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Sunday, December 31, 2023

Per Bob Dylan Israele è il "bullo del quartiere"














di Mauro Suttora

Il premio Nobel compone la canzone 'Neighborhood Bully' dopo l'invasione israeliana del Libano e l'occupazione di Beirut, durante la quale avviene la strage di Sabra e Chatila. Anche allora, come oggi, Israele è criticato dal mondo intero per i suoi metodi violenti e sbrigativi

31 dicembre 2023

"Il bullo del quartiere è solo contro un milione. I suoi nemici dicono che occupa la loro terra, lo sovrastano di numero, lui non ha alcun posto dove scappare". 

Una delle migliori descrizioni di Israele è quella cantata dall'ebreo americano Bob Dylan 40 anni fa, nel 1983. Il premio Nobel compone la canzone 'Neighborhood Bully' dopo l'invasione israeliana del Libano e l'occupazione di Beirut, durante la quale avviene la strage di Sabra e Chatila. Anche allora, come oggi, Israele è criticato dal mondo intero per i suoi metodi violenti e sbrigativi. 

È la prima volta che Dylan torna alla canzone politica dopo 'Hurricane' del 1975. Ma l'autore dei principali inni antimilitaristi e nonviolenti degli anni '60 ora è schierato completamente dalla parte di Israele.

"Il bullo del quartiere vive solo per sopravvivere, viene condannato perché è ancora in vita.

Dicono che non dovrebbe rispondere agli attacchi, che con la sua pelle dura dovrebbe lasciarsi uccidere quando gli sfondano la porta.

È stato cacciato da ogni terra, ha vagato in esilio per il mondo.

Ha visto disperdere la sua famiglia, la sua gente perseguitata e fatta a pezzi, ma è sempre sotto processo per il solo fatto di essere nato.

Ha eliminato la folla che voleva linciarlo, ma dicono che deve scusarsi.

Poi ha distrutto una fabbrica di bombe, le bombe erano per lui, ma avrebbe dovuto sentirsi colpevole.

La sorte gli è avversa, le probabilità che viva secondo le regole che il mondo crea per lui sono minime, perché ha un cappio al collo, un fucile alla schiena, e a qualsiasi fanatico viene concessa licenza di ucciderlo.

Non ha veri alleati, deve pagare per tutto, non gli danno niente per amore.

Gli permettono di comprare armi obsolete, ma nessuno combatte anima e corpo al suo fianco.

È circondato da pacifisti, tutti vogliono la pace.

Pregano che cessi lo spargimento di sangue, non farebbero male a una mosca, piangerebbero nel farlo.

Aspettano seduti che il bullo si addormenti.

Ogni impero che l'ha fatto schiavo è scomparso: Egitto, Roma, anche Babilonia.

Ha trasformato la sabbia del deserto in un giardino paradisiaco.

Non va a letto con nessuno, nessuno lo comanda.

I suoi libri più sacri sono calpestati, nessun contratto che ha firmato vale la carta su cui è scritto.

Ha preso le briciole del mondo e le ha tramutate in ricchezza, le malattie in salute.

Qualcuno è in debito con lui? Nessuno, dicono.

Gli piace causare guerre, orgoglio, pregiudizi, superstizioni.

Aspettano il bullo come un cane aspetta il cibo.

Cos'ha fatto per avere così tante cicatrici?

Cambia il corso dei fiumi, inquina la luna e le stelle?

Il bullo del quartiere sta sulla collina, l'orologio si esaurisce.

Il tempo è immobile". 

Sunday, August 09, 2020

Siamo tutti libanizzati

In Libano, dove la folla scende in piazza chiedendo la forca per i responsabili dell'esplosione, non ci sono politici, ma capi fazione. Una deriva che stiamo iniziando a conoscere bene anche in Italia


di Mauro Suttora

Huffington Post, 8 agosto 2020 

 
In Libano non c’è democrazia. Il che è normale, in Medio Oriente. Però c’è più libertà che in tutti i Paesi vicini, tranne Israele. Solo che è una libertà a coriandoli: ciascuno è libero, basta che sia protetto da una cosca, una setta, una milizia.

I deputati sono divisi per religione: metà ai musulmani e metà ai cristiani. Le percentuali sono fisse, così come le più alte cariche statali: premier sunnita, presidente cristiano, presidente del Parlamento sciita. In realtà è un regalo ai cristiani, che non superano il 35%. Sunniti e sciiti hanno il 30% ciascuno, ai drusi il restante 5%.

