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Tuesday, August 07, 2001

Due settimane dopo il G8 di Genova

NOGLOBAL: PARLANO I DURI

di Mauro Suttora
Il Foglio, 7 agosto 2001

Milano. «Assassini! Le vostre pallottole non fermeranno le nostre ragioni! Pagherete caro, pagherete tutto!» Questi gli slogan nel Centro sociale Vittoria (un capannone all’angolo delle vie Friuli e Muratori), dove l’altra sera i noglobal milanesi hanno fatto il punto della situazione. 

Quelli del Vittoria appartengono all’ala «dura»: considerano venduto perfino Luca Casarini con le sue Tute bianche. E non sono pochi: i centri sociali che rifiutano «la subordinazione al riformismo istituzionale» vanno dal milanese di via dei Transiti ai torinesi Askatasuna e Murazzi, dal collettivo autonoMolotov di Pistoia agli «antagonisti» di via dei Volsci a Roma, dall’ex Carcere di Palermo al Kollettivo autonomo La rivolta di Frosinone.

Un centinaio di «realtà» che, assieme ai Cobas, pur aderendo al Genoa Social Forum hanno tenuto a differenziarsi, fondando il «Network per i diritti globali». A Genova hanno manifestato separatamente dagli altri, e nella loro zona sono scoppiati i primi incidenti. 

Proprio sugli incidenti, il bilancio che fanno quelli del Vittoria è agghiacciante: «Carlo Giuliani non è morto per colpa di un carabiniere inesperto, ma perché il governo Berlusconi e i media hanno cercato e determinato le condizioni per arrivare al morto... Hanno alimentato le fiamme già accese della tensione e dell’aggressione... Compagni, la campagna di provocazione orchestrata per due mesi nei confronti del movimento è stata criminale».
 
Le analisi sembrano «wishful thinkings», profezie allo stesso tempo roboanti e vittimiste che si autoavverano. Tutte le lotte si saldano l’una all’altra, e più il quadro è fosco meglio è: «Eravamo in 300mila per dire no alla violenza della globalizzazione, del capitalismo, dell’imperialismo e dello Stato». 

I quali sono per loro natura «assassini», ben prima di Genova: «I potenti non avevano messo in conto, dopo il crollo del Muro, un’opposizione alle loro politiche assassine. Per questo è scattata la repressione più violenta, una deliberata aggressione fisica nei nostri confronti. Non è stata un’operazione improvvisata, ma preparata a tavolino, e non ha nulla da invidiare a quelle studiate sui libri della Germania nazista. Il morto non è stato causato per incidente, anzi, solo per fortuna e per caso non ce ne sono stati molti di più sulle strade e nelle caserme di Genova».

Nessuna autocritica da parte degli antiglobal? Come no, e pure «forte e dura, compagni: per i diffusi atteggiamenti di continuo appiattimento a destra come risposta agli attacchi delle istituzioni. E’ mancato un confronto sui contenuti, perché è stata privilegiata una continua e assillante riflessione solo sulle forme che la piazza avrebbe assunto, e su quello che in piazza non avrebbe dovuto accadere».

La violenza si trasforma nelle loro parole in innocua «autodifesa», e nel mirino finisce Vittorio Agno letto: «Si sono verificate inaccettabili dissociazioni e prese di distanza su scelte di autodifesa del corteo, in una catena di scaricabarile e di chiusura a sinistra: una politica che ha fatto solo il gioco di chi voleva disarmare e distruggere politicamente il movimento».

E i black block? «A dar retta ai media e alle esternazioni di qualche pacifista pacificato, pare che tutta la colpa degli scontri sia loro. Ma è una tesi risibile: lo dimostrano ampiamente i fatti, e il fallimento di ogni tipo di concertazione sulla gestione della piazza, da qualcuno caldamente auspicata...»

Nessuna critica alle Tute nere, quindi. Quelli del Network se la prendono invece con la sinistra istituzionale: «Assistiamo ai suoi goffi tentativi di cavalcare un movimento che ha chiaramente espresso radicalità e rottura non solo contro questo governo da paese sudamericano, ma contro un liberismo selvaggio e brutale che fino a ieri veniva avallato dal centro-sinistra, introducendo flessibilità e precarizzazione nel lavoro, costruendo campi-lager per i migranti, fino alla criminale guerra dell’imperialismo occidentale nel Kosovo».
 
Nessuna buona notizia per le prossime settimane: «Genova è stata una prova di forza, un avvertimento. Ma la partita centrale si giocherà a partire da settembre, quando si riapriranno le lotte per i contratti nelle fabbriche, per il diritto all’istruzione nelle scuole, contro l’attacco alle pensioni e le leggi repressive sull’immigrapressive sull’immigraantativo di chi si erge a custode del variegato movimento antiglobalizione... Rinasce il conflitto di classe, rifiutiamo il tentativo di chi si erge a custode del variegato movimento antiglobalizzazione». 

