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Tuesday, May 30, 2023

Inutile intestardirsi sullo status quo in Kosovo: non funziona

Non c'è peace-keeping né peace-enforcing che tenga, quando il 90% di una popolazione non vuole un sindaco imposto contro la matematica e la democrazia. Una soluzione è possibile e va cercata, perché Putin non vede l'ora di esportare un conflitto etnico a pochi chilometri dalla Ue

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 30 maggio 2023  

Si può dire? Questa volta hanno ragione i serbi. I quattro paesi nel nord del Kosovo che protestano contro l'insediamento di sindaci di etnia albanese sono serbi al 90%. Il voto di un mese fa è stato boicottato in massa, cosicché i sindaci hanno raccolto appena il 3%. Non v'è chi non veda che non hanno alcuna possibilità di governare.

Sì, le proteste sono state violente: lanci di sassi e molotov. Ma non più di quanto lo siano quelle che devastano periodicamente il centro di Parigi. La differenza è che i soldati non sono addestrati per fare i poliziotti, e quindi non possono mantenere l'ordine in situazioni infuocate. Devono sapere proteggersi con caschi e scudi, effettuare cariche di alleggerimento, affrontare gruppi di teppisti in continuo movimento.

È un mestiere diverso da quello dei militari. Possiamo solo ringraziare il senso di responsabilità dei comandanti italiani se non ci sono state vittime dall'una e dall'altra parte. L'ultima cosa di cui abbiamo bisogno è creare un martire serbo. 

I soldati Nato sono in Kosovo da un quarto di secolo. Ero con gli italiani nel 1999, quando fummo accolti come liberatori dagli albanesi vessati dal presidente fasciocomunista serbo Slobodan Milosevic. Che è stato processato come criminale di guerra e si è suicidato prima della condanna. Ma oggi all'Aja il Tribunale internazionale sta processando l'ex presidente del Kosovo liberato Hashim Thaci, accusato anch'egli di successive violenze contro la minoranza serba. 

La soluzione del nodo kosovaro sarebbe semplice: dare a Belgrado la zona a maggioranza serba di Mitrovica, in cambio di compensazioni territoriali nei paesi di confine albanesi rimasti in Serbia. Inutile intestardirsi nel voler mantenere uno status quo che ha ampiamente dimostrato di non poter funzionare.

Vladimir Putin non vede l'ora di esportare un conflitto etnico a pochi chilometri dall'Unione Europea. I filorussi serbi soffiano sul fuoco, ora che sono passati dall'aggressione della minoranza albanese alla difesa della minoranza serba in Kosovo. Sta a noi evitare un nuovo Donbass casalingo. Perché a est di Trieste purtroppo le etnie contano ancora. Non illudiamoci di coprirle con militari Nato mandati allo sbaraglio in una missione che non è più la loro: non c'è peacekeeping né peaceenforcing che tenga, quando il 90% di una popolazione non vuole un sindaco imposto contro la matematica e la democrazia.

Monday, November 28, 2022

Ucraina, Kosovo, Libia. Seguire l'esempio italiano



La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto fra kosovari e serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 28 Novembre 2022 

L'Italia può insegnare molto a Ucraina, Kosovo e Libia. La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto kosovari/serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente.
Il Territorio Libero di Trieste, per esempio. Quando ci sono dispute di frontiera apparentemente insolubili, come l'attuale fra Kiev e Mosca, la via d'uscita più semplice non sempre è spartire i territori contesi fra i due avversari, ma creare ex novo una terza entità.
Nel maggio 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale, la Jugoslavia di Tito s'impossessò di Trieste. Di fronte al fatto compiuto, non era scontato per l'Italia riuscire a recuperare il capoluogo giuliano con mezzi pacifici. Anche perché, dei quattro Alleati vincitori, l'Urss appoggiava il dittatore comunista, la Gran Bretagna lo aveva armato contro di noi, e la Francia di De Gaulle voleva vendicare la 'pugnalata' fascista del 1940.
Fu così che, con un guizzo creativo, la città e la costa nord dell'Istria furono inglobate nel Tlt (Territorio libero di Trieste). Il quale durò fino al 1954. Nel frattempo gli animi si erano calmati, anche perché Tito aveva rotto con Stalin. Cosicché non ebbe problemi ad abbandonare ogni rivendicazione sulla città e il Carso triestino, in cambio di Capodistria, Portorose e Pirano: era minacciato più da est che da ovest.

Il tempo lenisce gli ardori, i furori e i dolori. Oggi appare inaccettabile sia per gli ucraini che per Putin rinunciare a Crimea e Donbass. Ma un'amministrazione provvisoria, magari con mandato Onu, potrebbe svelenire gli animi. Intendiamoci, le 'città libere' non sono state sempre un successo. Quella di Danzica finì come finì, nel 1939. E anche l'altro lascito della Prima guerra mondiale, Fiume, provocò subito la spedizione di D'Annunzio contro la città autonoma fra Italia e Jugoslavia. Ma gli opposti nazionalismi non vanno fatti incancrenire.
È questo l'errore commesso da Onu e Ue in Kosovo. Mai avrei pensato, quando nel 1999 seguii a Pec le nostre truppe con bandiera Nato, che quasi un quarto di secolo dopo le avrei trovate ancora lì. Le missioni di peacekeeping non possono durare in eterno. E infatti ora la situazione è di nuovo esplosiva: serbi e albanesi si confrontano sul fiume Ibar, che taglia in due la città di Mitrovica. A nord sono maggioranza i primi, che però risultano una minoranza di centomila abitanti rispetto al milione di kosovari albanesi a sud.

Qui l'unica soluzione è una pulizia etnica nonviolenta e volontaria. Non spaventatevi per la parola: nella vita pubblica come in quella privata, se non si riesce a convivere è meglio separarsi. Repubblica ceca e Slovacchia hanno divorziato subito dopo il crollo del Muro di Berlino, nel 1990. La Jugoslavia invece ha patito un decennio di sanguinosa guerra civile.
È triste dirlo, ma in Bosnia e Kosovo la convivenza fra musulmani e cristiani ortodossi risulta ancor oggi impossibile. Il labirinto bosniaco, con le sue enclaves etniche e l'aggravante del terzo incomodo, i croati cattolici, appare difficile da districare. In Kosovo invece sarebbe facile tracciare una linea di demarcazione: la zona a maggioranza serba vada sotto Belgrado, in cambio di compensazioni territoriali (alcuni paesi albanesi in Serbia) e finanziarie.
Sono figlio di profughi istriani, so quanto costi abbandonare la propria terra. Ma non si può vivere eternamente nella tensione, nell'oppressione, nel terrore. E quindi l'esodo nel 1947 della mia famiglia con i 300mila istrodalmati fu tutto sommato la decisione più saggia. Anche perché ci ha risparmiato mezzo secolo di miseria economica e morale sotto una dittatura comunista.
Naturalmente i danni e le perdite subite dai kosovari che accetteranno di trasferirsi spontaneamente da una parte all'altra della nuova frontiera dovranno essere risarciti fino all'ultimo centesimo. Anzi, all'ultimo euro. Perché in cambio di questa complicata e dolorosa pacificazione è auspicabile che tutta la regione entri finalmente nell'Unione europea: Kosovo, Serbia, Albania. I confini diventano più accettabili quando svaniscono: qualcuno oggi si accorge se da Trieste a Gorizia entra in Slovenia? (E fra un mese anche la Croazia adotterà l'euro).

