi, e poi ha dovuto riparare sotto l'ala protettrice di Casini». Battista: «Meritava 10 per la capacità di resistenza alla campagna di annientamento dei berlusconiani. Ma avrebbe dovuto logorare Berlusconi, non cercare la frattura. È una disfatta politica, non numerica, la sua».

Roberto Maroni: 5,5. Battista: «La Lega Nord ha rafforzato l'asse con Berlusconi, ma non ha avuto quel che voleva: le elezioni. Almeno non per ora». Ignazi: «Ha confuso i ruoli di ministro dell'Interno (bravo) e capo della Lega, pretendendo la replica nel programma tv di Fazio e Saviano».

Sandro Bondi: 4. Battista: «Assente, perché in visita a Pompei...»

Paolo Guzzanti: 5. Battista: «Non poteva che votare contro Berlusconi, dopo aver firmato la mozione di sfiducia e scritto il libro Mignottocrazia».

Gianni Letta: 8. Come sempre, ha sapientemente trattato e ricucito nell'ombra. «Ma questa volta non ha ben messo a fuoco l'oggetto della mediazione», dice Battista. «Troppo defilato per giudicarlo», aggiunge Ignazi.

Umberto Bossi: 7. «Bravo e sornione», lo loda Ignazi.

Pier Ferdinando Casini: 7. Sorgi: «Casini aveva chiesto la sfiducia contro Berlusconi, quindi è tra gli sconfitti. Tuttavia Berlusconi gli riserva la possibilità di fare il partner per rafforzare l' indebolita maggioranza». Folli: «Si è ricollocato come interlocutore privilegiato del centrodestra». Battista: «Ha riconquistato il centro del centro».

Italo Bocchino: 4. Folli: «Avventuroso. Il suo discorso finale alla Camera ha danneggiato molto Fini». Non concorda Ignazi: «È stato bravo a fare quel che voleva il suo capo». Battista: «Dò 9 a Bocchino, ma solo in audience. Prima nessuno sapeva chi fosse».

Daniela Santanchè: 5. Ignazi: «No comment. Ma stiamo parlando di politica?» Battista: «Dovrebbe smettere di imitare la Cortellesi che imita lei. Il ruolo di supercattiva ha stancato».

Catia Polidori e Maria Grazia Siliquini: 4. Le due deputate finiane tornate all'ovile berlusconiano non riscuotono grande simpatia. Battista scherza: «Soddisfatte e rimborsate».

Pier Luigi Bersani: 5,5. Folli: «Poco rilevante. Non è riuscito a rendere chiara la proposta dell'opposizione. Governo di transizione e di responsabilità nazionale: le due forme non sono mai state chiarite». Ignazi: «Fa i discorsi leggendo i fogliettini, come i burocrati Pci di provincia». Travaglio: «Linea ondivaga, ai limiti dell'incomprensibilità». «Invece secondo me si è comportato bene», dice Concita De Gregorio, direttrice de L'Unità. «Più di quel che ha fatto non poteva fare. C'è chi fa opposizione urlando e chi, come Bersani, dimostra con i fatti che Berlusconi non è in grado di far progredire il Paese». Roberto Bernabò, direttore del Tirreno : «Bersani esce dall' ultima crisi un po' più leader rispetto ai big storici del suo partito. Ma la vittoria di Berlusconi prova che non bastano operazioni di Palazzo per rovesciare il Pdl».

Massimo D' Alema: 5. Ironizza Battista: «È stato il grande stratega della sconfitta. Quindi ha vinto».

Mariastella Gelmini: 5. Ignazi: «Tutte le cose che fa sono pessime». Battista: «La sua riforma dell' università non è male, nell' impianto meritocratico. Ma è stato rischioso esporne l' esito agli equilibri politici e alla crisi, spostando la discussione al Senato al dopo sfiducia».

Antonio Razzi e Domenico Scilipoti: 4. I dipietristi che hanno salvato Berlusconi sono bocciati. Battista: «Scilipoti è l'archetipo, il modello. Quando ha spiegato i motivi della sua scelta sembrava Brèton, era surreale, al di là della comprensione».

Silvano Moffa: 4. Ha tradito due volte: prima Berlusconi andando con Fini, poi Fini tornando da Berlusconi.

Massimo Calearo: 2. «Il suo caso è molto più grave di quello dei dipietristi voltagabbana», dice Travaglio, «perché l'ex presidente di Federmeccanica era addirittura capolista del Pd veltroniano in Veneto e già nel 2008 era chiaro che era un pesce fuor d'acqua: un industriale "falco" di Confindustria in un partito di centrosinistra non poteva essere che un infiltrato berlusconiano, quale poi si è rivelato appena agguantata la poltrona a Montecitorio».