Altro che Fao, quindi: primo appuntamento di massa già il 21 e 22 settembre, per ricordare i due mesi dalla morte di Giuliani, che ovviamente «vive e lotta insieme a noi».

Nella sala del centro sociale Vittoria, strapieno di ragazzi e ragazzine giovanissimi, non borchiati e con pochi piercing, apparentemente figli più della borghesia che del proletariato, scrosciano gli applausi.

Vengono proiettati i video su Genova di Blob e Raitre: emozione quando si vede colare il sangue di Giuliani, risate quando Giovanna Botteri del Tg3 grida «Baciami il culo» a un dimostrante che la ostacolava. Walter Veltroni, così desideroso di accogliere gli antiglobal nella sua Roma a novembre, si prepari all’«accoglienza».
Mauro Suttora

Friday, July 27, 2001

G8 di Genova: parla Vittorio Agnoletto

IL CAPO DEI NOGLOBAL SPIEGA COS'E' SUCCESSO NEGLI SCONTRI CHE HANNO PROVOCATO LA MORTE DI CARLO GIULIANI

di Mauro Suttora

Oggi, 27 luglio 2001
                      
Vittorio Agnoletto è tornato a casa. Il capo dei contestatori di Genova ha lasciato il capoluogo ligure dopo il funerale di Carlo Giuliani, il 23enne morto durante gli scontri, ed è approdato a Cesano Maderno (Milano), nella sua Lombardia, per tenere un comizio alla festa di Rifondazione comunista della Brianza. Qui lo incontriamo.

Agnoletto, 43 anni, è diventato famoso nell’ultimo mese come portavoce del Genoa Social Forum (Gsf), la coalizione che ha organizzato le proteste contro il vertice dei G8, gli otto Grandi che governano gli Stati più industrializzati della Terra.

Adesso è nell’occhio del ciclone: accusato dalla destra di avere tollerato, se non addirittura fomentato, gli incidenti, e invece osannato a sinistra come l’artefice di un corteo che ha fatto scendere in piazza ben 250mila persone contro il governo di Silvio Berlusconi.

«Ma io sono diventato portavoce del Gsf quasi per caso», si schermisce lui, «soltanto perché a un certo punto dovevamo nominare una delegazione che incontrasse il ministro degli Interni e il capo della Polizia. Al Gsf aderiscono un migliaio di associazioni, di cui 400 straniere: erano stati fatti una decina di nomi, dovevamo ridurli, alla fine uno si alza proponendo il mio nome. E tutti si sono trovati d’accordo».

Non è un mistero che gli «antiglobalizzatori» siano diversissimi fra loro: si va dai comunisti ai cattolici, dalle Tute bianche dei centri sociali ai ragazzi degli oratori, dall’Arci a Pax Christi. 
«Sì, ma contrariamente a quello che succede quasi sempre in Italia, e cioè che basta essere in quattro per non trovarsi più d’accordo e cominciare a litigare, fin dall’inizio nel Social Forum si è creata un’atmosfera di collaborazione, in cui nessuno ha mai preteso di fare il primo della classe».

Anche dopo la battaglia di Genova? 
«Sì. Anche in questi ultimi giorni nessuna delle organizzazioni si è dissociata. Anzi, proprio oggi Pax Christi ha riconfermato la sua adesione. D’altra parte, fra noi c’è sempre stata molta chiarezza sul rifiuto della violenza».

E allora perché sono state spaccate vetrine, lanciate bottiglie molotov, bruciate auto, attaccati poliziotti? 
«Questo lo ha fatto chi non aderiva al Gsf. Come le cosiddette Tute nere del Black block. Noi abbiamo sempre detto che avremmo praticato la disubbidienza civile a mani nude, e così abbiamo fatto. Quei gruppi, invece, hanno attaccato sia noi che la polizia. I Cobas, per esempio, che si dovevano trovare in piazza Da Novi, quando sono arrivati lì hanno trovato le Tute nere. Allora, proprio per non mischiarsi, se ne sono andati verso piazza Tommaseo. Ma appena si sono mossi la polizia li ha caricati. Loro, non le Tute nere».

Però durante il blitz notturno nel vostro quartier generale sono state trovate bottiglie incendiarie, roncole, coltelli e armi improprie. 
«Su questo voglio fare chiarezza. Ci avevano dato due scuole, una di fronte all’altra. In una c’eravamo noi del Gsf, con l’ufficio stampa, l’ufficio legale, l’assistenza medica. L’altra era per le Ong, le Organizzazioni non governative aderenti al Gsf. Poi però, nei giorni precedenti al vertice, ha piovuto, cosicché abbiamo trasformato la seconda scuola in dormitorio per i manifestanti senza tenda che erano scappati dagli stadi».