L'auspicabile opzione etnica in Kosovo (praticabile anche in Ucraina) ha un precedente in Alto Adige. Nel 1939 Mussolini e Hitler si accordarono per trasferire in Germania o Austria i sudtirolesi che lo avessero desiderato. Optarono per la heimat tedesca in 86 su cento: quasi 200mila (qualche germanofono anche in Trentino, nell'Ampezzano veneto e a Tarvisio in Friuli). Poi però, con la guerra, i trasferimenti procedettero a rilento: se ne andarono solo in 70mila. E tutto si bloccò dopo l'8 settembre, quando il Trentino-Alto Adige passò direttamente al Reich.
Come racconta Carlo von Guggenberg nel suo libro appena pubblicato 'L'Altro Adige. Optanti e Dableiber per la nascita della Stella Alpina' (Praxis Edizioni), a quel punto nacque un dramma. I sudtirolesi di lingua tedesca che avevano optato si ritrovarono in mezzo al guado: molti non volevano più partire, e dei già partiti 20mila tornarono. Ci fu tensione con accuse reciproche di tradimento. Nei paesini di montagna qualcuno aveva già adocchiato le fattorie e i campi lasciati dagli optanti. C'è chi finì nella vasca di qualche fontana durante i tafferugli.
Fu impresa non facile riappacificare i sudtirolesi fra loro, prima che con gli italiani. Ci riuscirono i fondatori della Svp (Südtitoler VolksPartei), fra i quali giganteggiarono Erich Amonn, Otto von Guggenberg (nonno dell'autore del libro) e poi Silvius Magnago. Anche grazie a loro, e nonostante i terroristi degli anni 60, quella della minoranza tedesca in Alto Adige è una storia di successo, studiata nel mondo intero. E speriamo presto anche in Ucraina.

La Libia, infine. Anche qui, come in Istria e Kosovo: meglio amputare che deteriorarsi in cancrena. Dopo la Primavera araba del 2011 che cacciò il dittatore Gheddafi, il Paese è irrimediabilmente diviso in due: Tripolitania e Cirenaica. Si susseguono patetici inviati Onu che continuano ad auspicare un'unità inesistente. Tripoli e Bengasi, peraltro, sono separate da sempre: non solo sotto l'impero ottomano, ma anche nei primi vent'anni da colonia italiana, dopo il 1911. 
Quindi, come in Irlanda del Nord e in Sud Sudan, meglio dividere chi non vuole vivere assieme. Senza tenere unite artificialmente realtà diverse: ci ammonisce la guerra civile in Yemen, se non ricordiamo il Biafra o il Bangladesh.
Petrolio e gas ci sono da una parte e dall'altra, nessun libico si impoverirebbe. L'Eni continua a pompare, nonostante i volumi ridotti. In più, a Tripoli riecco i soldati turchi tornati dopo un secolo, e a Bengasi i simpatici mercenari russi della Wagner. Pare che ora per farci dispetto ci mandino barconi di migranti pure da lì, anche se dalla Cirenaica la distanza è doppia. Urge intervenire con proposte realistiche e intelligenti, senza inseguire miraggi di ripristino unitario.

Wednesday, November 09, 2022

Un terzo di secolo per passare dal comunismo al fasciocomunismo



di Mauro Suttora

A 33 anni dal crollo del muro di Berlino, il ritorno alla guerra. Calda in Ucraina, fredda nel resto del mondo: democrazie contro dittature, esattamente come prima

HuffPost, 9 novembre 2022 

Il 9 novembre fanno 33 anni dal crollo del muro di Berlino. Cifra tonda, un terzo di secolo. Per la prima volta senza Gorbaciov, artefice dell'eutanasia comunista (buona morte, mai nella storia un impero è scomparso con così poche vittime).

Che c'è di nuovo rispetto ai precedenti anniversari dei 30 anni, 25, 20? L'Ucraina. L'aggressione di Putin ha chiuso un'epoca: 1989-2022, la pace fra due guerre fredde. Nei libri di storia si ricorderanno questi 33 anni (con in mezzo l'attacco alle Torri gemelle e la reazione Usa) come un periodo di grandi speranze e delusioni. 

Negli anni '90 l'illusione, se non della fine della storia con l'avvento della pace universale, almeno del diritto internazionale che puniva i violatori di frontiere (Saddam, 1990), gli autori di stragi (Srebrenica, 1995) e quelli di tentato genocidio (Milosevic in Kosovo, 1999). A suggellare una nuova legalità, il diritto/dovere di intervento militare umanitario e la nascita del Tribunale penale internazionale dell'Aia con la firma del trattato di Roma nel 1998 (grazie Emma Bonino, Boutros Ghali e Soros).

Ora, invece, il ritorno alla guerra. Calda in Ucraina, fredda nel resto del mondo: democrazie contro dittature, esattamente come prima. È tornato il comunismo? Macché, quello è confinato a qualche nostalgico occidentale. Lo spiega bene una scena esilarante del film 'Triangle of Sadness', Palma d'oro a Cannes, appena uscito in Italia: il capitano americano di una nave che sta affondando si dichiara marxista, mentre un suo ricco passeggero russo si dichiara capitalista. E tuttavia nell'assai inquietante megasalone congressuale del partito unico cinese campeggiano ancora falce e martello. Xi Jinping si dichiara orgogliosamente comunista, come i suoi compagni tiranni di Cuba, Corea del Nord, Cuba, Vietnam, Laos.

Quanto a Putin, è lì a incarnare la continuità vivente del Kgb. Con tre letali aggiunte: il fanatismo religioso ortodosso, la mafia degli oligarchi e il nazionalismo (senza rimpianti per il fraterno internazionalismo sovietico di Budapest 1956, Praga 1968, Kabul 1979, Varsavia 1981).