Walter Veltroni: 5. Ignazi: «Ha fatto eleggere Calearo». Ironizza Battista: «Dovrebbe riscrivere il capitolo finale del suo libro Noi, titolandolo Loro ».

Matteo Renzi: 5 . Ignazi: «Il sindaco di Firenze mi sembra un narcisista debordante, tanto da confondersi con Berlusconi».

Rosi Bindi: 6. Ignazi: «Unica a sinistra con le idee chiare. E non usa il politichese per esprimerle».

Marco Pannella: 5. Ignazi: «La sua "trattativa" con Berlusconi è stata una provocazione mal riuscita».

Ignazio La Russa: 5. «Però come ministro della Difesa è accettabile», dice Ignazi.

Francesco Rutelli: 5. Sorgi: «Il Terzo polo con Casini, Fini e Rutelli vuole fermare l'emorragia di parlamentari di centrodestra verso Berlusconi. Rutelli spera inoltre che lo raggiungano dal Pd gli ex dc insoddisfatti dell'alleanza con gli ex comunist».

I nostri esperti hanno dato 7 a Nichi Vendola. «È bravo, capace, seducente, innovativo», sostiene Piero Ignazi. E dice Bernabò, direttore del Tirreno : «Ha molte possibilità di vincere le primarie del centrosinistra, se ci saranno. Altra cosa poi vincere le elezioni, nelle quali serve anche il voto moderato».

Mara Carfagna, 35 anni, ministro per le Pari opportunità, merita 5,5. Piero Ignazi: «Non ci si aspettava molto da lei, ma risulta dignitosa in un panorama di desolazione devastante». Pierluigi Battista scherza, alludendo ai suoi tira e molla fra Berlusconi e Bocchino: «Merita dieci in volteggio».

Il ministro del Tesoro Giulio Tremonti è rimasto silenzioso. «Non ha fatto nulla», dice Piero Ignazi. «Si sta costruendo un' immagine politica che prelude a un futuro ruolo». E Battista: «Era assente perché impegnato a custodire la cassa».

Wednesday, February 20, 2002

Radicali e informazione

Conferenza tenuta il 18 febbraio 2002 a Milano, nella sede del partito radicale (corso di Porta Vigentina)

Mauro Suttora 

I radicali non hanno un rapporto con l’informazione. I radicali SONO informazione, informazione pura, sempre e da sempre. Nascono nel ‘55 non con un congresso, ma con un articolo sul settimanale Il Mondo di Pannunzio che annuncia la nascita di un Comitato provvisorio composto da Pannunzio stesso, Carandini, Piccardi, dall’ex segretario del Pli Villabruna e Leo Valiani.

Scalfari dà una versione differente, nel suo libro «La sera andavamo in via Veneto: «Il Pr lo fondammo io, Pannunzio, Paggi e Libonati nella casa di Arrigo Benedetti a Marina di Pietrasanta nel maggio ‘55». Benedetti fondò l’Europeo nel ‘45, e l’Espresso con Scalfari nel ‘55. Un buon terzo dei dirigenti radicali erano giornalisti, da Ernesto Rossi ed Ennio Flaiano in giù.

Pannella è di professione giornalista, e così molti radicali degli anni 60: Gianfranco Spadaccia, Aloisio Rendi, Giuseppe Loteta, che diventerà editorialista del Messaggero. Il principale strumento della politica radicale è un’agenzia distribuita in ciclostile ai giornali, dal ‘63 al ‘67. Denunciarono le bustarelle dell’Eni alla stampa, anche di sinistra: ben 20 miliardi di allora in pochi anni.

Dal ‘65 al ‘70 è un settimanale molto popolare, quasi pornografico, Abc, a condurre la battaglia per il divorzio. Con grande successo, fra l’altro, perché passò da 100 a 500mila copie. Un altro volano lo avrà la campagna per l’aborto nel ‘75: l’Espresso si impegna nella raccolta di firme per il referendum, Pannella tiene una rubrica fissa, che però interrompe bruscamente quando Scalfari caccia Lino Jannuzzi dal settimanale.

Nel ‘68 e ‘72 i radicali non si presentano alle politiche con l’esplicita motivazione della mancanza di par condicio da parte della Rai nei confronti dei partiti non rappresentati in Parlamento. Nel ‘76 si presentano soltanto dopo uno sciopero della fame di Pannella per ottenere una Tribuna stampa di un’ora in prima serata, come tutti gli altri partiti. Nell’83 si presentano ma invitano a votare scheda bianca.

