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Wednesday, February 20, 2008

Sant'Egidio, 40 anni di pace

Il compleanno della comunità romana: ecco perché piacciono a papi e popi, Clinton e Bush, destra e sinistra

Oggi, 20 febbraio 2008

Sono fra i pochi sessantottini che hanno fatto sul serio la rivoluzione. E l’hanno pure vinta. I loro coetanei di sinistra, inneggianti a Lenin, Stalin e Mao, oggi sono in gran parte accomodati sulle stesse poltrone delle autorità che allora contestavano. I giovani di Sant’Egidio, invece, nel febbraio 1968 cominciarono ad andare per baraccopoli. Quella accanto all’ex cinodromo dell’Ostiense, per esempio, dove fondarono la loro prima «scuola popolare». Davano ripetizioni e insegnavano a leggere e scrivere ai poveri.

«Volevamo anche noi fare la rivoluzione», ricorda Mario Marazziti, 55 anni, dirigente Rai, «ma senza violenza. Nel nome di Gesù, con lo spirito dei primi cristiani, di San Francesco e del Concilio Vaticano II». Erano giovani «bene», abitavano nei quartieri della ottima borghesia (per esempio, Andrea Riccardi, oggi 57enne professore universitario di storia, era figlio del presidente di una banca e frequentava il liceo Virgilio). La loro ricetta era semplice: «Per cambiare il mondo bisogna cambiare se stessi», dice Riccardi.

Hanno fatto entrambe le cose, in questi quarant’anni. E continuano a lavorare: nessuno ha ridotto la politica, la carità o il volontariato a mestiere a tempo pieno. Nelle ore libere e con i propri soldi aiutano ancora i poveri di Roma (che non sono più i «borgatari», ma gli immigrati; danno loro da mangiare gratis nella mensa di via Dandolo). Ma si sono allargati al mondo intero: oggi sono cinquantamila, presenti in 70 Paesi.

Nel 1992 hanno fatto fare la pace dopo decenni di guerriglia ai mozambicani. Idem in Guatemala quattro anni dopo. Hanno provato e non ci sono riusciti in Algeria. Hanno aiutato i kosovari nel ’98. Hanno raccolto milioni di firme contro la pena di morte e due mesi fa sono riusciti a far approvare la moratoria all’Onu. Ma essi stessi si sono trasformati in una piccola Onu, grazie alle loro capacità di mediatori («costruttori di pace», come dice il Vangelo): «Le Nazioni Unite di Trastevere», scherzano.

Il miracolo americano

Hanno messo d’accordo non solo militari e guerriglieri del Terzo mondo, ma anche democratici e repubblicani degli Stati Uniti. Li ha lodati sia Madeleine Albright, ministra degli Esteri di Bill Clinton, sia il presidente George Bush, che ha voluto incontrarli a Roma l’anno scorso.

Quanto alla religione, sono ormai ventun anni che organizzano i principali vertici ecumenici del mondo, cui partecipano papi cattolici, popi ortodossi, pastori protestanti, rabbini ebraici, lama buddisti e imam musulmani. Sono diventati i beniamini di papa Wojtyla fin dal loro primo incontro, nel ’79. E il feeling continua con Papa Ratzinger, che pochi mesi fa ha partecipato a un loro megaraduno a Napoli.

All’inizio qualche monsignore di curia storceva un po’ il naso: chi sono questi ragazzotti che pretendono di fare concorrenza alle millenarie doti diplomatiche del Vaticano? Che si limitino ad assistere i barboni a Roma e i malati di Aids in Africa, che alle cose serie pensiamo noi.

Oggi, invece, la messa solenne per il loro quarantesimo compleanno l’ha voluta celebrare il segretario di Stato in persona, il cardinale Tarcisio Bertone. In prima fila c’erano politici di destra e sinistra: Gianni Letta e Rocco Buttiglione, Walter Veltroni e Francesco Rutelli, Piero Fassino e Romano Prodi. Il numero due del Vaticano ha divertito tutti citando Woody Allen addirittura in omelia: «Marx è morto, Dio sta male e neppure io mi sento troppo bene...»