Cosa c'è quindi oggi a Pechino e a Mosca? Come definire gli attuali avversari del mondo libero? La risposta più attendibile compie anch'essa un terzo di secolo: si chiama Slobodan Milosevic. Il presidente della Serbia che per primo al mondo traghettò un Paese dal comunismo al fasciocomunismo, infliggendo alla Jugoslavia un decennio di guerre civili, 100mila morti e la città martire di Sarajevo così simile a Mariupol.

La maggioranza dei politologi nel mondo concorda da tempo su questa definizione solo apparentemente contraddittoria per Russia e Cina, che assomma il peggio del '900: fasciocomunismo.

Esito triste ma forse inevitabile per due nazioni che, a pensarci bene, nella loro storia millenaria (Russia) e bimillenaria (Cina) hanno potuto assaporare solo dieci anni di libertà e democrazia: la presidenza etilica di Eltsin, e il primo confuso Kuomintang di Sun Yat-sen dopo la caduta dell'ultimo imperatore nel 1912.

In entrambi i casi sono succeduti loro i signori della guerra. Ben prima dell'Ucraina, infatti, i generali di Putin hanno invaso Cecenia, Georgia, Siria. E i suoi mercenari Wagner sono in Libia, Mali, Centrafrica, Sudan. Ma, anche qui, niente di nuovo: il militarismo è sempre stato uno dei tratti caratteristici del comunismo. E non è scomparso il 9 novembre 1989 assieme al muro di Berlino. 

Thursday, October 06, 2022

Memento Putin. L'ex presidente del Kosovo è in carcere da due anni all'Aja



Hashim Thaci nel novembre 2020 diventò il primo capo di stato nella storia a trasferirsi direttamente dal suo palazzo presidenziale a una prigione olandese. All'inizio era sembrata una buona idea, non aveva calcolato due rischi

di Mauro Suttora 

HuffPost, 6 ottobre 2022  


Al numero 47 di Raamweg, all'Aja, una cella aspetta Vladimir Putin. Sta in un palazzo di mattoni rossi che d'estate si colora col verde dei rampicanti. È la sede del Tribunale che in questi mesi sta giudicando un collega dell'autocrate russo: Hashim Thaci, per vent'anni leader del Kosovo. Prima capo militare dell'Uck (Esercito di liberazione kosovaro), poi premier (2000-2014), ministro degli Esteri, infine presidente. Fino a quel maledetto (per lui) 5 novembre 2020, giorno in cui si consegnò al Tribunale dell'Aja: fu il primo capo di stato nella storia a trasferirsi direttamente dal suo palazzo presidenziale a un carcere in Olanda. 

All'inizio era sembrata una buona idea. Thaci, i suoi avvocati e compagni di partito pensavano che qualche settimana di prigione fosse un accettabile prezzo da pagare per far entrare il Kosovo nell'Unione europea. Da anni, infatti, le accuse di crimini di guerra contro il partito degli ex guerriglieri anti-serbi bloccano il processo di adesione alla Ue. 

Così perfino il partito di governo aveva accettato di mettere sotto processo Thaci e qualche altro proprio dirigente, per rispondere di nefandezze perpetrate contro la minoranza serba durante il conflitto che liberò il Kosovo nel 1999-2000. Pare che all'ombra di Ibrahim Rugova, il Gandhi kosovaro morto nel 2006, anche l'Uck si sia lasciato andare a vendette sanguinose. 

Questo gesto apparentemente autolesionista di Thaci e del Kosovo doveva anche servire a bilanciare il processo contro il presidente Slobodan Milosevic e gli altri gerarchi serbi, che si era concluso con la condanna per crimini di guerra di molti di loro (ergastolo a Karadzic e Mladic), e il suicidio di Milosevic nella sua cella dell'Aja nel 2006 in prossimità della sentenza. 

Thaci però non aveva calcolato due rischi: le lungaggini della giustizia internazionale (le prime accuse della procuratrice svizzera Carla Del Ponte su un sospetto traffico d'organi prelevati da prigionieri serbi risale al 2008) e il puntiglio dei magistrati dell'Aja. I quali da due anni gli negano gli arresti domiciliari, o perlomeno il trasferimento in una prigione kosovara, vicina a casa. 

Qualche mese fa Thaci, furibondo anche perché il processo è ancora in istruzione e chissà quando inizierà il dibattimento in aula, ha cambiato avvocato. Si è affidato a un pezzo grosso statunitense specializzato in diritto penale internazionale. Niente da fare: anche la sua ultima richiesta di domiciliari è stata respinta dall'inflessibile corte. Né aiuta che nel frattempo in Kosovo il partito di Thaci abbia perso le elezioni, e che premier ora sia il 47enne Albin Kurti del partito 'Autodeterminazione'.

Così un capo di stato europeo, fino a due anni fa riverito in tutte le capitali del continente, langue in una cella dell'Aja. 

In realtà il Tribunale internazionale per il Kosovo è solo uno dei ben quattro in funzione all'Aja. A poche centinaia di metri c'è quello ad hoc per la ex Jugoslavia, che ha cessato di giudicare ma si occupa ancora di esecuzione della pena per decine di condannati che la stanno scontando in vari Paesi europei (uno anche in Italia).

La terza corte è quella dell'Onu, ma nel suo famoso palazzo della Pace di Carnegieplein non si occupa di reati individuali: dirime soltanto controversie fra stati. 

C'è infine la Corte penale di giustizia nata con lo statuto di Roma del 1998, che attualmente sta processando soprattutto ex capi africani (Sudan, Centrafrica, Congo, Uganda), e da poche settimane investiga anche tre presunti criminali filorussi della guerra che Putin fece alla Georgia nell'agosto 2008. 

Putin si è guardato bene (come peraltro anche gli Usa) dal far aderire la Russia a questa Corte penale di giustizia. Quindi pure lui, come il filoccidentale Thaci e il filorusso Milosevic, dovrebbe essere giudicato da un tribunale ad hoc. Ma se per Mad Vlad le cose dovessero mettersi male, una prigione olandese forse risulterebbe l'opzione più desiderabile, rispetto alla tragica fine di un Nicolae Ceausescu, un Saddam Hussein o un Muammar Gheddafi.