Si chiama “libanizzazione”. Così la definisce il dizionario Garzanti: “Condizione di estrema disgregazione della vita politica, nella quale, essendo del tutto assente il potere dello stato, il controllo del paese è affidato allo scontro di fazioni armate”. Etimologia: “Situazione determinatasi in Libano negli anni ’70-’80 del ’900”.

In questo senso ha ragione il sottosegretario grillino agli Esteri, Manlio Di Stefano, che ha confuso il Libano con la Libia (chissà se conosce la Liberia). A Beirut come a Bengasi, e a Tripoli come a Tripoli (ce n’è una in Libia e una in Libano, a parziale discolpa dell’apprendista geografo Manlio), comandano le milizie.

In Libano non esistono politici. Gli ultimi degni di tal nome sono stati fatti saltare in aria, com’è normale a quelle latitudini: nel 1982 Bashir Gemayel, presidente cristiano; nel 1987 Rashid Karame e nel 2005 Rafiq Hariri, entrambi premier sunniti. Pierre Gemayel, nipote di Bashir, è stato mitragliato a morte nel 2006.

Gli altri sono soltanto capi fazione, la cui autorità non va oltre l’ambito del proprio gruppo religioso. Anche perché ormai il Libano è un gerontocomio: il presidente Michel Aoun ha 85 anni, quello del Parlamento Nabih Berri 82. Il premier 60enne Hassan Diab è un virgulto al confronto, ma è in carica soltanto dal gennaio di quest’anno. Ha sostituito Saad Hariri, figlio del miliardario Rafiq (4 miliardi di patrimonio personale), travolto dalle proteste di strada poi bloccate dal virus.

Ora le dimostrazioni di piazza riprendono, con disperata genericità sardino-pentastellata: “Via i politici corrotti e incompetenti!” “Forca per i responsabili dell’esplosione al porto!”

Può darsi che si spengano nel nulla, oppure che provochino un bagno di sangue. O che questa volta abbiano successo, innescando perfino reazioni a catena come nove anni fa le primavere arabe partite dalla Tunisia ed esportate in Libia (giù Gheddafi), Egitto (giù Mubarak) e Siria, dove invece Assad ha resistito al prezzo di quasi mezzo milione di morti e sei milioni di profughi.

Ma attenzione, perché qui comincia un perverso giro dell’oca che rischia di replicare una tragedia storica. Un milione e mezzo di profughi siriani, infatti, sono sfollati in Libano, ripetendo il disastro dell’esodo palestinese. Mezzo secolo fa centinaia di migliaia di palestinesi scapparono a Beirut dalla Giordania dopo la strage del Settembre nero 1970. 
Allora il Libano era lo stato più ricco, sofisticato e cosmopolita del Medio Oriente, e Beirut la sua Monte Carlo. Dubai e Abu Dhabi erano ancora villaggi di poveri pescatori. Ma l’arrivo dell’Olp di Arafat sconvolse il fragile equilibrio del Libano, e provocò la guerra civile più lunga della storia: 15 anni, 150mila morti, diaspora di sei milioni di libanesi (chi se l’è potuto permettere, quindi i benestanti sunniti e cristiani maroniti riparati a Londra e Parigi, in esilio di lusso).

Nel 1990 ha preso il potere il generale cristiano Aoun. Non l’ha più mollato, prima appoggiandosi ai siriani e poi sfruttando la rivalità sunnita/sciita. Intanto i diseredati sciiti delle periferie di Beirut e del Libano meridionale hanno trovato conveniente e naturale appoggiarsi alle milizie di Hezbollah finanziate dall’Iran. Che procura non solo armi, ma anche sussidi per i disoccupati.

Per dare l’idea del problema Libano: su sei milioni di abitanti, due milioni sono profughi. Ricevono gli aiuti Onu, ma sarebbe come se l’Italia ne avesse 20 milioni. Ammassati in una superficie più piccola dell’Abruzzo. 
Eppure il Libano non è l’inferno. È un paradiso. Il cielo è più azzurro che a Napoli, i tramonti più rosa che a Roma. Basta salire da Beirut sui monti retrostanti, e le foreste dei cedri profumano più dei pini di Cortina. Basta andare a cenare nella baia di Jounieh, e le serate mediterranee sono più dolci che in Costa Smeralda o Azzurra. La valle della Beqaa, che porta in un attimo a Damasco, è più verde della campagna toscana.