Il primo sciopero della fame di Pannella contro la Rai è del ‘74 - il più lungo fra i 17 della sua vita, 92 giorni. Il 22 giugno Lietta Tornabuoni rompe un silenzio di 50 giorni con un articolo sulla Stampa. E scrive: «Bernabei (il direttore generale dc, ndr) sa che, la notte del referendum, ben centomila persone sono andate a festeggiare con Pannella in piazza Navona, e teme che il suo successo s'allarghi. Ma i radicali sono una vecchia conoscenza della tv di Stato: nel 1966 Pannella era alla testa delle trenta persone che si ammanettarono davanti alla Rai, portando cartelli al collo con su scritto "Così è ridotta l'informazione". E nel '70 guidava i 19 divorzisti che occuparono per la prima volta la sede tv in via del Babuino».

Il 16 luglio '74 scende in campo Pasolini con un bellissimo articolo sul Corsera. E così il 19 luglio ‘74 Pannella, a 44 anni, debutta in Tv.

In uno studio di via Teulada, si registra il debutto televisivo del leader ancora in digiuno. Modera Gino Pallotta. Pannella è un uragano: «L'Italia non è diventata vittima di lesbiche e omosessuali dopo il referendum sul divorzio, come diceva Fanfani... Siamo contro una legge criminogena che provoca aborti clandestini di massa mentre le signore benestanti abortiscono con 500mila lire in cliniche private, con l'assistenza psicanalitica e magari anche quella religiosa...».

Pallotta è impietrito, inerte, non osa interromperlo. Aborto, lesbiche, omosessuali: è la prima volta che alla tv italiana si sentono queste parole. Alla fine della registrazione nello studio non vola una mosca. I tecnici di sala scoppiano in un applauso spontaneo: «Mejo de Kennedy, dotto'!». Ma Pannella non è contento: «Ho dimenticato di parlare degli otto referendum e del finanziamento ai partiti...»

La mattina dopo alla Rai scoppia un putiferio. Il direttore generale Willy De Luca visiona la registrazione e urla: «Dobbiamo bloccare questo pazzo a ogni costo!». Ma c'è poco tempo: il programma deve andare in onda la sera stessa. Bernabei manda immediatamente, con due motociclisti, la trascrizione completa — parola per parola — dell'intervento di Pannella al segretario dc Fanfani e al presidente del Consiglio Rumor. Ma il segretario psi Francesco De Martino e anche il presidente Leone si oppongono alla censura. Allora i vertici dc della Rai ordinano al capufficio stampa Giampaolo Cresci (che nel ‘98 diventerà direttore del Tempo, con il radicale Giovanni Negri come vicedirettore) di non comunicare l'orario del dibattito ai giornali. La trasmissione viene spostata dal primo al secondo canale, e dalle nove alle dieci di sera. Contemporaneamente a Pannella, sul primo canale viene trasmesso un programma di grande richiamo.

Tutto inutile. Come previsto, quando il capo radicale pronuncia quelle parole dallo schermo, i centralini Rai di tutt'ltalia vengono intasati di telefonate pro e contro. Intanto, sul Corriere della Sera il dibattito su Pannella va avanti. Per controbilanciare l'articolo di Pasolini ne viene pubblicato uno del comunista Maurizio Ferrara (padre di Giuliano),contrario a Pannella

Nel ‘74, nonostante questo exploit, i radicali non riescono a raccogliere le 500mila firme per 8 referendum. Di questi, la metà riguardano l’informazione. Uno è per la libertà d’antenna contro il monopolio Rai, e poi contro i reati d’opinione, l’Ordine dei giornalisti, la legge sulla stampa del ‘48.

Il 20 settembre '74 i radicali sfilano in marcia contro la Rai: chiedono la testa di Bernabei. Francesco De Gregori e un centinaio di altri artisti rifiutano di collaborare con la Rai finché durerà il monopolio Dc. Bernabei si dimette.

Qui, nella sede radicale di Milano, fra le foto appese ce n’è una col giovane Litta Modignani durante un sit-in del '76 davanti alla Rai in corso Sempione.

Nel ‘77 durante una Tribuna flash di un quarto d’ora Pannella non si ferma, continua a parlare e costringe i tecnici Rai a sfumarlo

Il 18 maggio '78, a una tribuna del referendum di Jader Jacobelli in tv, i radicali inscenano uno spettacolo che rimarrà nella storia mondiale della televisione: Pannella, la Bonino, Mellini e Spadaccia si fanno riprendere imbavagliati con cartelli di protesta. È il più lungo silenzio mai messo in onda da una tv: 24 interminabili minuti, dalle 20.53 alle 2l.17. La Rai riceve centinaia di telefonate di spettatori allibiti. «I radicali hanno violato le regole fondamentali della comunicazione, perché hanno mescolato politica e spettacolo», commenta il massmediologo Gianfranco Bettetini. «Non è vero che politica e arte sono mondi separati e incomunicabili: in America non è così», corregge Eco. E Sabino Acquaviva: «Pannella ha sovvertito i rituali della classe politica». «Trovata geniale», ammette Scalfari.