Monday, September 12, 2022

La guerra lunga può diventare una trappola per Zelensky

Non è mai positivo quando i conflitti si trascinano a lungo. C'è una costante che li accomuna: la psicopatologia collettiva dei combattenti. Colpisce indiscriminatamente, si creano aspettative e frustrazioni difficilmente gestibili dopo il ritorno alla vita civile

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 12 Settembre 2022 

Nella primavera 2011 guardavo i ragazzi sul lungomare di Bengasi. Tornavano dai combattimenti contro i soldati di Gheddafi a Sirte, trasportati su pickup con mitragliatrice. Da qualche settimana i libici si erano ribellati al loro dittatore, e quei giovani con divise raffazzonate erano corsi volontari a sfidare la morte, coraggiosi. Al loro rientro in città erano giustamente accolti da eroi: esibivano orgogliosi i kalashnikov recuperati nelle caserme abbandonate dai militari regolari. Come capita a tutti i ventenni, piaceva loro far colpo soprattutto sulle ragazze. 

Sappiamo com'è andata a finire: da dieci anni la Libia è in preda all'anarchia. Molti di quei ragazzi sono rimasti arruolati nelle milizie che perpetuano la guerra civile. Affascinati dallo status garantito dalla divisa, esaltati dal machismo, riluttanti a tornare nel triste trantran della vita precedente: studio, lavoro? Che fatica, che noia.

Per questo non è mai positivo quando le guerre si trascinano a lungo. Neanche in Ucraina. C'è infatti una costante che le accomuna: la psicopatologia collettiva dei combattenti. La quale non cambia molto fra vincitori e vinti, aggrediti e aggressori. Perché le conseguenze negative di una guerra prolungata colpiscono entrambi i fronti. Col tempo, si creano aspettative e frustrazioni difficilmente gestibili dopo il ritorno alla vita civile.


Sono state scritte biblioteche sulle esiziali conseguenze della prima guerra mondiale nella psiche delle masse smobilitate nel 1919, dopo cinque lunghi anni. I reduci italiani furono fra le principali cause del fascismo, le insoddisfazioni tedesche ci regalarono Hitler. Le vittorie sono sempre mutilate, le sconfitte sempre umilianti. La via d'uscita è facilmente la mistica dell'uomo forte. Gli ex combattenti diventano disadattati, disabituati alla pace. 

I mujaheddin afghani plasmati dalla resistenza antisovietica negli anni 80 hanno prodotto Osama Bin Laden e i talebani. Quando la guerra s'incancrenisce, l'unica stabilizzazione che si ottiene è quella del nemico. I tre quarti di secolo dei campi profughi palestinesi, con quattro generazioni cresciute nel mito della violenza, oggi promettono solo ulteriori decenni di odio. Che ha contagiato anche la controparte israeliana.

Egualmente, il Kosovo liberato 23 anni fa ha ancora bisogno del peacekeeping Nato, e si scopre ai bordi della legge quasi quanto la Serbia di Milosevic. Dal 2020 il suo eroe nazionale Hashim Thaci, che l'ha governato prima come capo militare, poi da premier e presidente, langue in una cella dell'Aja a poche centinaia di metri da quella dove si suicidò Milosevic nel 2006: entrambi accusati di crimini di guerra. 

Ma anche le più avanzate Croazia e Slovenia, accolte nella Ue e nell'euro (Zagabria fra quattro mesi), conservano piccole incrostazioni nazionaliste che impediscono loro di sciogliere una comica disputa sulle reciproche acque territoriali davanti a Trieste.

Insomma, le scorie del militarismo sono sempre difficili da smaltire. Anche nelle nostre democrazie. Nel 1960 fu proprio un ex generale, il presidente Usa Eisenhower, ad ammonirci contro il pericolo del 'complesso militare industriale': la perversa alleanza fra industria bellica e alte gerarchie delle forze armate, che per forza d'inerzia spinge ad aumentare le spese per armamenti. 

Pochi anni dopo il dramma del Vietnam gli diede ragione. Ma allora la reazione dei giovani statunitensi spinse alla pace e all'abolizione della leva. Paradossalmente invece, tanto più una guerra è di popolo, popolare, percepita come giusta (e la resistenza ucraina lo è), tanto più alti sono i rischi di un'escalation delle rivendicazioni. 

Perciò Zelensky è sicuramente un eroe, ma gli auguriamo di smettere al più presto la sua maglietta mimetica. Altrimenti diventerà lui stesso prigioniero di un revanscismo illimitato che impedirà la pace. Se oserà dire l'ovvio, e cioè che la Crimea e quel quarto di Donbass invasi dalla Russia nell'ormai lontano 2014 sono trattabili, verrà accusato di tradimento dai militaristi ucraini. Rischierà la fine di Rabin o Gandhi: assassinati non da nemici, ma da fanatici della propria parte. Induriti e impazziti a causa di guerre troppo lunghe. 

Wednesday, June 23, 2021

Trent'anni dopo le guerre dell'ex Jugoslavia, Slovenia e Croazia litigano ancora

di Mauro Suttora

HuffPost, 23 giugno 2021

Trent'anni fa, il 25 giugno 1991, iniziò il decennio delle guerre in Jugoslavia. Slovenia e Croazia si dichiararono indipendenti, ma il presidente fasciocomunista della Serbia Slobodan Milosevic non accettò lo smembramento dell'ex dittatura di Tito, morto dieci anni prima.

Il conflitto con la Slovenia si risolse in dieci giorni con qualche decina di morti. La guerra serbo-croata invece durò quattro anni, coinvolse la Bosnia e fu sanguinosissima: quasi centomila morti.

Nel 1999, infine, l'appendice del Kosovo: per liberare la provincia albanese della Serbia evitando altri genocidi di civili come quello bosniaco di Srebrenica (settemila assassinati sotto gli occhi dell'Onu) dovette scendere in campo la Nato. Che è ancora lì, compreso il contingente italiano.

Oggi è inimmaginabile una guerra civile nel cuore dell'Europa. Slovenia e Croazia sono nella Ue, la frontiera con l'Italia non esiste più. 
Il problema è che anche trent'anni fa nessuno ipotizzava un ritorno alle armi. Anzi, il crollo del comunismo sembrava aprire un'era di pace per il nostro continente (che in effetti è tuttora in corso, a parte il buco nero jugoslavo).

Com'è potuta accadere, allora, una simile tragedia? I nostalgici del maresciallo Tito danno a lui il merito di aver mantenuto la pace per 35 anni fra cinque nazionalità, tre religioni e due alfabeti, seppure al prezzo della mancanza di libertà: "Morto lui, sono rinati gli antichi odi".

Gli storici non comunisti invece addossano proprio al regime titoista la responsabilità della seconda guerra civile jugoslava (la prima, assieme alla guerra di liberazione dai nazisti, costò un milione di morti nel 1941-45): "Gli odi etnici erano stati solo repressi dalla dittatura, ma più le pentole accumulano pressione, maggiore è lo scoppio finale".