Fino al 1975 le estreme diversità del Libano formavano un mosaico prezioso. Dopo, bombe e mitra hanno rovinato tutto. Eppure i libanesi continuano a rinascere. Negli anni ’90, dopo la guerra civile, i traffici sono ripresi, i soldi sono tornati, lo splendido lungomare di Beirut è stato ricostruito e la vita è ricominciata. Idem dopo la ritirata degli occupanti siriani, nel 2005. Ultimamente, prima della bancarotta statale che ha fatto crollare la lira (ha perso il 70% da ottobre), il Libano era tornato nonostante tutto a essere un centro finanziario e una meta turistica.

Ma attenti, Beirut non è lontana dall’Italia. Ci stiamo “libanizzando” pure noi. Ciascuno rinchiuso nella propria cerchia di amici, reali o Facebook. Banniamo quelli che ci contraddicono, fingiamo che non esistano. Esattamente come i ricchi cristiani maroniti rinchiusi nelle loro ville di Beirut nord-est ignorano il terzo mondo dei ghetti sciiti e dei campi profughi di Beirut sud-ovest. A Sabra e Chatila nel 1982 i fascisti falangisti cristiani massacrarono i palestinesi nell’indifferenza degli israeliani di Sharon. Oggi in quei vicoli si sono aggiunti gli sfollati poveri siriani.

Il distanziamento sociale del virus ha solo confermato la distanza fra i coriandoli di Beirut: nel golf club vicino all’aeroporto sembra di essere a Beverly Hills, ma dall’altra parte della superstrada Hafez Assad, a 200 metri, c’è la bidonville di Bourj-el-Barajneh, con la bomba sociale di sciiti e profughi. Ogni tanto in Libano le bombe esplodono, apposta o per sbaglio, e fanno 160 morti.
Mauro Suttora

Wednesday, June 29, 2011

Basta spedizioni all'estero

LE MISSIONI MILITARI COSTANO TROPPO: DUE MILIARDI DI EURO ALL'ANNO. RADDOPPIATI RISPETTO AL 2007. ORA LA LEGA NORD VUOLE TAGLIARE, SPEZZANDO UN CONSENSO BIPARTISAN

di Mauro Suttora

Oggi, 22 giugno 2011

Soltanto quattro anni fa le spedizioni militari italiane all’estero ci costavano un miliardo di euro all’anno. Mille milioni non sono poco, in tempi di crisi per un Paese con 1.900 miliardi di deiti. «Ma dobbiamo mantenere gli impegni con la nostra alleanza», era il coro quasi unanime dei politici. Anche il Pd, infatti, ha sempre approvato i finanziamenti alle missioni di pace. Dopo l’uscita dal Parlamento di Rifondazione comunista nel 2008, votavano contro soltanto i dipietristi e i radicali di Marco Pannella. La Lega Nord mugugnava, ma alla fine diceva sì.

Adesso però si scopre che, fra una cosa e l’altra, i costi sono raddoppiati. Soprattutto negli ultimi tre mesi con la spedizione di Libia, il cui conto da solo ammonta a 600 milioni (compresa l’assistenza ai profughi). E la Lega punta i piedi: «Facciamo tornare i nostri ragazzi, basta spendere per i bombardamenti».

Non è antimilitarismo: tutti i politici, compresi il premier Silvio Berlusconi, il presidente Giorgio Napolitano e il ministro della Difesa Ignazio La Russa, quando qualche nostro ragazzo torna (sempre più spesso) cadavere dall’Afghanistan si chiedono quale sia il senso di queste missioni. Da anni tutti i sondaggi ripetono che la maggioranza degli italiani non le approva. Non c’è bisogno di essere leghisti, quindi, per interrogarsi sui loro costi umani e finanziari.

In Kosovo da 12 anni: un'eternità

«Se vogliamo mantenere uno status di media potenza internazionale, abbiamo dei doveri di presenza», dice a Oggi il generale Mauro Del Vecchio, ora senatore Pd. Comandante delle spedizioni in Kosovo dodici anni fa e in Afghanistan nel 2005, Del Vecchio spiega che sono già in corso riduzioni: «A Kabul, dopo il picco di 4.200 soldati raggiunto l’anno scorso, per quest’anno è previsto il ritiro di centinaia di militari, e la consegna del comando di Herat al governo locale. In Libano facciamo parte di un contingente Onu di 14 nazioni, siamo in 1.700 rispetto ai 3 mila iniziali, e la frontiera con Israele resta una zona calda. Anche in Kosovo c’è un programma di riduzione graduale».

Proprio il Kosovo, però, dove Del Vecchio e i nostri soldati furono accolti con applausi dalla popolazione locale nel lontano 1999, dimostra che le missioni durano troppo. Stesso discorso per l’Afghanistan: la Nato è lì da dieci anni, senza risolvere nulla. «Ma la soluzioni delle crisi sono sempre politiche», dice Del Vecchio, «noi militari seguiamo gli ordini».