Quindi lei non smentisce la polizia, sull’effettiva presenza di violenti nella scuola. 
«Non potevamo chiedere la carta d’identità a tutti quelli che entravano. Ma l’ultima notte sono stati i poliziotti a comportarsi in modo indegno, massacrando ragazzi che dormivano in sacco a pelo. Ai parlamentari che chiedevano di assistere alle perquisizioni mostrando i tesserini, è stato risposto “ficcateveli in quel posto”. Scene di tipo cileno».

Però alcune strade di Genova erano state devastate dalla guerriglia urbana. 
«Perché le forze dell’ordine non hanno bloccato i violenti? Abbiamo filmati in cui si vedono addirittura alcune Tute nere fermarsi tranquillamente a parlare con dei poliziotti. Avevamo noi stessi segnalato alla Questura l’arrivo di frange estremiste da Bologna, e ci avevano detto che era tutto sotto controllo».

Ma i vostri slogan non erano esattamente nonviolenti: anche voi gridavate “Poliziotti assassini!”. 
«Questo è successo dopo l’assassinio di Carlo Giuliani. Ma le nostre parole d’ordine erano ben altre».

E quali erano? 
«Il radicale dissenso contro le politiche internazionali dei Paesi più ricchi. Il G8, forte solo della propria potenza e arroganza, è il simbolo di un sistema di governo non democratico che privatizza gli utili, socializza le perdite e globalizza le ingiustizie».

Slogan a parte, in concreto cosa volete? 
«Per esempio, che il neoliberismo non costringa miliardi di persone a vivere con un dollaro al giorno. Che i farmaci per curare l’Aids siano venduti a prezzi accessibili anche nel Terzo mondo, e non sottoposti all’esosità di multinazionali che ne detengono i brevetti per vent’anni. O che gli Stati Uniti, produttori da soli del venti per cento dell’inquinamento mondiale, accettino gli accordi di Kyoto...»

Agnoletto è un fiume in piena. D’altra parte, è uno abituato a far politica da trent’anni, cioè da quando entrò al liceo Berchet di Milano, lo stesso dove studiava Gad Lerner. 
«Ma allora lui era un estremista di Lotta Continua, mentre io ero considerato un moderato perché stavo nel Pdup, il Partito di unità proletaria di Vittorio Foa».

Un’altra differenza con Lerner è che il futuro direttore del TgUno (oggi a La Sette, dove ha invitato Agnoletto a molti dibattiti) non studiava granché, mentre il futuro capo dei noglobal pigliava tutti otto e nove.

Secchione, Agnoletto proviene dalla solida borghesia milanese. Famiglia di medici e avvocati, fra i quali il padre del codice di procedura penale Giandomenico Pisapia, il cui figlio Giuliano (deputato di Rifondazione comunista) è suo cugino. Anche Agnoletto alle ultime elezioni era candidato nel partito di Fausto Bertinotti, ma non è stato eletto.

E adesso, anche se parla proprio da un palco di Rifondazione nella sua prima uscita pubblica dopo Genova, ci tiene a prendere un po’ le distanze: «Stasera sono qui, ma domani andrò a Loreto per un’assemblea di cattolici, e dopodomani sarò a Roma a incontrare i parlamentari Ds e i giornalisti della stampa estera».

Anche Agnoletto, peraltro, è religioso. Per anni è stato boy-scout, facendo pure una discreta carriera. Contemporaneamente stava in Democrazia proletaria, dove nel 1977 era già il responsabile dei giovani. E proprio il ‘77 è stato l’anno in cui ci furono in Italia le ultime morti in scontri con la polizia: lo studente Lorusso a Bologna, Giorgiana Masi a Roma. 
Quasi un quarto di secolo dopo, in una piazza d’Italia è tornato il sangue.

Agnoletto sente il peso di questa responsabilità, e non si limita a dare tutte le colpe alla polizia: «Di fronte al problema della violenza dobbiamo riflettere anche all’interno del nostro movimento. Cosa dovremo fare nei prossimi cortei, organizzare un nostro servizio d’ordine? Certo, l’autotutela contro i violenti ci vuole, ma così rischiamo di ripercorrere strade pericolose».

Sì, perché Agnoletto sa bene che nei «servizi d’ordine» di alcuni gruppi extraparlamentari le Brigate Rosse arruolarono terroristi a piene mani. 
Lui invece, anche fisicamente e con quella sua vocina, è l’esatto contrario di un certo «machismo da corteo» che si è esercitato a Genova, per esempio nella falange paramilitare delle Tute bianche con tanto di divise, elmi, scudi e maschere antigas.

