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Thursday, May 04, 2017

Emmanuel e Brigitte Macron

RITRATTO INDISCRETO DELLA NUOVA COPPIA PRESIDENZIALE FRANCESE
Galeotto fu Eduardo
di Mauro Suttora
Oggi, 4 maggio 2017
«Mamma, c’è un pazzo nella mia classe che sa tutto su tutto!». La quindicenne Laurence tornò a casa entusiasta, e fu così che sua madre Bibi (Brigitte) sentì parlare per la prima volta di Manu (Emmanuel).
Era 24 anni fa, 1993. E 24 sono anche gli anni di differenza d’età fra Bibi, prof di francese e latino al liceo gesuita di Amiens, ed Emmanuel Macron, il presidente più giovane nella storia di Francia dopo Napoleone.
Manu è in seconda liceo, figlio di due medici: intelligente, brillante, affamato di cultura. Legge Gide, preferisce Brel e Leo Ferré ai Nirvana. Bibi è la sesta figlia della famiglia Trogneux, catena di pasticcerie, i macaron più rinomati di Francia dopo i Ladurée.
Entrambi appassionati di teatro, lei da regista lo sceglie come attore (qualcuno dice che la sua regista sia ancora lei) per recitare con la compagnia del liceo la piéce di Milan Kundera Jacques e il suo padrone (qualcuno dice che la sua padrona sia ancora lei).
Scatta la scintilla fra Manu e Bibi. Lei lo inizia a Voltaire e Baudelaire, lui è estasiato dagli occhi blu della prof 39enne madre di tre figli, sposata a un banchiere, reputazione impeccabile (fino a quel momento).
L’anno dopo scoppia l’amore grazie a Eduardo De Filippo. «Riscriviamo assieme l’Arte della Commedia per aggiungere qualche ruolo?», propone l’intraprendente Manu a Bibi. Si vedono ogni venerdi pomeriggio per aggiungere dei ruoli. I genitori di Manu pensano che lui vada a casa di Laurence. Invece è della mamma che il ragazzo è innamorato. «Sentivo che scivolavo, e lui anche…», ricorda Bibi.
Scoppia lo scandalo ad Amiens, città di provincia. La dottoressa Macron affronta Bibi a muso duro: «Signora, ma si rende conto? Lei ha già una famiglia. Il mio Manu con lei non potrebbe neanche avere dei figli». La diffida dal riavvicinarsi all’adolescente. «Non posso prometterle niente», risponde l’orgogliosa Bibi. La quale, dalla sua parte, subisce i rimproveri più dei fratelli maggiori che del marito.
Per tagliare, lei chiede a Manu di trasferirsi a Parigi, a finire il liceo e superare la maturità. «Quando torno a 18 anni, qualunque cosa tu faccia ti sposo!», le promette (minaccia) lui.
«Fu uno strazio, eravamo lacerati tutti e due», ricorda Bibi, «ma alla fine ha vinto l’amore e ho divorziato. Impossibile resistere».
Anche lei si trasferisce a Parigi, va a insegnare nel liceo San Luigi Gonzaga del XVI arrondissement, quartiere dei ricchi. Manu il perfetto frequenta tutte le scuole giuste: università a Sciences politiques, specializzazione all’Ena (Ecole nationale d’administration), fucina di tecnocrati. Viene notato da Jacques Attali, grande intellettuale socialista, che lo introduce nei circoli del partito.
Nel 2007 l’ereditiera dei macaron sposa Macron, solo una vocale in meno. I figli di Bibi cominciano ad accettare la nuova realtà. La carriera di Manu parte come un missile. Nel 2010 lascia il ministero delle Finanze e si fa assumere dalla banca Rothschild. Per farsi odiare ancora un po’ di più a sinistra diventa consulente della multinazionale Nestlé. In un anno e mezzo guadagna un milione di euro.
Poi l’Eliseo: consigliere economico del presidente Hollande, nel 2014 ministro dell’Economia. Ma capisce che la barca socialista sta affondando: molla il ministero, poi anche il partito. L’anno scorso ne fonda uno nuovo, tutto suo, con le stesse iniziali: En Marche!
La sera della vittoria al primo turno delle presidenziali Emmanuel Macron pronuncia un discorso con due frasi bellissime. La prima: «Applaudiamo i nostri avversari». Niente politica dell’odio, basta insulti. La seconda: «Ringrazio mia moglie Brigitte. Senza di lei io non sarei io». 
Sotto il palco, Bibi con le sue belle gambe da 64enne in leggings lo applaude commossa. Accanto a lei urlano di gioia due stupende donne bionde: Laurence e Tiphaine, le sue figlie. Manu di figli non ne ha avuti, ma ora sette nipotini lo chiamano daddy.
Ah, anche fra il nuovo presidente Usa Donald Trump e sua moglie Melania ci sono 24 anni di differenza. Che coincidenza. E che differenza con la Première Dame Brigitte Macron Trogneux.
Mauro Suttora