Nell’autunno '81 ci vogliono 53 giorni di digiuno a Pannella per conquistare 40 minuti di Ping pong in Rai, un dibattito con Biagi moderato da Vespa sullo sterminio per fame nel mondo.

All’inizio dell’83 l’Europeo pubblica una bella intervista a pannella di Galli della Loggia e Fiamma Nirenstein:

Perché ti lamenti sempre della censura? «I giornalisti hanno subito una vera e propria mutazione antropologica in questi anni. Non parliamo della Rai, che il Psi ha riempito con una schiera di killer dell'informazione ai suoi ordini… Una volta almeno c'erano editori borghesi come Crespi o Perrone che ogni tanto potevano fare i non conformisti».

Intanto, però, dal 1976 è nata Radio radicale, cui va il finanziamento pubblico che il partito rifiuta di incassare. Piano piano i ripetitori coprono tutta Italia. Valter Vecellio inventa le rassegne stampa mattutine che poi passeranno a Taradash e a Melega, grande giornalista, già direttore dell’Europeo fatto licenziare dalla P2 e caporedattore di Repubblica ed Espresso. Radio radicale inventa anche i fili diretti e le rassegne stampa di mezzanotte, che poi copieranno tutti. Ed è una fucina di eccellenti giornalisti:

Paolo Liguori, direttore di Studio Aperto, Stefano Andreani, finito all’Asca e a fare il segretario di Andreotti nell’era del Caf, Bruno Luverà, oggi inviato politico di punta al Tg1, Guido Votano, capo della redazione italiana di Euronews (la Cnn europea) a Lione, Giancarlo Loquenzi (Indipendente, vicedirettore di Liberal, poi alla radio del Sole 24 Ore e oggi capo delle relazioni esterne di Telepiù), Laura Cesaretti (Foglio e poi Giornale), Roberto Giachetti, oggi deputato della Margherita e braccio destro di Rutelli, Ivan Novelli, Gabriele Paci (Europeo, Indipendente, Voce di Montanelli), Stefano Anderson poi capufficio stampa del Csm, o Carlo Romeo, colonna della tv radicale Teleroma 56 e poi direttore delle sedi Rai di Aosta e Bologna.

Dal 1979 e fino alla metà degli anni ‘90 i radicali hanno avuto due canali tv a Roma, Teleroma 56 e 66, guardate anche da papa Wojtyla che così conosce Pannella. Per un certo periodo Stanzani era diventato anche azionista di rilievo del network nazionale Odeon, ma poi come sempre il sogno di un terzo polo tv si è infranto di fronte al duopolio Rai-Mediaset.

La polemica contro la Rai prosegue incessante.

Il 30 maggio '83 Pannella contesta Pippo Baudo a Montecatini (Pistoia) mentre trasmette Serata d'onore dell'Unicef in diretta tv. «Baudo è un buffone!», grida in sala, perché il presentatore ha propagandato in tv contributi contro la fame nel mondo annunciati per telefono da politici dc. Pochi giorni dopo se lo ritrova di fronte, assieme a Enzo Tortora, in una tribuna elettorale Fininvest registrata al teatro Eliseo di Roma. Il clima è gelido. La mattina seguente, all'alba, Tortora viene arrestato per camorra.

Nell’84 si attua una campagna di disobbedienza civile contro il canone Rai, coordinata da Gaetano Benedetto (oggi dirigente Wwf): aderiscono varie centinaia di persone, ma la proptesta non riesce ad avere uno sbocco politico.

Il 15 settembre '86, un anno dopo la condanna a dieci anni e 1185 giorni dopo l'arresto, per Tortora è il giorno della rivincita: assolto con formula piena in appello. Adesso il presentatore desidera tornare in tv. Silvio Berlusconi gli fa la corte, vuole strapparlo alla Rai. Così Canale 5 si apre ai radicali, che vengono invitati in ogni programma. Perfino Drive in, la trasmissione dedicata ai paninari, ospita un Pannella in doppiopetto stile Chicago anni '30, con al fianco Lory Del Santo. «Era il comico che ci mancava», commenta perfido l'autore Antonio Ricci. Ma Fedele Confalonieri, numero due della Fininvest, nega che gli inviti a Pannella servano per spianare la strada a Tortora: «Il Pr stava chiudendo, aveva bisogno di un megafono, e noi glielo abbiamo dato».