In ogni caso, anche negli anni '90 avvennero crudeltà inimmaginabili. Quando andai in Jugoslavia per il settimanale Europeo con Gianfranco Moroldo, storico fotografo di Oriana Fallaci, scoprimmo che, come nei film di Kusturica, la guerra cominciava ogni giorno dopo le cinque del pomeriggio: quando i combattenti di entrambe le parti si ubriacavano. "Non farmi più tornare fra questi pazzi", mi disse Moroldo, "io ho visto guerre in tutto il mondo, dal Medio Oriente al Vietnam, ma questa è peggio. Non esiste un fronte definito. Di morire per un proiettile vagante non ho voglia".
Eravamo vicino a Knin, in Kraina, fra tigri di Arkan serbe cristiane ortodosse armate di cucchiai dai bordi affilati per cavare gli occhi ai nemici, e frati francescani croati cattolici che impugnavano il mitra.

E oggi? Il generale serbo Ratko Mladic, 78 anni, condannato come criminale di guerra per il massacro di Srebrenica, ha avuto l'ergastolo confermato in appello appena due settimane fa dal tribunale dell'Aia. Carcere a vita anche per il 76enne Radovan Karadzic, già presidente serbo della Bosnia, che sta per essere trasferito dall'Olanda in un carcere britannico.

Tutta la ex Jugoslavia adesso è lontanissima dalle follie omicide degli anni '90. L'Istria, rimasta indenne dal conflitto, è spartita fra Slovenia e Croazia. Ma scrivendo il libro 'Confini' (ed. Neri Pozza, 2021) ho scoperto che il loro confine marittimo nel vallone di Pirano, a pochi chilometri dall'Italia, è ancora contestato dagli opposti nazionalismi sloveno e croato. 
Lubiana reclama un corridoio di accesso alle acque internazionali, Zagabria non accetta la sentenza di arbitrato. Nel 2020 la corte europea ha dichiarato di non essere competente. 
Così continuano i sequestri di pescherecci da una parte e dall’altra. Per la gioia dei delfini, arrivati numerosi nel golfo di Trieste: sono attratti dall’abbondanza di pesce provocata dall’assenza di pescatori.
Mauro Suttora

Thursday, April 29, 2021

'Confini': il senso di una linea quando nessuno rivendica più niente

Esce oggi “Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere” (Neri Pozza) di Mauro Suttora. Una mappa geografica e mentale che racconta chi siamo

di Mauro Suttora

www.ilsussidiario.net, 29 aprile 2021

Perché il confine italo-svizzero sta proprio a Chiasso, e non dieci chilometri più a nord o a sud? E come mai le nostre frontiere con Francia e Slovenia sono situate a Ventimiglia e Gorizia, e non cinque chilometri più a est o a ovest?

In un’epoca di sovranismi, i confini tornano d’attualità. Erano spariti con l’Europa unita e il trattato di Schengen: dopo il Duemila niente più dogane, documenti, file d’auto ai valichi. Ma sono riapparsi con il coronavirus e i controlli sui migranti. Così abbiamo dovuto riscoprire i limiti terrestri della nostra penisola. Che coincidono con le Alpi, ci hanno insegnato. Ma non sempre.

Sono molti infatti gli spartiacque non rispettati: la pipì fatta dagli abitanti di Livigno (Sondrio), San Candido (Bolzano) o Tarvisio (Udine) finisce nel mar Nero, passando per il Danubio. E in Lombardia una valle (la val di Lei, dietro Madesimo) non appartiene al bacino del Po, ma a quello del Reno.

Anche le frontiere linguistiche, oltre a quelle geografiche, sono labili. I valdostani parlano francese, i sudtirolesi tedesco, inglobiamo centomila sloveni fra Cividale e Trieste. E oltre confine 350mila svizzeri ticinesi conservano la madrelingua italiana dopo la separazione del 1515.

Sapevate che l’attuale frontiera di Ventimiglia fu decisa da un prefetto napoleonico nel 1808? O che la sventurata Gorizia, record mondiale, ha cambiato padrone sette volte in trent’anni, dal 1916 al 1947?

Il mio libro ‘Confini. Storia e segreti delle nostre frontiere’ (ed. Neri Pozza) traccia mappe geografiche, ma anche mentali. E svela qualche segreto: il generale francese Charles De Gaulle, per esempio, nel 1945 voleva annettere l’intera Val d’Aosta Contro di lui, incredibilmente, si allearono partigiani e fascisti italiani.

Insomma, innumerevoli sono le vicissitudini dei nostri confini: dal Frejus alla Val d’Ossola, dalla Valtellina al Brennero, da Cortina al Carso. Fra storia, geografia, cultura, politica. E perfino qualche suggerimento turistico ed enogastronomico.

Per questo ho scritto il libro. Perché in realtà non conosciamo affatto i nostri confini. Li attraversiamo senza accorgercene, e sappiamo poco o nulla di loro.

Ho scoperto, per esempio, che antichi e romani e longobardi non tracciavano mai i confini in cima ai valichi, ma molto più a valle. Dove le famose “chiuse” (Bard in Val d’Aosta, Klausen o Sabiona in Alto Adige, Chiusaforte in Friuli) permettevano di controllare il transito con poche decine di soldati. Nel 1800 Napoleone fu bloccato per mezzo mese dagli austropiemontesi a Bard.

Di frontiere oggi si parla soprattutto per i migranti. L’Austria ogni tanto ripristina i controlli al Brennero, la Francia è in allerta continua a Modane e Ventimiglia, Slovenia e Italia hanno istituito pattuglie miste per sorvegliare. Ma per un figlio di profughi come me (mio padre scappò nel 1944 dall’isola di Lussino, oggi in Croazia) i confini rappresentano soprattutto un incubo, fortunatamente sparito col crollo dei due totalitarismi opposti ma specularmente simili: fascismo e comunismo.

Oggi grazie a Dio nessuno sano di mente rivendica più niente. Sono spariti i nazionalisti che per secoli hanno minacciato di invadere territori oltre confine, e lo hanno fatto. Ma fino al 1989 sulla frontiera di Gorizia (fotografata sulla copertina del libro) passava la Cortina di ferro, e per quasi mezzo secolo abbiamo rischiato la guerra atomica in Europa.

È incredibile pensare come la guerra sia diventata inimmaginabile per noi nel giro di pochi decenni. Una rivoluzione culturale unica nella storia dell’umanità. Si va dal Friuli alla Croazia così come dalle Marche all’Abruzzo, sovrappensiero, senza ricordare le centinaia di migliaia di soldati morti inutilmente da quelle parti nel secolo scorso. Ma ancor oggi ucraini e russi si ammazzano per i loro confini. E sono passati solo vent’anni dalla guerra in Kosovo: i nostri soldati sono sempre lì, a guardia di frontiere contestate e famiglie minacciate.