Friday, March 23, 2007

Spedizioni militari italiane

TU CHIAMALE, SE VUOI, UMANITARIE

L’analisi del «decreto Afghanistan» fornisce dettagli a tratti grotteschi sulle nostre missioni all’estero. Con sottomarini che danno la caccia a Bin Laden e finanziamenti per cento semafori a Nassirya...

di Mauro Suttora

Diario, 23 marzo 2007

Otto milioni, 174 mila e 817 euro. Tanto costa al contribuente italiano l’operazione Active Endeavour per l’anno 2007. Cos’è? Stiamo dando la caccia a terroristi e pirati nel Mediterraneo con due navi e un sommergibile. Non si sa mai: che Osama mediti di attaccarci con qualche Mas? Che i discendenti dei saraceni vogliano assaltare le nostre coste? Le petroliere in rotta verso i porti italiani rischiano di essere silurate da Al Qaeda o abbordate da nuovi corsari berberi?

Bando agli scherzi. L’Operazione Sforzo Attivo (che tristezza dirla in italiano, perde ogni fascino da 007, suona come un rimedio contro la costipazione intestinale) è autorizzata dal comma tre, articolo tre del disegno di legge che converte il decreto 31 gennaio 2007 “recante proroga della partecipazione italiana a missioni umanitarie e internazionali”. Già approvata dalla Camera con soli tre voti contrari su 630, martedì 27 marzo approda al Senato.

È ben nascosta nelle pieghe del famoso ‘decreto Afghanistan’, quello che ogni sei mesi fa venire il mal di pancia alla sinistra. Ma, per una volta, lasciamo perdere i tradimenti del senatore Turigliatto, i tentennamenti di Franca Rame o l’ottima salute di Rita Levi Montalcini. Immergiamoci nella lettura delle 300 pagine del decreto che periodicamente rischia di far cadere il governo Prodi.

La prima novità è che i militaristi nostrani hanno dimezzato le loro sofferenze. Sotto Berlusconi, infatti, le spedizioni armate al’estero dovevano essere finanziate ogni sei mesi. D’ora in poi, invece, i decreti di proroga durano un anno. Un piccolo sforzo, insomma, e poi fino al 2008 non se ne parla più.

Il titolo del decreto, poi: soave, nessuna traccia dell’aggettivo “militare”. Potrebbe trattarsi di un miliardo di euro donato a “missioni umanitarie” di Albert Schweitzer o madre Teresa. Le parole sono importanti. Ha voglia Nino Sergi, segretario generale di Intersos (volontari civili), a protestare: “Se un intervento è con le armi, non può essere ‘umanitario’. Chiamatelo di peace-keeping, peace-enforcing, sostegno alla pace, come volete. Ma non ‘umanitario’”.

Battaglia persa. È da un quarto di secolo (Libano 1982) che le nostre forze armate, tornate a organizzare spedizioni all’estero, spargono a piene mani parole profumate come “pace” e “umanitario”. Solo pochi cinici riottosi come Milan Kundera hanno smascherato l’impostura, bollando il tutto come “umanisteria”. Ma è almeno da Srebrenica (1995) e comunque dal Kosovo (1999) che i pacifisti hanno perso la loro guerra semantica. Sono stati spossessati perfino della loro ragion d’essere, del loro ‘brand’: la pace. Oggi sono i militari a “mantenere la pace”, dal Libano all’Afghanistan.