Inutile Libano

Gli ordini sono ambigui anche in Libano: in teoria dovremmo impedire il riarmo degli hezbollah che minacciano Israele (e i libanesi cristiani e sunniti) per conto dell’Iran. Ma in pratica il contingente Onu non può fare nulla: solo segnalare movimenti sospetti all’esercito regolare libanese, notoriamente imbelle. Non è un mistero, inoltre, che la missione iniziò nel 2006 con l’allora ministro degli esteri Massimo D’Alema per «compensare» il ritiro dall’Iraq. «Inutile e superflua», liquida oggi la missione in Libano il ministro dell’Interno Roberto Maroni.

Più pessimista l’economista Giulio Sapelli, docente all’università di Milano: «Altro che missioni di “pace” in Libano e Kosovo. La vera grande minaccia per la pace mondiale è la Cina, che continua a essere una pericolosa dittatura comunista. E si sta riarmando per conquistare l’egemonia. Lo dico da uomo di sinistra, non condivido l’illusione del mio amico Prodi sulla democratizzazione di Pechino. Quel che spendiamo adesso per le forze armate rischia di essere poco rispetto a quel che ci costerà proteggere le vie di comunicazioni del nostro commercio ed export quando la Cina le minaccerà direttamente».
Mauro Suttora

Wednesday, April 04, 2007

Un miliardo in missioni militari

La pace ci costa un miliardo
Quanto spendiamo per le missioni militari italiane all' estero

Occorrono mille milioni all' anno per i nostri soldati nelle aree di crisi. Dai 75 mila euro per 100 semafori a Nassiriya al milione per l'ambasciata a Kabul, ecco tutte le curiosità tratte dal bilancio

Oggi, 04/04/2007, pag. 57/58

Matite, penne, zainetti. Li hanno distribuiti tre settimane fa i nostri soldati in una scuola elementare del Libano, per conto dell' Associazione internazionale regina Elena. Si tratta di un gruppo legittimista monarchico (vuole ufficialmente il ritorno del re in Italia), guidato dal pronipote della suddetta regina: il principe Serge di Jugoslavia, figlio di Maria Pia Savoia. I 2.500 militari della Repubblica italiana in missione in Libano, dunque, distribuiscono la beneficenza di chi auspica il ritorno della monarchia. Curioso. Valeva la pena di mandarli lì con i carri armati per fare regali ai bimbi libanesi ? Non bastavano, per un compito tale, due volontari di una qualsiasi Ong (Organizzazione non governativa) ? Spendiamo quasi mille miliardi all' anno in lire per disarmare i pericolosi hezbollah: questo indica lo scopo ufficiale della missione Onu. Peccato che finora, in sette mesi, non abbiamo sequestrato neppure una pistola ad acqua.

Così i nostri militari si consolano con le attività umanitarie. In Afghanistan, invece, prima dell' escalation di tensione degli ultimi tempi, i nostri militari avrebbero costruito una chiesetta. La notizia, trapelata a Herat, è stata subito smentita per non irritare gli estremisti. Quanto al Kosovo, chi si ricorda che 2.300 nostri soldati ancora languono in una guarnigione, otto anni dopo esserci arrivati per pacificarlo ? Missione compiuta, almeno lì ? Neanche per sogno: "Ci vorranno vent'anni per riportare la calma fra albanesi e serbi", ci dice pessimista Nino Sergi, segretario generale di Intersos (Cooperazione civile). Intanto, però, anche la missione in Kosovo dev'essere rifinanziata. Così è finita pure questa nel calderone del cosiddetto "decreto Afghanistan", votato al Senato martedì 27 marzo. Le polemiche si concentrano sull' opportunità di tenere le nostre truppe nel Paese dei talebani a seimila chilometri di distanza.

Ma il decreto finanzia molte altre missioni militari all' estero , per un totale di un miliardo di euro nel 2007. E, leggendone le 300 pagine, si scoprono molte curiosità. Qualcuno sapeva, per esempio, che tre nostre navi con 105 marinai da anni vagano per il Mediterraneo alla ricerca di "terroristi e pirati" nella missione Active Endeavour ? Il pattugliamento era stato deciso dalla Nato dopo l'11 settembre 2001, quando si temeva qualche altro attacco, questa volta marittimo, o trasporti di armi da parte di Al Qaeda. Ma ancor oggi spendiamo otto milioni all' anno per far navigare la fregata Maestrale e il cacciamine Termoli. Nonché il nuovo sommergibile Todaro, che ha appena terminato il suo primo mese di missione.