È importante, quindi, conoscere i nostri confini. Attraverso di essi possiamo capire l’Italia, e quindi noi stessi.

Mauro Suttora


Wednesday, June 29, 2011

Basta spedizioni all'estero

LE MISSIONI MILITARI COSTANO TROPPO: DUE MILIARDI DI EURO ALL'ANNO. RADDOPPIATI RISPETTO AL 2007. ORA LA LEGA NORD VUOLE TAGLIARE, SPEZZANDO UN CONSENSO BIPARTISAN

di Mauro Suttora

Oggi, 22 giugno 2011

Soltanto quattro anni fa le spedizioni militari italiane all’estero ci costavano un miliardo di euro all’anno. Mille milioni non sono poco, in tempi di crisi per un Paese con 1.900 miliardi di deiti. «Ma dobbiamo mantenere gli impegni con la nostra alleanza», era il coro quasi unanime dei politici. Anche il Pd, infatti, ha sempre approvato i finanziamenti alle missioni di pace. Dopo l’uscita dal Parlamento di Rifondazione comunista nel 2008, votavano contro soltanto i dipietristi e i radicali di Marco Pannella. La Lega Nord mugugnava, ma alla fine diceva sì.

Adesso però si scopre che, fra una cosa e l’altra, i costi sono raddoppiati. Soprattutto negli ultimi tre mesi con la spedizione di Libia, il cui conto da solo ammonta a 600 milioni (compresa l’assistenza ai profughi). E la Lega punta i piedi: «Facciamo tornare i nostri ragazzi, basta spendere per i bombardamenti».

Non è antimilitarismo: tutti i politici, compresi il premier Silvio Berlusconi, il presidente Giorgio Napolitano e il ministro della Difesa Ignazio La Russa, quando qualche nostro ragazzo torna (sempre più spesso) cadavere dall’Afghanistan si chiedono quale sia il senso di queste missioni. Da anni tutti i sondaggi ripetono che la maggioranza degli italiani non le approva. Non c’è bisogno di essere leghisti, quindi, per interrogarsi sui loro costi umani e finanziari.

In Kosovo da 12 anni: un'eternità

«Se vogliamo mantenere uno status di media potenza internazionale, abbiamo dei doveri di presenza», dice a Oggi il generale Mauro Del Vecchio, ora senatore Pd. Comandante delle spedizioni in Kosovo dodici anni fa e in Afghanistan nel 2005, Del Vecchio spiega che sono già in corso riduzioni: «A Kabul, dopo il picco di 4.200 soldati raggiunto l’anno scorso, per quest’anno è previsto il ritiro di centinaia di militari, e la consegna del comando di Herat al governo locale. In Libano facciamo parte di un contingente Onu di 14 nazioni, siamo in 1.700 rispetto ai 3 mila iniziali, e la frontiera con Israele resta una zona calda. Anche in Kosovo c’è un programma di riduzione graduale».

Proprio il Kosovo, però, dove Del Vecchio e i nostri soldati furono accolti con applausi dalla popolazione locale nel lontano 1999, dimostra che le missioni durano troppo. Stesso discorso per l’Afghanistan: la Nato è lì da dieci anni, senza risolvere nulla. «Ma la soluzioni delle crisi sono sempre politiche», dice Del Vecchio, «noi militari seguiamo gli ordini».

Inutile Libano

Gli ordini sono ambigui anche in Libano: in teoria dovremmo impedire il riarmo degli hezbollah che minacciano Israele (e i libanesi cristiani e sunniti) per conto dell’Iran. Ma in pratica il contingente Onu non può fare nulla: solo segnalare movimenti sospetti all’esercito regolare libanese, notoriamente imbelle. Non è un mistero, inoltre, che la missione iniziò nel 2006 con l’allora ministro degli esteri Massimo D’Alema per «compensare» il ritiro dall’Iraq. «Inutile e superflua», liquida oggi la missione in Libano il ministro dell’Interno Roberto Maroni.

Più pessimista l’economista Giulio Sapelli, docente all’università di Milano: «Altro che missioni di “pace” in Libano e Kosovo. La vera grande minaccia per la pace mondiale è la Cina, che continua a essere una pericolosa dittatura comunista. E si sta riarmando per conquistare l’egemonia. Lo dico da uomo di sinistra, non condivido l’illusione del mio amico Prodi sulla democratizzazione di Pechino. Quel che spendiamo adesso per le forze armate rischia di essere poco rispetto a quel che ci costerà proteggere le vie di comunicazioni del nostro commercio ed export quando la Cina le minaccerà direttamente».
Mauro Suttora

Thursday, March 10, 2011

Libia: che può fare l'Italia?

Oggi, 9 marzo 2011

Cosa sta succedendo?

1) GUERRA CIVILE

Inutile giocare con le parole: in Libia è guerra civile. A Ovest Gheddafi controlla la Tripolitania, e ha attaccato le città ribelli Zawiya e Misurata. A Est è sorto un nuovo governo con capitale Bengasi che si estende su tutta la Cirenaica. Il fronte è fra Sirte e Ras Lanuf. Gli insorti chiedono un solo aiuto: la «No fly zone». Non vogliono un intervento terrestre.

Cosa può fare l’Italia?

2) NO FLY ZONE

«È urgente impedire di volare agli aerei ed elicotteri assassini di Gheddafi», avverte Bernard-Henry Lévy, unico intellettuale europeo andato a Bengasi. La «no fly zone» è già stata applicata dall’Onu negli anni ’90 all’Iraq, per evitare che Saddam Hussein bombardasse i curdi al nord e gli sciiti al sud. E nel ’99 dalla Nato per proteggere i kosovari dai serbi di Slobodan Milosevic. Il veto russo impedì che la protezione del Kosovo dal genocidio avesse anche l'imprimatur dell'Onu, ma Mosca venne immediatamente coinvolta dall'allora presidente Usa Clinton, che affidò ai russi una zona di occupazione del Kosovo liberato.

La No fly zone è il minimo che la comunità internazionale può fare per proteggere gli insorti della Cirenaica. I quali stanno combattendo una guerra asimmetrica: in ogni momento sono vulnerabili dal cielo, privi come sono di aerei e dotati solo di contraerea artigianale. Gheddafi non si farà scrupolo di colpire anche i civili (lo ha già fatto a Zawiya, lo sta facendo a Misurata). Inoltre occorre bloccare l’arrivo di merci e mercenari dal cielo, soprattutto nell’aeroporto di Sebha, nel deserto del Fezzan.