Per confondere le acque, quindi, i primi due articoli del decreto stanziano qualche briciola per la ‘cooperazione allo sviluppo’ (quella vera, la civile, che infatti compete al ministero degli Esteri): 30 milioni per l’Afghanistan, altri trenta al Libano, cinque e mezzo al Sudan. Anche dieci milioni all’Unione africana per la Somalia, figurarsi. Ci sono i 127mila euro per una conferenza sulla giustizia in Afghanistan da tenersi a Roma, e ne regaleremo altri 300mila ai libanesi sotto forma di rilevatori di mine.

Conquistata la simpatia delle Ong e quindi il voto della sinistra, con l’articolo tre si arriva al sodo. E infatti gli stanziamenti passano da otto a nove cifre: 386.680.214 euro per i 2.500 militari in Libano, 310 milioni per i 2.000 in Afghanistan e ad Abu Dhabi, 143 milioni per i 2.300 che ancora languono dimenticati dopo otto anni in Kosovo, trenta milioni per i 900 in Bosnia (ma questi ultimi solo per sei mesi, perché c’è la possibilità che dopo dodici anni finalmente rientrino).

E poi una miriade di altre microspedizioni: i 18 carabinieri a Hebron (un milione e mezzo), i 17 che dovrebbero sorvegliare la frontiera di Rafah fra Gaza ed Egitto se gli israeliani la tenessero aperta (1,4 milioni), fino ai quattro militari in Darfur (600mila euro), quattro in Congo, altri quattro a Cipro, e tre milioni per cento nostri addestratori, in Albania da dieci anni.

Soldi spesi bene? Dipende dai gusti politici di ciascuno di noi, ovviamente. “Mi sembra un miliardo stanziato secondo il principio ‘Se ci siamo, contiamo’”, dice Sergi. Show the flag, mostrare la bandiera ovunque possibile. Era la regola in voga130 anni fa, all’apice del colonialismo: l’Italietta crispina se ne entusiasmò. Poi però arrivò Adua. Volle sedersi a tavola anche Mussolini, per mangiarsi Nizza e Savoia, Corsica e Tunisia. “Siamo un grande Paese e una media potenza”, si limita a dire oggi D’Alema. “Facciamo parte del G8, dobbiamo avere senso di responsabilità”, ci ammaestra la gandhiana Emma Bonino.

Che lettura interessante, questo decreto. Pagina 109, tabelle di spesa per la missione Afghanistan. Indennità di contingente per due nostri ufficiali e quattro sottufficiali di collegamento (esercito e aeronautica) presso il comando Usa di Tampa in Florida. Ma non ci avevano detto che la missione afghana era a guida Nato, e non statunitense? E il quartier generale Nato non sta a Bruxelles?

L’operazione più attraente, come abbiamo anticipato, è la Active Endeavour. Questa è sicuramente una missione in cui gli americani non contano tantissimo, e l’indizio che ce lo fa capire è lo spelling di ‘endeavour’: in americano scrivono ‘endeavor’, come ‘humor’, quindi quella ‘u’ in più significa che c’è una predominanza europea.

Spiega la relazione che introduce il decreto: “Questa missione Nato, svolta da forze navali, è finalizzata a dare prevenzione e protezione contro azioni terroristiche e di pirateria marittima nell’area orientale del Mediterraneo, attraverso operazioni di contromisure mine, attività di controllo e sorveglianza marittima e servizi di scorta del naviglio mercantile”.

La Active Endeavour nacque il 12 settembre 2001, sull’onda dell’attentato alle Torri. Ma se pattugliare il mare europeo poteva essere un’idea compensibile in quelle settimane di orgasmo, in cui le forze armate di tutto il mondo occidentale facevano a gara ad autoassegnarsi nuovi compiti (e finanziamenti) antiterrorismo, a sei anni di distanza è lecito domandarsi: quanti terroristi sono stati scoperti grazie a questa sorveglianza? Quanti attentati sventati? La Nato fa mai un’analisi costi/benefici? A meno che l’unica vera mission dell’Alleanza, dopo il crollo del comunismo 18 anni fa, sia trovare e drammatizzare un nuovo nemico purchessia, per giustificare la mancata smobilitazione dopo la fine della guerra fredda. Certo, pare che Sheik Khaled Muhamad, numero tre di Al Qaeda arrestato nel 2003 in Pakistan e da allora prigioniero a Guantanamo, abbia alluso a petroliere Usa da far saltare a Gibilterra.