Nessuno lo sa, ma abbiamo sei militari di collegamento nel quartier generale americano per l'Afghanistan che sta a Tampa, Florida. Eppure ci avevano detto che si tratta di una missione Nato Onu, non più a guida statunitense. E poi: che ci fanno 95 nostri avieri ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi ? Mantengono tre aerei C 130 per il trasporto truppe da e per l' Afghanistan. Dall' Iraq ce ne siamo andati. Però continuiamo a spendere. Il decreto stila un elenco minuzioso. Cento semafori da installare a Nassiriya, 75 mila euro. Anche mettendone quattro per incrocio, esistono a Nassiriya 25 incroci con un tale traffico da giustificare semafori ? Oppure faranno la fine dei precedenti, che nessuno nelle rotonde caotiche e polverose piene di carretti trainati da asini ha mai rispettato ? E i 500 mila euro per la "mappatura satellitare" dei beni culturali iracheni, serviranno ad ammansire i terroristi ?

Un milione di euro finanzierà un corso di 45 giorni per sessanta tecnici del petrolio iracheni a Piacenza (ospitati all'Hotel Ovest, quattro stelle). Come se le compagnie petrolifere, la nostra Eni o altre, non fossero abbastanza ricche da poter pagare loro la formazione. E poi: due "esperti" da inviare in Kurdistan per "facilitare la penetrazione commerciale italiana", al modico stipendio annuo di 180 mila euro l' uno. Costerà 300 mila euro l' affitto annuo dell' ambasciata italiana a Kabul. Ma molto più del doppio costerà sorvegliarla: 770 mila euro. Più che per aiutare, insomma, spendiamo per difenderci da chi vorremmo aiutare.

Mauro Suttora


"Dobbiamo rispettare le alleanze"
L' esperto spiega perché bisogna armarsi e partire. Andrea Margelletti, del Centro studi internazionali. Con un debito di 1.500 miliardi che senso ha spendere un miliardo di euro all' anno in missioni militari ? "È necessario impegnarsi perché non si ripeta la follia dei talebani. L' Italia ha il dovere di aiutare i popoli meno fortunati che non hanno nemmeno luce, acqua e strade". I sondaggi, però, dicono che la maggioranza degli italiani vuole il ritiro dall' Afghanistan... "La politica estera non la fa la piazza, ma il Parlamento. Si decide col cervello, non con la pancia". Ma contro i terroristi servono navi e sommergibili ? "Fanno parte di una flotta Nato, ci sono alleanze e strategie da rispettare. Lo sa bene la Germania, per esempio, che pur non avendo sbocco nel Mediterraneo ha inviato una nave da guerra davanti al Libano".

"A Kabul ci credono guerrafondai"
È l' opinione di chi si occupa di Cooperazione civile "L'Afghanistan è una missione nata male". Parola di Nino Sergi di Intersos (organizzazione non governativa presente in Afghanistan). "Nel 2001 gli Stati Uniti rifiutarono l' aiuto Nato, attaccando unilateralmente. Nel 2003 ci coinvolsero perché avevano la guerra anche in Iraq e non ce la facevano più. Ci mettono sempre di fronte al fatto compiuto. Noi diciamo "sì" per ragioni di alleanza, ma come Paesi europei abbiamo anche una certa dignità. Ora stiamo rimediando a errori tragici. Ma ormai siamo dentro a un ingranaggio che non può funzionare". Ma i nostri soldati non servono per proteggere voi cooperanti ? "Al contrario: i militari ci creano problemi. I locali ci confondono con loro, pensano che siamo gli stessi: un giorno in divisa e col mitra, un giorno senza. Perciò abbiamo chiesto e ottenuto una netta distinzione dei ruoli".

Friday, April 14, 1989

Guerre senza fine: la violenza torna a divampare a Beirut

L’ultima crociata


“Liberare il Libano dai siriani”: è lo slogan di Michel Aoun, premier cristiano della zona est della città. Ma nasconde anche uno dei tanti regolamenti di conti tra opposte fazioni. E intanto nel tiro incrociato finiscono i civili


dall’inviato a Beirut Mauro Suttora


Europeo, 14 aprile 1989

 

“Cosa pensano di noi i cristiani d'Europa?", mi domanda Bassam Kafrouni, 23 anni, sottotenente delle forze libanesi, gli occhi azzurri assetati di solidarietà internazionale. "Assolutamente nulla", gli rispondo sincero, "indifferenza totale. L'unica cosa che si pensa è che forse siete un po' tutti stufi di farvi guerra in Libano dopo 14 anni, no?" I baffetti neri di Bassam si irrigidiscono sulla bocca chiusa. 