Agnoletto invece, laureatosi medico, dopo il servizio civile con i tossicodipendenti nel 1987 ha fondato la Lila (Lega italiana lotta all’Aids), diventando anche consulente del governo (incarico toltogli dal ministro Roberto Maroni). 
Sentiremo parlare ancora di questo piccolo grande uomo dalla faccia triste e dalla voce acuta, che parla nervoso con gli occhi spiritati, e agita le mani come Bertinotti.
Mauro Suttora

Friday, April 06, 2001

I noglobal battono McDonald's

I NOGLOBAL BATTONO MCDONALD’S

di Mauro Suttora
Il Foglio, 6 aprile 2001

Gli antiglobalizzatori di Seattle sconfiggono McDonald’s. È successo a Milano, dove la multinazionale americana temeva che un proprio nuovo ristorante in fase di apertura fosse preso di mira dagli autonomi. E allora, invece di battezzarlo con la celeb re insegna rosso-gialla dell’hamburger planetario, hanno preferito ripiegare su un più tranquillo e anonimo «Pizzamia». Così da pochi giorni in corso San Gottardo, proprio di fronte all’Auditorium della musica, ecco scintillare il logo verde della nuova catena di pizza pronta.

Fino a tre anni fa in quel locale del quartiere Ticinese era ospitato un Burghy, la prima catena paninara tutta made in Italy (gruppo Cremonini) che dagli anni Ottanta aveva preceduto (e anche impedito, o almeno ritardato) lo sbarco di McDonald’s nella penisola. Ma dopo l’acquisto dei ristoranti Burghy da parte dei re della polpetta statunitense, avvenuto nel 1997, piano piano tutte le insegne sono state rinnovate. 

Per la verità non c’è stato un gran cambiamento, perché il logo Burghy aveva gli stessi colori di McDonald’s, e anche gli interni erano stati copiati dall’America. Comunque, nel giro di un paio d’anni tutti i Burghy sono scomparsi, per far posto ai nuovi padroni.

In alcuni casi, quando i ristoranti Burghy e McDonald’s si trovavano vicinissimi, gli americani hanno preferito chiuderne uno: è quel che è successo, per esempio, in piazza Cordusio a Milano, dove la concorrenza fra hamburger italiani e americani è ormai un ricordo. 

In altri casi, invece, McDonald’s ha mantenuto aperti sia i propri locali, sia quelli acquisiti da Burghy: è il caso, sempre a Milano, dei ben quattro punti vendita presenti in corso Buenos Aires, tre dei quali distanti pochi metri l’uno dall’altro (piazza Loreto, piazza Argentina, angolo via Pergolesi).

Uno dei motivi di questo affollamento sta nel timore, da parte di McDonald’s, di lasciare spazi liberi ai concorrenti della catena (anch’essa multinazionale) Burger King, sbarcata in Italia soltanto alla fine degli anni Novanta. 

In piazza Duomo, per esempio, grazie a un accordo con Autogrill, Burger King è riuscita a fare lo sgambetto a McDonald’s: ha conquistato le due postazioni migliori (angoli con via Torino e con la Galleria), lasciando un solo ristorante ai rivali.

Nel novembre ‘99, però, è nato il movimento di Seattle. E uno dei bersagli preferiti dei teppisti dei centri sociali sono le vetrine di McDonald’s. La zona milanese dei Navigli è abbastanza calda per la presenza di vari centri, fra cui il Conchetta nella via omonima, a poche decine di metri dall’ex Burghy di corso San Gottardo. Più di un raid ha danneggiato il McDonald’s più vicino, quello di piazza XXIV Maggio, e gli antiglobalizzatori avevano già preso di mira, con qualche vetro rotto intimidatorio, anche il nascituro. 

Per questo, dopo un’attesa durata molti mesi, i prudenti dirigenti della McDonald’s Italia hanno preferito non correre rischi, e hanno riaperto il ristorante utilizzando per la prima volta a Milano (esiste già un altro punto vendita a Cinisello Balsamo) il marchio Pizzamia. Anche perché nel frattempo è scoppiata la crisi di Mucca pazza, e la carne tritata non tira più come una volta.

Un curiosità: il piccolo centro sociale Conchetta, che ha sconfitto la multinazionale McDonald’s, convive pacificamente da anni con il ristorante di lusso Sadler (all’angolo con via Troilo), dal quale lo separa soltanto un muro. Di qua gli «antagonisti» arrabbiati, di là i ricchi clienti del Sadler, dove un solo antipasto costa 50mila lire. 

Mai un incidente, mai un vetro spaccato, neanche un graffio alle scintillanti Mercedes parcheggiate vicino al centro sociale. Due mondi opposti che si fronteggiano in totale e tollerante indifferenza. Ma guai a McDonald’s, con i suoi hamburger a duemila lire divorati da giovani, extracomunitari e gente a corto di soldi. I proletari politicizzati detestano i ristoranti per proletari. Chissà se sopporteranno la pizza.
Mauro Suttora