Fatto sta che l’Italia contribuisce ad Active Endeavour con 105 marinai imbarcati sulla fregata Maestrale, sul cacciamine Termoli e, dulcis in fundo, sul sommergibile Todaro nuovo di zecca: varato in febbraio, ha appena terminato l’8 marzo il suo primo mese di navigazione alla ricerca di Osama. Questo sottomarino appartiene alla nuova classe italo-tedesca U212-A, 130 milioni ad esemplare, un secondo gioiellino (lo Sciré) appena sfornato dalla Fincantieri in Liguria per la gioia delle maestranze (c’è lavoro), degli ammiragli (c’è prestigio) e anche del sottosegretario diessino (ma soprattutto spezzino, quindi cantieri) alla Difesa, Lorenzo Forcieri.

I militari in Libano sono pagati meglio che quelli in Afghanistan (pag.125). Ognuno di loro prende in media, grazie alle indennità di missione, 105 mila euro all’anno (180 euro al giorno oltre allo stipendio), contro i 78 mila degli sfortunati spediti a Kabul e Herat. Forse anche da questa disparità nasce la riluttanza verso compiti realmente “operativi” (traduzione: combattimento) in Afghanistan.

Le penne monarchiche

In realtà in Libano non è che i nostri abbiano un granché da fare. Ecco l’ultimo comunicato stampa del contingente Leonte (15 marzo): “Oggi, una tonnellata di aiuti umanitari sono stati distribuiti a un istituto scolastico per diversamente abili di Tiro. Gli aiuti, composti da pasta, riso, merendine, pelati ecc., sono stati distribuiti dai Lagunari del reggimento ‘Serenissima’. Sono stati affidati al Contingente Italiano da diverse associazioni tra cui: l’Associazione Internazionale Regina Elena, la Together Onlus, ‘Ci siamo anche noi’ di Cavallino Treporti (Ve), Associazione mestrina San Vincenzo, farmacia Ghezzi dell’isola della Giudecca di Venezia...”

L’associazione Regina Elena, che ha fornito anche “matite, penne e zainetti” distribuiti in una scuola elementare libanese dai nostri militari, è un gruppuscolo legittimista monarchico (vogliono ufficialmente il ritorno del re) guidato dal bisnipote di Elena, il principe Serge di Jugoslavia (figlio di Maria Pia di Savoia). Abbiamo quindi soldati della repubblica italiana che distribuiscono la beneficenza di chi vuole il ritorno della monarchia...

Ma per distribuire penne e matite ai bimbi libanesi non bastavano due operatori civili di una qualsiasi Ong? C’era bisogno di mandare un contingente militare di 2.500 soldati con carri armati? I quali peraltro finora non hanno sequestrato neanche una pistola ad acqua agli hezbollah: quindi non stanno eseguendo la loro missione ufficiale, che non è principalmente umanitaria o di sminamento, ma di disarmo degli hezbollah.

Poi ci sono i 75 mila euro stanziati per comprare cento semafori da mettere a Nassirya. Anche installando quattro semafori per incrocio, a Nassirya esistono 25 incroci con un tale traffico da giustificare semafori? E poi: 500 mila euro per la “mappatura satellitare” dei beni culturali irakeni... Oppure: un milione di euro per un corso di 45 giorni per sessanta tecnici del petrolio iracheni a Piacenza (alloggio nell’albergo Piacenza Ovest...), come se le compagnie petrolifere (compresa la nostra Eni) non fossero abbastanza ricche da poter pagar loro la formazione... Oppure due “esperti” da inviare in Curdistan per “facilitare la penetrazione commerciale italiana” (sic) al modico stipendio annuo di 180mila euro l’uno. Siamo sicuri che è di questo che c’è bisogno per pacificare l’Iraq, oggi?