C'è un problema: se Tortora sceglie la Rai, non potrà candidarsi con i radicali. Accusa Luciano Violante, pci: «Il Pr è totalizzante. Per Pannella, Tortora è l'uomo che vale 200mila voti». Aggiunge Martelli: «Marco ha un rapporto nevrotico con i mezzi d'informazione, e sbaglia». Ma perfino la socialista Raidue apre improvvisamente le porte a Pannella, grazie a Tortora: Antonio Ghirelli, direttore del Tg2, gli fa un'intervista di ben sei minuti, e viene subito strigliato dal direttore generale dc Biagio Agnes. I radicali premono con Tortora perché scelga la Fininvest, tanto che la figlia del presentatore Silvia (giornalista di Epoca, sposerà l’attore Philippe Leroy) litiga con Pannella e straccia la tessera del Pr. Ma alla fine Tortora decide di tornare con Portobello su Raidue, e inizia la prima puntata del nuovo ciclo con la frase: «Dov'eravamo rimasti?». Fra Pannella e Tortora, comunque, i rapporti restano ottimi,

Nell’ottobre ‘89 Pannella si dimette da deputato, di nuovo in polemica esplicita contro Rai e giornalisti.

Nell’ ottobre ‘92 il capo radicale guida una marcia contro la Rai, ancora in mano al Psi e alla Dc del direttore generale Gianni Pasquarelli nonostante la bufera di Tangentopoli. «Marcio contro il marcio», proclama, 18 anni dopo il primo corteo anti Rai col quale fece fuori Bernabei.

Il 20 novembre ‘93 inizia la raccolta di firme con la Lega Nord per dieci referendum liberisti, fra i quali due sulla Rai: uno per abolire la pubblicità, l’altro per la privatizzazione. Il primo verrà fatto fuori dalla Corte Costituzionale, il secondo vince il 12 giugno 1995 con il 55% di sì. Ma non verrà mai attuato.

Con la Rai, comunque, è rottura totale. Pannella protesta: «Fanno comparire soltanto Occhetto e D'Alema, e contrapponendo loro solo la Lega. Ma D'Alema e Occhetto hanno il loro microfono, Bossi invece ha il gelato che Bianca Berlinguer gli tende e gli toglie con sofisticatissimo modo, per far fuori tutto quel che fa paura al Pds... Guardate le dichiarazioni riportate dal Tg1: 32 di Occhetto o D'Alema e nessuna mia. Questo significa eliminare gli avversari. È ora di indicare anche le "coperture nobili" del Pds. Il non plus ultra della faccia tosta è quell'abatino Gianni Riotta, minutante di segreteria, che con la sua faccia da prete fa scherzi da prete».

Nel ‘94 l’alleanza con Berlusconi viene spiegata anche con la maggiore apertura delle reti Fininvest rispetto a quelle Rai: i radicali non sono stati sempre a sinistra? «Io so che l’Italia», risponde Pannella, «ha potuto vedere le labbra secche di un digiuno della fame e della sete per i referendum grazie alle tv della Fininvest, e non della Rai». Candida Spadaccia per il cda Rai e Umberto Eco per la direzione generale, senza successo.

Taradash diventa presidente della Commissione di vigilanza, e come primo atto fa portare i bilanci Rai in Tribunale.

Il 26 maggio 95 un altro episodio che passerà alla storia: i fantasmi radicali, coperti da un lenzuolo, in tribuna politica. La direttrice dc Angela Buttiglione abolisce le dirette.

Nel dicembre ‘95 arrivano ai vertici Rai avvisi di garanzia per attentato ai diritti politici dei cittadini, su denuncia radicale. Ma non si arriverà mai ai processi.

Nel 95 e 97 scioperi della fame contro la censura tv.

Nel 98 battaglia contro la Rai che offre 25 miliardi per la Radio, cui si vogliono togliere i dieci miliardi annui di convenzione col Parlamento per la trasmissione delle sedute.

1998: appena risvegliatosi dall’anestesia dopo una serie di delicatissime operazioni al cuore, Pannella detta alle agenzie questa dichiarazione: «Spero possa iniziare e rapidamente avviarsi a conclusione, finalmente, il processo di convalescenza. I direttori dei telegiornali, l'associazione per delinquere Rai - che compiono volgari azioni in un unico disegno criminoso: lasciare al potere in Italia il sistema criminogeno della partitocrazia - non possono dunque stare tranquilli»

Oggi molti editorialisti dei quotidiani italiani sono ex radicali o simpatizzanti: Panebianco e Merlo (Corsera), Teodori (Giornale), Ignazi (Sole 24 Ore), Quagliariello (Messaggero), Prado e Farina (Libero)

Penso che l'unica soluzione per trasformare la Rai da quella fogna clientelare che è in qualcosa di decente sia la privatizzazione. Una, due, tre reti, in blocco, a spizzichi, qualsiasi cosa va bene.