C’è poi l’opzione «serba»: bombardare le basi militari di Gheddafi, o almeno le piste dei suoi aeroporti, per impedire il decollo dei bombardieri. In Serbia ci furono danni «collaterali» (morti di civili), ma in Libia il deserto permette colpi più chirurgici. In ogni caso, l’Italia da sola non può far nulla. Ma deve sollecitare Onu e Nato, e soprattutto mettere a disposizione le nostre basi per gli aerei Usa, come fece per il Kosovo 12 anni fa.
In mancanza di un «ombrello» Onu, a causa dei veti di Cina (preoccupata per i suoi «affari interni» Tibet e Xinkiang) e Russia (Cecenia), la Nato deve assicurarsi almeno un endorsement di Lega Araba e Unione Africana.

Se la comunità internazionale non interviene in Libia, potrebbero verificarsi stragi come quelle in Ruanda (1994) e Bosnia (1995).

3) RICONOSCERE IL NUOVO GOVERNO

I politici italiani hanno qualcosa da farsi perdonare: il trattato d’amicizia con Gheddafi del 2009 (votato anche dal Pd). Possono rimediare riconoscendo subito il governo provvisorio della Libia libera, nato a Bengasi. Abbandonare le cautele diplomatiche è il minimo che politici lungimiranti possano fare per proteggere non solo donne e bambini della Cirenaica, ma anche i nostri interessi economici.

Essere i primi a dichiararci amici della nuova Libia, dopo essere stati gli ultimi ad abbandonare l’«amico» Gheddafi: un riconoscimento che porterà riconoscenza. Per i nuovi contratti, ma anche per i futuri controlli dei clandestini su frontiere e coste. È un rischio? Forse. Ma c’è un precedente incoraggiante: la Germania nel ’90 riconobbe per prima le neonate Slovenia e Croazia. Che oggi sono – economicamente – province tedesche.

Qualsiasi presenza non militare nella Libia libera (come la nave Libra) è positiva: medici, cooperanti, tecnici, volontari. Tenendo però presente che la Libia è un Paese ricco, grazie al petrolio. Quindi non offendiamoli portando roba da Terzo mondo. Astenersi anche affaristi, almeno per un po’: che saltino un giro.

4) RIFUGIATI

Troppo tardi. Non c’è più tanto bisogno del progettato Villaggio Italia alla frontiera Tunisia-Libia: i rifugiati (lavoratori stranieri scappati dalla Libia) sono quasi tutti tornati a casa. Comunque l’idea è buona. Al di là della retorica umanitaria, infatti, stare in Tunisia ci fa ottenere quattro risultati:
A) Ricucire i rapporti con l'Agenzia Onu dei profughi, finora polemici. Ora l'Italia mette soldi e infrastrutture, regalando all'Unhcr la gestione.
B) Mettere il piede in un Paese che, dopo la cacciata del dittatore Ben Ali, soffre un vuoto di potere. Potremo controllare direttamente, alla fonte, coste e partenze di clandestini.
C) avvantaggiarsi sulla Francia, tradizionale «madrina» di Tunisi come ex potenza coloniale, ma ora in difficoltà Ben Alì era appoggiato da Parigi. La potente ministro degli Esteri Michèle Alliot-Marie ha dovuto dimettersi per le sue vacanze natalizie tunisine pagate dal dittatore.
D) Bypassare la Ue, la cui inefficiente commissaria agli Aiuti umanitari è stata quasi presa a botte alla frontiera Tunisia/Libia per la sua inerzia.

Il Villaggio Italia potrà servire in caso di guerra civile prolungata in Libia, sempre che Gheddafi non sigilli le frontiere. Ma solo temporaneamente: i sei milioni di libici (pochi, in confronto agli 80 milioni di egiziani) non hanno interesse a lasciare il proprio Paese, dove grazie al petrolio si pagano pochissime tasse, sanità e istruzione sono gratis, e non occorre (quasi) lavorare, se non in impieghi dirigenziali pubblici e ben retribuiti. Tutto il resto lo facevano gli stranieri. Che torneranno, quando tornerà la pace.

Mauro Suttora

Wednesday, April 04, 2007

Un miliardo in missioni militari

La pace ci costa un miliardo
Quanto spendiamo per le missioni militari italiane all' estero

Occorrono mille milioni all' anno per i nostri soldati nelle aree di crisi. Dai 75 mila euro per 100 semafori a Nassiriya al milione per l'ambasciata a Kabul, ecco tutte le curiosità tratte dal bilancio

Oggi, 04/04/2007, pag. 57/58

Matite, penne, zainetti. Li hanno distribuiti tre settimane fa i nostri soldati in una scuola elementare del Libano, per conto dell' Associazione internazionale regina Elena. Si tratta di un gruppo legittimista monarchico (vuole ufficialmente il ritorno del re in Italia), guidato dal pronipote della suddetta regina: il principe Serge di Jugoslavia, figlio di Maria Pia Savoia. I 2.500 militari della Repubblica italiana in missione in Libano, dunque, distribuiscono la beneficenza di chi auspica il ritorno della monarchia. Curioso. Valeva la pena di mandarli lì con i carri armati per fare regali ai bimbi libanesi ? Non bastavano, per un compito tale, due volontari di una qualsiasi Ong (Organizzazione non governativa) ? Spendiamo quasi mille miliardi all' anno in lire per disarmare i pericolosi hezbollah: questo indica lo scopo ufficiale della missione Onu. Peccato che finora, in sette mesi, non abbiamo sequestrato neppure una pistola ad acqua.

Così i nostri militari si consolano con le attività umanitarie. In Afghanistan, invece, prima dell' escalation di tensione degli ultimi tempi, i nostri militari avrebbero costruito una chiesetta. La notizia, trapelata a Herat, è stata subito smentita per non irritare gli estremisti. Quanto al Kosovo, chi si ricorda che 2.300 nostri soldati ancora languono in una guarnigione, otto anni dopo esserci arrivati per pacificarlo ? Missione compiuta, almeno lì ? Neanche per sogno: "Ci vorranno vent'anni per riportare la calma fra albanesi e serbi", ci dice pessimista Nino Sergi, segretario generale di Intersos (Cooperazione civile). Intanto, però, anche la missione in Kosovo dev'essere rifinanziata. Così è finita pure questa nel calderone del cosiddetto "decreto Afghanistan", votato al Senato martedì 27 marzo. Le polemiche si concentrano sull' opportunità di tenere le nostre truppe nel Paese dei talebani a seimila chilometri di distanza.