Mauro Suttora

Wednesday, October 19, 2005

Angela Merkel

Oggi, 12 ottobre 2005

«Chi ha qualcosa da dire non ha bisogno di trucco»: così Angela Merkel, 51 anni, la nuova cancelliera tedesca, risponde ai consulenti «per l'immagine» del partito democristiano tedesco, quando la implorano di tenersi un po' più su, di mettersi un bel rossetto, di passare più spesso dal parrucchiere. Niente da fare. Lei, tetra e tetragona come la teutonica prof di chimica che è, per tutta la campagna elettorale non si è curata della forma, andando dritta alla sostanza. Ha promesso ai suoi compatrioti meno assistenza, meno sussidi, più competizione, più libero mercato. E alla fine ha vinto.

Sarà la prima donna a guidare la Germania dopo mille anni: dai tempi delle imperatrici Teofania di Bisanzio e di sua suocera Santa Adelaide, che dal 983 al 995 fecero da reggenti al minorenne Ottone III. Adolf Hitler si rivolta nella tomba, di fronte a questa signora così poco marziale che si è impadronita del Reich. Ma sotto l'apparenza dimessa e pacioccona, e nonostante il nome, Angela ha un'anima di ferro. Altro che «Angie», come hanno cercato di soprannominarla quelli delle pubbliche relazioni: a ogni suo comizio trasmettevano l'omonima, romantica canzone dei Rolling Stones per ingentilirla. Missione impossibile: come si fa ad addolcire la figlia di un severo pastore luterano cresciuta per 35 anni sotto la dittatura comunista della Germania Est, e sopravvissuta per i successivi quindici alle trappole degli squali della politica, «amici» e nemici uniti nell'invidia della sua rapida ascesa?

Angela Merkel è la più giovane cancelliera del dopoguerra (meglio non risalire fino a Hitler, nominato a 44 anni). E' anche la prima che viene dall'Est, e la prima democristiana divorziata e risposata. Suo padre, oggi quasi ottantenne, continua a vivere nel paesino a nord di Berlino in cui la portò quand'era ancora in fasce. Da Amburgo dov'era nata, infatti, la famigliola nel '54 si trasferisce all'Est, perchè a padre Horst Kasner la chiesa ordina di coprire una parrocchia rimasta senza pastore. «Solo due tipi di persone lasciano la Germania occidentale per quella orientale: i comunisti e gli idioti», commenta il traslocatore. Alla mamma il regime impedisce l'insegnamento: troppo pericoloso mettere in cattedra una che viene dall'Ovest, potrebbe essere una spia.

Angela e i fratellini (un maschio e una femmina) crescono nel clima di sospetto e terrore instillato dalla polizia segreta Stasi. La chiesa viene tollerata, ma suo padre subisce le angherie dei gerarchi: solo negli anni '70 gli concederanno il permesso per viaggiare un po' in Italia e in Gran Bretagna. Ma senza famiglia. «Eravamo i figli di un pastore», ricorda lei, «e dovevamo primeggiare in tutto per sopravvivere». Volontà d'acciaio: a otto anni rimane tre quarti d'ora sul bordo della piscina per trovare il coraggio di tuffarsi la prima volta. Dissimulazione: mai esprimere i propri pensieri, chiunque può fare una spiata. A 14 anni Angela simpatizza per i ragazzi della Primavera di Praga, ma guai a dirlo. Vuole fare la traduttrice, impara perfettamente il russo e l'inglese. Nel 1970 viene premiata dalla scuola con un viaggio all'estero: a Mosca. «Comprai lì, al mercato nero, il mio primo disco dei Beatles: Yellow Submarine».

Ma suo padre commette un'imprudenza: durante qualche riunione privata in parrocchia commenta gli scritti di Andrei Sacharov. Viene etichettato come dissidente, e ad Angela viene impedito di fare l'interprete (mestiere riservato ai fedeli alla linea). Così la ragazza si iscrive a chimica all'università di Lipsia. A 23 anni si sposa con un compagno di studi, dopo soli quattro anni divorzia, ma ne conserva il cognome: Merkel. Pare per non dover tornare al cognome del padre, col quale è in rotta. Tuttora i loro rapporti non sono buoni. Negli anni '80 Angela si specializza in fisica a Berlino, ed entra nella prestigiosa Accademia delle Scienze. Lì conosce Joachim Sauer, il suo secondo marito, più anziano di cinque anni. Figlio di un pasticciere, anche lui divorziato, è un'autorità mondiale nella fisica quantistica. Ma non può partecipare a congressi all'estero perchè rifiuta di iscriversi al partito comunista.