Il «servizio pubblico» non esiste. L'informazione è una merce, come tutte le merci il suo valore è determinato dal mercato, e vale la legge della domanda e dell'offerta. Per esempio, se il comune di Milano o la regione Lombardia devono comunicare che il giorno dopo il traffico è vietato, possono diramare questa informazione di pubblica utilità attraverso tutti gli organi d'informazione privati, che saranno ben lieti di veicolarla perche' si tratta d'informazione utile (quindi con un alto valore di mercato), o perfino con gli sms sui telefonini.

Il «servizio pubblico» è solo un pretesto usato dal potere politico per controllare l'informazione e mantenere carrozzoni costosi e inutili. Negli Usa non esiste tv pubblica, solo un piccolo canale (Pbs) noioso che pochi guardano perche' trasmette trasmissioni cosiddette culturali o di pupazzi (Muppet show). Esistono però canali (C-Span) che trasmettono le sedute parlamentari via etere e internet, come Radio radicale

Friday, April 04, 1997

Pannella e l'Ordine dei giornalisti

CINQUANT'ANNI DI ROSE E PUGNI TRA PANNELLA E I GIORNALISTI

IL REFERENDUM CONTRO L'ORDINE È L'ULTIMA FASE Dl UN RAPPORTO CONTRASTATO. L'ANTAGONISMO CON SCALFARI

Il leader radicale si innamorò della stampa a quindici anni. Comprava due copie al giorno di Risorgimento liberale, il quotidiano del Pli da dove Einaudi attaccava la corporazione. Gli anni del Mondo, del Giorno, e la comune militanza politica con il direttore di Repubblica

Di Mauro Suttora

Il Foglio, 4 aprile 1997

Milano. I milioni di italiani che andranno a votare per il referendum sull'Ordine dei giornalisti lo ignorano, ma quel voto è il risultato finale di un intenso rapporto di amore-odio: quello che da più di mezzo secolo lega Marco Pannella a giornali e giornalisti, e in particolare al più ricco (di gloria e di miliardi) fra loro, Eugenio Scalfari. 

I giornali Marco li ha sempre amati. Da quando, studente 15enne al liceo classico Giulio Cesare di Roma nel '45, si imbatte in Risorgimento liberale, il quotidiano del Pli. Già eccessivo allora, non si limita a comprarne una copia: "Mi interessò talmente, che da quel giorno ne ho sempre prese due: una per me e una per i miei compagni di scuola". 
Proprio su Risorgimento liberale Luigi Einaudi sferrava quelli che a oggi rimangono i più lucidi attacchi alla corporazione dei giornalisti. 

Marco nel '49 viene folgorato da un secondo giornale: il Mondo, appena fondato da Mario Pannunzio. Pannella si affaccia sempre più spesso nella redazione a Campo Marzio. Ma non è l'unico giovane a essere attratto da quel cenacolo di galantuomini i quali, oltre a confezionare il settimanale più sofisticato dell'epoca, trasformano la redazione in un salotto intellettuale perenne. 
In concorrenza con Marco per farsi notare dagli 'anziani' della cultura liberale italiana infatti c'è Scalfari. E come Marco anche Eugenio, più vecchio di sei anni, è un attivista della corrente di sinistra del Pli.

La competizione fra i due giovani galli nel troppo affollato (d'ingegni) pollaio liberal-radicale è inevitabile. Pannella negli anni 50 diventa il capo degli universitari italiani. Scalfari invece va a lavorare nella banca Commerciale a Milano, scrive articoli per l'Europeo di Arrigo Benedetti e sposa la figlia del direttore della Stampa. Nel 1955 fonda sia l'Espresso con Benedetti, sia il partito radicale con Valiani, Carandini e tanti altri. Compreso Pannella. 

Intanto anche Marco nel '59 debutta nel giornalismo con una lettera aperta a Palmiro Togliatti su Paese Sera. Però esagera, calca troppo i toni e viene bocciato: dal Migliore, che lo liquida tre giorni dopo, sempre sul Paese ("Non accettiamo queste polemiche"), ma soprattutto da Scalfari che emette addirittura un comunicato pubblico per sconfessarlo, e perfino dal Mondo che gli dà del "cretino". 

Disgustato, Marco lascia l'Italia. Approda a Parigi dove, a corto di soldi, si presenta alla redazione del Giorno in rue Saint Simon, 7° arrondissement. Comincia a collaborare con la corrispondente in carica Elena Guicciardi. Copre il turno di notte. 
"Era già polemico - ricorderà l'allora caporedattore Angelo Rozzoni - invece di mandare il servizio richiesto inviava tre-quattro cartelle di 'controinformazione'. Era molto bravo e diligente, gli avrei dato un sette, ma aveva l'inveterata abitudine di fare a modo suo".

Nel dicembre '62, dopo i rituali 18 mesi di praticantato, Marco diventa giornalista professionista. Poi contesterà sempre l'Ordine e rifiuterà gli sconti su aerei, treni e autostrade. Il suo stipendio a Parigi è di 20 mila lire il mese. 