È Pasquetta. Sono le due del pomeriggio. Stiamo attraversando piazza dei Martiri. Era il centro di Beirut: negozi, uffici, ristoranti e sfavillanti night club. Adesso di colorato è rimasto solo lo scheletro di una grande pubblicità luminosa: orologi Orient. Tutto il resto sono solo palazzi abbandonati. Diroccati, bruciacchiati, forati soprattutto. Basta con il cedro: il nuovo simbolo del Libano anni Ottanta è il foro del proiettile. Sventagliate di mitra o colpi di fucile di cecchini isolati. E poi i buchi più grandi: quelli di bazooka, obici, cannoni. Dei missili. Non c’è casa a Beirut, anche nei quartieri residenziali più chic, che non esibisca qualche foro sui muri.

"Sono come le cuvées", scherza il fotografo Karim Daher. "Si possono riconoscere le annate. Queste sono le tracce dei combattimenti del '76 , queste dell'82 , queste dell'86… I più esperti riescono perfino a distinguere i buchi fatti dai vari eserciti: siriani, israeliani, palestinesi, falangisti, sciiti…” 


Pasqua a Beirut. La guerra del Libano compie 14 anni. Fu una scaramuccia fra i palestinesi e la scorta del presidente cristiano ad accendere la miccia, nell'aprile 1975. In quegli stessi giorni i nordvietnamiti conquistavano Saigon. Beirut invece era la "Parigi del Medio Oriente": la città più ricca, elegante e cosmopolita del Mediterraneo. Nessuno poteva immaginare che il Libano proprio in quel momento stesse ereditando dal Vietnam l'orrendo ruolo di guerra più lunga ed estenuante del secolo.

Da allora, nell'unica democrazia del mondo arabo sono morti in 120 mila. Calcolando che il Libano ha appena tre milioni di abitanti, in proporzione sarebbe come se in Italia una guerra facesse due milioni e mezzo di vittime. E la mattanza continua. 

In marzo a Beirut è scoppiata la terza guerra del 1989. Quest'anno il ritmo è infernale: ogni mese una nuova guerra. In gennaio c’è stato il conflitto fra sciiti prosiriani del partito Amal, "Speranza" in arabo, e quelli pro iraniani di Hezbollah, il "partito di Dio". In febbraio, a san Valentino, un rapido ma sanguinoso regolamento di conti in campo cristiano: le forze libanesi del falangista Samir Geagea contro l'esercito regolare libanese del generale Michel Aoun. Il quale poi, arrivata la primavera, ha lanciato l'ultima, temeraria sfida: "Comincia la guerra di liberazione, via gli invasori siriani dal Libano". 


Ci sono 30mila soldati siriani attualmente in Libano. Occupano i due terzi del paese: la valle della Bekaa, il nord, tutto il sud tranne la striscia dei filo israeliani e quella dell'Onu. E Beirut ovest, quella prevalentemente musulmana. Ai libanesi cristiani rimangono solo 1.500 chilometri quadrati, una striscia costiera lunga una cinquantina di chilometri e larga 30 che si stende da Beirut est su verso il nord. Niente di più. 

Da sette mesi, ormai, il paese non è più unito. Neanche formalmente. Alla scadenza del mandato del presidente Amin Gemayel, infatti, si sono formati due governi. A Beirut est c’è quello guidato dal capo dell'esercito Aoun. L'altro, a Beirut ovest e nel Libano occupato dalla Siria, è presieduto dall'ex premier musulmano Selim Hoss. I libanesi cristiani però sottolineano che la guerra d’indipendenza è rivolta solo ed esclusivamente contro gli invasori siriani . E che non si può quindi parlare di "guerra civile fra libanesi". Nessuna accusa di collaborazionismo sfugge mai contro Hoss, gli sciiti, i sunniti o i drusi. 

Fatto sta che i cannoni di Beirut est stanno bombardando le case dei civili a Beirut ovest, e viceversa.


Anche i pretesti, naturalmente, sono simmetrici ed equivalenti. "Colpiamo solo le postazioni siriane. Sono loro, per proteggersi, che si mettono in mezzo ai civili", dice il generale Aoun. "Colpiamo solo obiettivi strategici come la sede presidenziale dove Aoun si è installato illegalmente", si giustificano dall'altra parte. Anzi, a Beirut ovest nessuno si giustifica, perché ufficialmente nessuno spara . Però, chissà come, ogni giorno dalle quattro del pomeriggio alle due di notte anche da lì piovono bombe. 