Angela invece naviga meglio, assume qualche incarico nella gioventù del partito che però non le verrà rinfacciato in seguito. I due convivono per tredici anni senza sposarsi. Lo faranno solo negli anni '90, quando lei è un pezzo grosso dc e un vescovo protesta pubblicamente. Ma ancor oggi il marito fa vita riservatissima, non si fa mai vedere assieme a lei in pubblico. La accompagna solo una volta all'anno al festival di Wagner a Bayreuth, ma anche lì rifiuta sempre di parlare ai giornalisti. I quali si vendicano chiamandolo «fantasma dell'opera».

Arriva la data fatidica: 9 novembre 1989. Quella sera crollano il Muro di Berlino e il comunismo. Ma Angela Merkel sembra un personaggio di Milan Kundera: manca l'appuntamento con la storia. Il suo appuntamento è con un'amica per andare in sauna, come ogni settimana. E non vuole mancare l'impegno. Fa la sua prima passeggiata a Berlino Ovest soltanto il giorno dopo. Con calma. L'entusiasmo le arriva qualche settimana dopo, quando si butta in politica per aiutare un partitino messo in piedi dai dissidenti protestanti che aveva conosciuto in famiglia. Poi arriva la riunificazione, e lei finisce nella Cdu nazionale. Anche perchè vari membri del suo ex partito vengono smascherati come collaborazionisti dei servizi segreti.

Inizia la seconda navigazione nella vita di Angela. Che lascia la carriera di scienziata e sceglie la politica a tempo pieno. Il cancelliere Helmut Kohl la nota, la prende sotto la sua ala e la valorizza. Prima la fa eleggere al Parlamento, poi la nomina ministro. C'è bisogno di volti nuovi dell'Est, in più lei è donna e quarantenne. La circospezione e la tenacia appresi dietro la cortina di ferro le tornano utili: «Mio padre mi ha insegnato a non fidarsi mai», confessa. Diventa ministro dell'Ambiente e si scontra con Gerhard Schroeder, allora presidente socialista della Bassa Sassonia. Il quale la umilia su una disputa di centrali nucleari. Lei gli promette vendetta. Ma la vera battaglia Angela la deve sostenere all'interno del proprio partito. La «cocca di Kohl» finisce pure lei all'opposizione quando nel '98 Schroeder vince le elezioni. I democristiani perdono il potere, si scatena la lotta per la successione.

Lei stessa, afferrato il pugnale di Bruto, uccide politicamente il suo padrino: è l'unica ad avere il coraggio di invitare pubblicamente Kohl, colpito dagli scandali, a farsi da parte. Poi però deve soccombere, lei protestante, ai potenti dc cattolici bavaresi, che rifiutano di candidarla al voto del 2002. Ma lei continua imperterrita a macinare politica sedici ore al giorno, non ha figli, si concede poche distrazioni (la lirica, i film di Dustin Hoffman). Un mastino. Edmund Stoiber e Wolfgang Schauble, i suoi rivali all'interno del partito, alla fine devono farle strada: sarà lei a sfidare Schroeder nel settembre 2005. L'attacco più cattivo glielo lancia la giovane e bella moglie del cancelliere socialista: «Non è una donna come le altre», alludendo alla sua scarsa avvenenza e alla mancata maternità. Il voto finisce in parità. Ma lei tiene duro, e alla fine si allea proprio con i socialisti. Senza Schroeder, però: c'era quel vecchio conticino da regolare...