Di politica non si può occupare, c'è già la Guicciardi. Ma nelle pagine di cronaca riesce a infilare un'intervista a Jean-Paul Sartre sulla tortura, viene inviato a Cannes al festival del cinema, va a Tolosa per un'inchiesta sulle caserme, si occupa di Dalida.

Una volta, da Milano lo incaricano di cercare Gina Lollobrigida a Parigi. "Le ho lasciato un messaggio in albergo", risponde sbrigativo con un telex che trasuda disinteresse. 

Nel gennaio '63 Pannella si dimette dal Giorno. "Mi licenziarono dopo un'inchiesta sull'Eni e Mattei - è la sua versione - dopodiché fui messo all'indice. Ero vietato da tutti, sia come firma che come notizia". 

Iniziano così 30 anni di giustificata paranoia, con giornali e tv sempre ossessivamente nel mirino. All'interno del Pr, Pannella guida l'opposizione a Scalfari con la propria corrente "Sinistra radicale", di cui fanno parte gli ex goliardi Massimo Teodori (futuro editorialista di Messaggero e Giornale), Gianfranco Spadaccia (giornalista dell'agenzia Italia) e Angiolo Bandinelli, collaboratore del Mondo.

Nel '63 Pannella conquista il partito radicale. Vuoto, però. In quegli anni l'attività ruota attorno a una battagliera agenzia di notizie, visto che la maggior parte del gruppo dirigente è formata da giornalisti. Memorabili le campagne contro l'Eni di Eugenio Cefis e il sindaco di Roma Petrucci (che finirà in galera), oltre a quelle per l'obiezione di coscienza (vinta nel '72) e per il divorzio (vinta nel '70 con la legge, e quattro anni dopo col referendum). 

Ma quest'ultima, iniziata nel '65, ottiene solo l'appoggio del settimanale plebeo-erotico Abc, e anche le altre iniziative radicali vengono snobbate dalla grande stampa. Così lievita il livore di Pannella verso i "colleghi".

La direzione di Lotta continua

La situazione non migliora negli anni 70. Il Pci vede come il fumo negli occhi il referendum sul divorzio, perché rischia di "spaccare le masse" e ostacolare il "compromesso storico" con la Dc. Invece Pannella accentua il suo impegno anticlericale e si riavvicina a Scalfari. 

Nel '71 fondano assieme la Lega per l'abrogazione del Concordato (cui aderiscono Leonardo Sciascia, Eugenio Montale, Ignazio Silone, Ferruccio Parri, Alessandro Galante Garrone) e tengono comizi anticoncordatari in giro per l'Italia. 

Sarà anche a causa di questa eccessiva vicinanza al libertario Pannella, oltre che per l'ostilità di Craxi, che nel 72 Scalfari perderà il seggio di deputato socialista conquistato nel '68 (per sottrarsi al processo sul caso Sifar). 

Intanto a Pannella arrivano una ventina di denunce per avere diretto il giornale sessantottino Lotta continua. Lui concedeva la propria firma a qualsiasi pubblicazione avesse bisogno di un direttore responsabile. Unica condizione: "Non voglio vedere una riga di quel che pubblicate".

Per Lotta continua vengono incriminati anche Pier Paolo Pasolini e Marco Bellocchio. Umberto Eco, Lucio Colletti, Giovanni Raboni, Paolo Mieli, Natalia Ginzburg e altri intellettuali firmano un appello a favore degli imputati. 

Ma il bastian contrario Pannella prende le distanze anche da loro: "Dubito che di 'pensiero', marxista o no, ce ne sia molto in chi pensa di 'fare la rivoluzione impugnando le armi contro lo Stato' [una delle frasi incriminate, ndr]. Questo non un reato: è un'imbecillità, coeva più alle spedizioni fiumane di D'Annunzio che alla lotta politica odierna". 

Nel '73 Pannella torna alla professione di giornalista. Segue per l'Espresso le elezioni in Francia. Ma si arrabbia per i tagli e alcune censure subite dai suoi articoli. Due anni dopo l'Espresso aiuterà il partito radicale a raccogliere le firme per il referendum sull'aborto, e affiderà una rubrica settimanale a Pannella. Ma Marco la interrompe per protesta dopo il licenziamento da via Po del suo amico Lino Jannuzzi. 

Nella seconda metà del '73, in vista del referendum sul divorzio, Pannella fonda il quotidiano Liberazione, sull'esempio del neonato Libération parigino diretto da Sartre (vent'anni dopo cederà la testata a Rifondazione). 
Ma il compito è sovrumano, perché la redazione è composta soltanto da Pannella stesso, da Vincenzo Zeno-Zencovich (poi docente universitario, editorialista sul Sole 24 Ore, avvocato e autore del pamphlet 'Contro la libertà di stampa'), Rolando Parachini e Roberto della Rovere (poi al Corriere della Sera).
Dopo un mese Liberazione diventa bisettimanale, ma nel febbraio '74 chiude. 