Sulla porticina della loro sede, convento di suore di clausura fino al 1970, non c’è neppure una targa. Piazza Sant’Egidio ogni sera si trasforma in un carnevale a cielo aperto come tutta Trastevere, con studenti di tutto il mondo che si ubriacano di birra. Ma basta suonare il campanello e si entra in un altro mondo: chiostri, cortili e silenzi.

Mi accoglie un distinto portinaio di mezza età. Scoprirò che anche lui è docente universitario: come tutti fa il volontario a turno durante le ore di tempo libero. «Il nostro bilancio annuale ufficiale è di 20 milioni di euro», mi spiega Marazziti, «ma calcolando il valore di tutta l’attività gratuita dei nostri aderenti nel mondo questa cifra si decuplica. Quasi tutti i nostri dirigenti che vanno in Africa, per esempio, usufruiscono di ferie o aspettative non retribuite, e si pagano le spese di viaggio».

Donazioni a buon fine

Solo un terzo di quei venti milioni proviene da aiuti pubblici. Tutto il resto sono donazioni private. Così Sant’Egidio evita la disgrazia che purtroppo colpisce molti enti benefici e ong (organizzazioni non governative): la burocrazia. «Le spese di struttura sono del 4 per cento», assicura Marazziti. Insomma, 96 euro su cento dati a Sant’Egidio finiscono direttamente ai bisognosi. «Il vertice dei Paesi africani ad Abuja nel 2006 ha decretato che i due programmi anti-Aids più efficienti sono il nostro e quello della fondazione di Bill Gates».

All’inizio il gruppo di Sant’Egidio gravitava attorno a Comunione e liberazione. Fu in quel periodo che Buttiglione si avvicinò a loro. Poi, negli anni ’70, veniva assimilato alle comunità di base e ai cristiani del dissenso (contrari al referendum sul divorzio voluto dalle gerarchie vaticane). Cattocomunisti, insomma. Negli anni ’80, pacifisti. E nel 2003, contrari alla guerra in Iraq. Ma Riccardi, Marazziti e oggi il presidente Marco Impagliazzo sono riusciti sempre a sfuggire alle etichette ideologiche, grazie al loro impegno concreto: il servizio ai poveri.

Il primo prete che li accolse in una parrocchia romana, don Vincenzo Paglia, è diventato vescovo di Terni. Di Riccardi si sussurra addirittura un incarico da ministro degli Esteri in un ipotetico governo Veltroni. Ma per ora la misura del successo della loro rivoluzione nonviolenta sta nel trasloco che ha dovuto effettuare la loro preghiera comunitaria (ogni sera alle 20.30, il sabato Messa): dalla chiesetta di Sant’Egidio alla vicina basilica di Santa Maria in Trastevere. Per mancanza di spazio.

Mauro Suttora

riquadro:

LA DIPLOMAZIA DEI POVERI

Sono passati quindici anni, ma nel palazzo della Farnesina se lo ricordano ancora quel giorno del 1992, quando nei corridoi felpati del ministero degli Esteri irruppe una folla festante per celebrare l’accordo di pace fra governo del Mozambico e guerriglieri. Nella foto qui sopra si vede l’allora ministro degli Esteri Emilio Colombo fra i due firmatari, ma a destra in prima fila ad applaudire c’era anche Mario Marazziti della comunità di Sant’Egidio, la vera artefice delle trattative.

Grazie ai suoi numerosi contatti nei Paesi del Terzo mondo e alla fiducia conquistata con le opere di solidarietà, Sant’Egidio ha provato spesso a mediare fra le parti di guerre e guerriglie che devastano molti Paesi. Un altro successo c’è stato nel ‘96 in Guatemala, mentre in Algeria i tentativi sono stati infruttuosi. Non sempre questa «diplomazia parallela» viene apprezzata dagli ambasciatori di professione, alcuni dei quali considerano i volontari di Sant’Egidio come dei dilettanti allo sbaraglio. Ma i risultati ci sono stati, ed è questo quello che conta.

«La guerra è la “madre di tutte le povertà”», spiegano loro, «perché distrugge l’impegno umanitario per il futuro di interi popoli. La guerra è anche assenza di ogni giustizia, come si vede in tanti Paesi dove il conflitto rende impossibile la difesa dei diritti umani basilari».

Mauro Suttora