Mauro Suttora

Wednesday, April 10, 2002

Radicali a congresso a Ginevra

CONGRESSO DEL PARTITO RADICALE TRANSNAZIONALE A GINEVRA

di Mauro Suttora
Il Foglio, 10 aprile 2002

Ginevra. La location non poteva essere più azzeccata: i radicali si sono riuniti a congresso in una sala a poche centinaia di metri dai palazzi della Società delle Nazioni, oggi Onu. E proprio contro lo «spirito di Monaco», quel famigerato appeasement del 1938 nei confronti di Adolf Hitler, Marco Pannella si è scagliato nel suo discorso di investitura, criticando «i pacifisti di allora e di oggi i quali manifestano in favore dei dittatori, ma che invocando la pace producono sempre la guerra».

Ci tengono, i radicali antimilitaristi e nonviolenti, a distinguersi in questi giorni dai «pacifisti» comunisti, rifondaroli o noglobal, che corrono ad abbracciare Yasser Arafat. «Per loro i palestinesi acquistano dignità umana solo se e quando vengono colpiti da una pallottola israeliana», accusa Pannella.  

Più in là c’è la sede della Croce Rossa, a destra quella dell’Agenzia Onu per i rifugiati, a sinistra quella della Commissione Onu per i diritti umani riunita proprio in queste settimane. Perciò i radicali sono qui, al seguito della loro crocerossina capa Emma Bonino che tanto ha brillato da commissaria Ue per gli aiuti umanitari. 

Ma, a differenza dei «burocrati dell’umanisteria» (come li ha bollati Milan Kundera), i radicali praticano l’azione diretta nonviolenta. Così da oggi in 400 digiunano per i ceceni sterminati dai russi, e fra i 500 congressisti c’erano i cinque reduci dal mezzo mese di carcere laotiano dello scorso novembre. «Libertà e democrazia», avevano scritto sul loro striscione. 

Lo stesso slogan riassume gli obiettivi del Partito radicale transnazionale (da non confondere con i Radicali italiani, che ne sono solo una parte). Ma poiché i satrapi nel mondo abbondano, le priorità individuate sono sette: Israele, Cecenia, Tibet, Uighuristan (o Xinjiang, o Turkestan orientale), Tunisia, Balcani e Caucaso nella Ue (come Israele). Continua inoltre la campagna per l’antiproibizionismo sulle droghe.

Programma ambizioso, per un partito del due per cento senza parlamentari italiani e quindi privo di sovvenzioni pubbliche. Dal 1996, però, i radicali riescono ad autofinanziarsi grazie a un Call center che sollecita in continuazione decine di migliaia di simpatizzanti. E’ questo, oltre a Radio radicale con le rassegne stampa mattutine del suo direttore Massimo Bordin (ritenute da molti le migliori d’Italia), il vero cuore dell’iniziativa pannelliana. 

Lo ha inventato il tesoriere Danilo Quinto, che però a Ginevra è stato al centro delle contestazioni: da una parte lui, l’eurodeputato Maurizio Turco e il segretario italiano Daniele Capezzone. Dall’altra gli europarlamentari Benedetto Della Vedova, Gianfranco Dell’Alba, Olivier Dupuis, e i due consiglieri regionali piemontesi accusati di aver «cammellato» iscritti grazie alla vicinanza con Torino. Eventualità improbabile, visto che la tessera annuale costa 200 euro.

Dopo trattative fino alle cinque del mattino, Pannella è stato costretto a scendere in campo e ad accettare la carica di primo presidente, per farne ingoiare al congresso altri quattro (Dupuis, Quinto, Marco Perduca e Marco Cappato) ed evitare clamorose spaccature fra i propri ambiziosi seguaci. 

Questa moltiplicazione delle poltrone è stata contestata dal 40 per cento dei congressisti, e c’è voluta tutta la mezzosecolare abilità dialettica del leader per placare le acque. «Marco, da mulo abruzzese ti sei trasformato in cavallo di Troia incinto di quattro presidenti», lo ha preso in giro il dirigente Michele Boselli. 

Fra i critici, anche tutti gli «eroi» del Laos: Silvja Manzi, Bruno Mellano, Massimo Lensi, Dupuis e il russo Nicolai Kramov. Promosso «dissidente» invece Adriano Sofri, con la sua gigantografia appesa accanto a quelle di prigionieri politici di tutto il mondo, come la Nobel per la pace birmana Aung San Suu Kyi. Una scelta provocatoria, che ha fatto discutere gli stessi radicali.
Mauro Suttora