Le dimissioni del presidente della Rai 

Nel 1974, sull'onda del referendum vittorioso che conferma la legge sul divorzio, i radicali propongono otto referendum. Uno di questi è contro l'Ordine dei giornalisti. Aderiscono Norberto Bobbio, Arrigo Benedetti, Adele Cambria, Gigi Ghirotti, Adriano Sofri, Giovanni Russo. Ma le firme raccolte si fermano a 170 mila.

In compenso, quell'estate Pannella è il primo a pronunciare alla tv italiana le parole "aborto", "lesbiche" e "omosessuali". Nonostante gli sforzi del capufficio stampa Rai Giampaolo Cresci (poi direttore del Tempo), lo scandalo è enorme. Alla fine il potentissimo presidente Rai Ettore Bernabei si deve dimettere.

Sul caso Pannella intervengono sul Corriere della Sera Pasolini, Giuseppe Prezzolini, Giovanni Spadolini e Maurizio Ferrara, sull'Espresso Sciascia, Alberto Moravia e Giorgio Bocca. Il leader radicale diventa un personaggio nazionale, e nel '76 deputato. 

Nelle liste del Pr abbondano i giornalisti: Enzo Marzo, Massimo Alberizzi, Riccardo Chiaberge e Cesare Medail del Corsera, Valter Vecellio (oggi inviato del Tg2) e Marco Taradash (per anni al mensile Prima Comunicazione), inventori delle rassegne stampa su Radio radicale. 

Stefano Rodotà, allora editorialista della neonata Repubblica, simpatizza. Ma è l'attuale commentatore di punta del Corriere della Sera Angelo Panebianco, assieme a Teodori, Piero Ignazi (poi editorialista di Repubblica) e al docente universitario Lorenzo Strik Lievers, il teorico più raffinato del radicalismo.

I1 culmine dello scontro tra Marco ed Eugenio

Nelle politiche del '79 alla pattuglia radicale si aggiungono sul versante giornalistico Maria Antonietta Macciocchi, Gigi Melega, Gianni Vattimo, Alfredo Todisco, Fernanda Pivano e Barbara Alberti. Scalfari appoggia Pannella nella battaglia contro la fame nel mondo.

Ma l'ennesima rottura (mai più ricomposta) fra i due avviene nel 1981, sulla "linea della fermezza" durante il sequestro Br del magistrato D'Urso. Pannella scatena i militanti radicali, i quali mandano in tilt i centralini di Repubblica che rifiuta di pubblicare i comunicati brigatisti, condizione per la liberazione. Svela perfino i numeri di casa di Scalfari. 

"I brigatisti hanno definito Pannella 'sciocco demagogo' - risponde furibondo Scalfari in un editoriale - demagogo lo è certamente, sciocco assolutamente no, come può testimoniare chi lo conosce da trent'anni. (...) Pannella è un sovversivo, ne più ne meno delle Br. Le Br usano le pistole, Pannella le parole e lo psicodramma di massa". 

"Da Almirante a Valiani, da Scalfari a Berlinguer, si è ricostituito il partito della forca, come ai tempi di Moro. Hanno bisogno di un cadavere per fare un golpe", replica Pannella da Radio radicale mobilitata giorno e notte dal direttore Jannuzzi. 

Nell'84 Scalfari viene condannato a risarcire Pannella con 70 milioni per un articolo diffamatorio sul caso Cirillo. Il direttore di Repubblica si vendica tre anni dopo, attaccando Pannella per la candidatura di Cicciolina. 

Ma è soprattutto su Bettino Craxi che i due hanno posizioni opposte: Pannella lo corteggia; Scalfari, innamorato del segretario dc Ciriaco De Mita, lo detesta. 
Il culmine dello scontro fra Marco ed Eugenio viene raggiunto nel '93, quando Pannella organizza addirittura un convegno ad hoc contro Scalfari, Caracciolo e De Benedetti: "Sono associati per delinquere - spara - Scalfari è un libertino mascherato da tartufo, che con una mano indica il dio della democrazia e con l'altra tocca le cosce dell'autoritarismo e della corruzione. Ha fornicato per anni con coloro che attaccava". 

Finirà mai la rivalità fra il politico 67enne che non è riuscito a fare il giornalista e il giornalista 73enne che non è riuscito a fare il politico (anche se il primo si illude di distruggere i giornalisti con il referendum, e il secondo spera in un posto da ministro o da senatore a vita)?
Mauro Suttora