Ne hanno fatto le spese soprattutto i quartieri residenziali attorno al palazzo del presidente Aoun, a Baabda. Ma anche piazza Sassine, nel cuore del quartiere cristiano di Achrafie, zona considerata sicurissima, ha ricevuto la sua dose di obici da 155 a 240 millimetri che hanno perforato i muri dei condomini, entrando ed esplodendo in piena notte nelle camere da letto. Il risultato finale è sempre lo stesso, da 14 anni: per ogni soldato morto, da una parte o dall'altra, venti sono i civili innocenti ammazzati.


L'immoralità delle guerre moderne, bomba atomica o no, è contenuta tutta in questo semplice ma tragico rapporto di proporzione: uno a venti. Fino alla prima guerra mondiale erano soprattutto i soldati a morire in battaglia. Adesso invece i militari sparano e i civili muoiono. In Libano è successo tante di quelle volte: a Tall El Zatar nel '76 i soldati siriani massacrarono donne e bimbi palestinesi perché nei sotterranei del campo profughi i fedayn avevano nascosto i loro carri armati; lo stesso fecero i falangisti a Sabra e Chatila nell'82; o gli sciiti nel campo di Bourj El Barainj nell'87; o i palestinesi filosiriani di Abu Mussa contro altri palestinesi nell'estate ' 88 . Eccetera.

Ma almeno questi nomi di stragi rimarranno in qualche modo nella storia degli orrori libanesi. Chi si ricorderà, invece, dei signori Tanios Dumit, Elias Dumit o Suad Kassaifi, tre delle vittime dei bombardamenti di questa Pasquetta '89, colpiti solo perché la loro casa era troppo vicina al palazzo presidenziale di Baabda?

A Beirut non ci sono più giornalisti. Sette anni fa erano in duemila ad affollare gli alberghi; oggi siamo in tre ad aggirarci nell'atrio vuoto dell'hotel Alexandre. Peccato, generale libanese Michel Aoun, la tua guerra di liberazione contro gli invasori siriani non interessa il mondo: eppure l'hai sparata grossa venerdì santo, quando hai dichiarato: "Se per liberare il Libano Beirut dovrà essere distrutta, che lo sia: è già stata ricostruita otto volte nella sua storia, la ricostruiremo ancora".

E il giorno dopo hai rischiato grosso: mentre ti intervistava un giornalista di Zurigo, nel tuo studio sotterraneo, è caduta una pioggia di obici sul palazzo di Baabda, dove lo scorso settembre l'ultimo presidente Amin Gemayel ti nominò presidente del Consiglio solo tre minuti prima che gli scadesse il mandato, dopo averti odiato per anni. Il tassista del giornalista zurighese, che aspettava nel parcheggio, si è preso le schegge. Ma tu, presidente, saresti morto se fossi stato alla tua scrivania normale: un missile si è piantato proprio in mezzo alla sedia.


"Nous tiendrons jusqu'au bout", grida durante la messa di Pasqua una donna dal fondo della chiesa cattolica di Nostra Signora dell'Assunzione. "Resisteremo fino in fondo": se lo giurano in molti, fra il milione di cristiani assediati nell'enclave libanese. Di mattina i bombardamenti cessano, e così a Pasqua a Beirut est tutte le chiese erano piene zeppe. In quella di Nostra Signora dell'Assunzione vengo coinvolto in una scena incredibile assieme al fotografo francese Alain Nogués, fondatore dell’agenzia Sygma. È in corso la messa, in arabo. Diciamo al sacrestano che alla fine vorremmo parlare con il prete. Ma questi, avvertito immediatamente della presenza di due giornalisti europei, ci convoca sull'altare in piena messa. Ci bisbiglia in francese: "Dopo la predica dirò qualcosa su di voi". Lo farà, rivolto ai fedeli: "Fratelli, sono fra noi due rappresentanti dell'opinione pubblica cristiana europea. Che Dio li illumini e possa far descrivere loro la nostra situazione e la nostra continua lotta in difesa della cristianità”.

Alé, abili e arruolati sul campo, mille anni dopo la partenza della prima crociata contro gli infedeli! Ma è esattamente questo il clima in cui vivono centinaia di migliaia di cristiani libanesi oggi. E non capiscono perche', invece di aiutarli a cacciare via i siriani dal Libano, il presidente francese Francois Mitterrand abbia accolto proprio durante la settimana santa il ministro degli Esteri siriano a Parigi. E si sia addirittura impegnato a incontrare presto il presidente della Siria Hafez Assad.

 

Esattamente come i Pieds Noirs algerini trent'anni fa, i cristiani di Beirut, tutti arabi ma francofoni, considerano la Francia la loro protettrice e madrepatria. Anche gli armeni cilici di Antelias, sulla strada verso il porto di Junie, discutono e commentano i bombardamenti che non li hanno fatti dormire la notte precedente. Sotto la cipria, profonde occhiaie: siamo andati nei rifugi, ci siamo addormentati solo verso le tre, si lamentano le mamme.

A ogni incrocio di Beirut est c’è un altarino alla Madonna. Ogni due incroci, un murale con il ritratto del vecchio Pierre Gemayel. Ogni tre, quello del figlio Bechir, il leader della falange fatto saltare in aria poco dopo essere stato eletto presidente nell'82. Il fratello Amin, che ne ha preso il posto ed è sopravvissuto per sei anni, invece non è più popolare: "Troppi compromessi con i siriani", gli rimproverano. 

Anche Amin, assieme ad altri sei ex presidenti e primi ministri del Libano (la costituzione lasciata nel '43 dai francesi stabilisce che i presidenti siano cristiani e i primi ministri musulmani), è volato a Tunisi la scorsa settimana per i negoziati condotti, in nome della Lega Araba, dall'ambasciatore del Kuwait in Siria. Ma diversi cristiani accusano l'ultimo dei Gemayel di essersi arricchito illecitamente durante la presidenza. E poi ormai vive a Parigi, ha chiesto il divorzio dalla moglie, convive con un'amante… e i maroniti storcono il naso.


Riuscirà il generale Aoun a diventare il nuovo eroe nazionale dei cristiani del Libano? Sta facendo del suo meglio. A nord dell'enclave il territorio controllato dal cristiano Suleiman Frangie, ottuagenario ex presidente, è sotto dominio siriano. Anche Pierre Hobeika, capo dei falangisti fino al 1986 e tristemente famoso per la strage di Sabra e Chatila, è passato con Damasco. Ma, a parte questi due "Giuda", il fronte cristiano ha ritrovato la sua compattezza contro la Siria. I due risultati più concreti degli scontri intercristiani di febbraio sono stati il ritorno del controllo dell'intero porto di Beirut nelle mani dell'esercito regolare, quindi dello Stato, e la chiusura del quotidiano Le Reveil. Era l'organo delle forze libanesi (falangisti più i liberali di Eddy Chamoun più i Guardiani del Cedro) e ha sospeso le pubblicazioni per un motivo molto semplice: l'edificio dove veniva stampato è passato sotto il controllo fisico dell'esercito.

Una disavventura simile, del resto, è toccata anche al principale quotidiano libanese scritto in francese, L'Orient Le Jour: ha la redazione a Beirut est, ma la tipografia all'ovest. Così, per essere venduto anche nell'enclave cristiana, viene spedito via telefax ogni notte.


Ma le Forze libanesi continuano a essere un potentissimo stato nello stato , nel Libano cristiano. Il traghetto che collega di notte Cipro al Libano (unico modo di arrivare a Beirut se l'aeroporto è chiuso) è di loro proprietà. Appena salito a bordo, sabato santo, mi sono accorto che il potere anche nel Libano cristiano è diviso in due: accanto al funzionario statale che controllava i passaporti c'era quello delle Forze Libanesi. 

Il traghetto viene spesso bombardato da drusi e siriani quando arriva al porto di Junie, 15 km a nord di Beirut, ma rimane l'unico contatto dell'enclave cristiana col mondo esterno. Infatti i siriani dal 20 marzo hanno bloccato tutti i passaggi fra Beirut est ed ovest. La linea verde, il confine fra le due Beirut, con quella specie di muro di Berlino improvvisato fatto di container che ostruiscono ogni via di accesso tranne i pochi passaggi ufficiali, è anch'essa spartita, dalla parte cristiana, fra esercito e miliziani delle Forze Libanesi. Queste ultime controllano la parte nord, vicina al mare. E qui, da 40 giorni ininterrottamente è stazionato il sottotenente Kafrouni. La milizia gli dà tutto: mangiare, dormire, vestiti e 200 dollari al mese. "Mi bastano, perchè non sono sposato". "Sei fidanzato?". "Sì". " E lei è contenta che non ritorni a casa da 40 giorni?". “È normale, è la guerra". " È più brutta questa guerra contro i siriani o quella del mese scorso contro l'esercito regolare?". "Con l'esercito c'è stato solo un piccolo problema. Con i siriani il problema è molto più profondo".