Ma il decreto finanzia molte altre missioni militari all' estero , per un totale di un miliardo di euro nel 2007. E, leggendone le 300 pagine, si scoprono molte curiosità. Qualcuno sapeva, per esempio, che tre nostre navi con 105 marinai da anni vagano per il Mediterraneo alla ricerca di "terroristi e pirati" nella missione Active Endeavour ? Il pattugliamento era stato deciso dalla Nato dopo l'11 settembre 2001, quando si temeva qualche altro attacco, questa volta marittimo, o trasporti di armi da parte di Al Qaeda. Ma ancor oggi spendiamo otto milioni all' anno per far navigare la fregata Maestrale e il cacciamine Termoli. Nonché il nuovo sommergibile Todaro, che ha appena terminato il suo primo mese di missione.

Nessuno lo sa, ma abbiamo sei militari di collegamento nel quartier generale americano per l'Afghanistan che sta a Tampa, Florida. Eppure ci avevano detto che si tratta di una missione Nato Onu, non più a guida statunitense. E poi: che ci fanno 95 nostri avieri ad Abu Dhabi, negli Emirati Arabi ? Mantengono tre aerei C 130 per il trasporto truppe da e per l' Afghanistan. Dall' Iraq ce ne siamo andati. Però continuiamo a spendere. Il decreto stila un elenco minuzioso. Cento semafori da installare a Nassiriya, 75 mila euro. Anche mettendone quattro per incrocio, esistono a Nassiriya 25 incroci con un tale traffico da giustificare semafori ? Oppure faranno la fine dei precedenti, che nessuno nelle rotonde caotiche e polverose piene di carretti trainati da asini ha mai rispettato ? E i 500 mila euro per la "mappatura satellitare" dei beni culturali iracheni, serviranno ad ammansire i terroristi ?

Un milione di euro finanzierà un corso di 45 giorni per sessanta tecnici del petrolio iracheni a Piacenza (ospitati all'Hotel Ovest, quattro stelle). Come se le compagnie petrolifere, la nostra Eni o altre, non fossero abbastanza ricche da poter pagare loro la formazione. E poi: due "esperti" da inviare in Kurdistan per "facilitare la penetrazione commerciale italiana", al modico stipendio annuo di 180 mila euro l' uno. Costerà 300 mila euro l' affitto annuo dell' ambasciata italiana a Kabul. Ma molto più del doppio costerà sorvegliarla: 770 mila euro. Più che per aiutare, insomma, spendiamo per difenderci da chi vorremmo aiutare.

Mauro Suttora


"Dobbiamo rispettare le alleanze"
L' esperto spiega perché bisogna armarsi e partire. Andrea Margelletti, del Centro studi internazionali. Con un debito di 1.500 miliardi che senso ha spendere un miliardo di euro all' anno in missioni militari ? "È necessario impegnarsi perché non si ripeta la follia dei talebani. L' Italia ha il dovere di aiutare i popoli meno fortunati che non hanno nemmeno luce, acqua e strade". I sondaggi, però, dicono che la maggioranza degli italiani vuole il ritiro dall' Afghanistan... "La politica estera non la fa la piazza, ma il Parlamento. Si decide col cervello, non con la pancia". Ma contro i terroristi servono navi e sommergibili ? "Fanno parte di una flotta Nato, ci sono alleanze e strategie da rispettare. Lo sa bene la Germania, per esempio, che pur non avendo sbocco nel Mediterraneo ha inviato una nave da guerra davanti al Libano".

"A Kabul ci credono guerrafondai"
È l' opinione di chi si occupa di Cooperazione civile "L'Afghanistan è una missione nata male". Parola di Nino Sergi di Intersos (organizzazione non governativa presente in Afghanistan). "Nel 2001 gli Stati Uniti rifiutarono l' aiuto Nato, attaccando unilateralmente. Nel 2003 ci coinvolsero perché avevano la guerra anche in Iraq e non ce la facevano più. Ci mettono sempre di fronte al fatto compiuto. Noi diciamo "sì" per ragioni di alleanza, ma come Paesi europei abbiamo anche una certa dignità. Ora stiamo rimediando a errori tragici. Ma ormai siamo dentro a un ingranaggio che non può funzionare". Ma i nostri soldati non servono per proteggere voi cooperanti ? "Al contrario: i militari ci creano problemi. I locali ci confondono con loro, pensano che siamo gli stessi: un giorno in divisa e col mitra, un giorno senza. Perciò abbiamo chiesto e ottenuto una netta distinzione dei ruoli".

Wednesday, March 28, 2007

Impero militare Usa

L’impero delle 737 basi militari

Il Diario, 23 marzo 2007

di Mauro Suttora

Altro che Vicenza. Sono 737 in 130 Paesi, le basi militari statunitensi nel mondo. Ufficialmente: in realtà aumentate fino a un migliaio sotto la presidenza di Bush il Piccolo. «Il Pentagono, per esempio, non cita alcuna guarnigione in Kosovo», rivela Chalmers Johnson, massimo esperto mondiale del complesso militare-industriale Usa, «anche se proprio lì c’è la base più costosa mai costruita dall’America dopo la guerra in Vietnam: l'immenso Camp Bondsteel sorto nel 1999 e poi gestito dalla Kellogg, Brown & Root, società privata controllata dalla Halliburton del vicepresidente Dick Cheney. E nei rapporti ufficiali non c’è traccia di basi in Afghanistan, Iraq, Israele, Kuwait, Kirgizistan, Qatar e Uzbekistan, malgrado l’esercito Usa abbia installato colossali basi in tutti questi Paesi dopo l’11 settembre 2001».

È appena uscito negli Usa (e subito entrato nella classifica dei best seller del New York Times) l’ultimo libro di Johnson: “Nemesis: The Last Days of the American Republic”. I due precedenti, “Gli ultimi giorni dell’Impero americano” (2001) e “Le lacrime dell’impero” (2005) sono stati tradotti in Italia da Garzanti.

Ci vuole mezzo milione di persone per far funzionare questo immenso apparato di guarnigioni estere permanenti. Oltre ai 250mila soldati, ci sono altrettanti impiegati civili americani e locali. Il tutto a un costo astronomico. Il bilancio militare Usa ha superato ormai i 500 miliardi di dollari l’anno (700, secondo le organizzazioni pacifiste americane, che includono anche le spese per le pensioni e gli ospedali dei veterani, nonché gli interessi sui debiti di guerra). Per capire l’enormità della cifra, basti dire che le spese militari mondiali ammontano a 1.100 miliardi di dollari. Da soli, quindi, gli Stati Uniti spendono in armi più di tutte le altre nazioni della Terra messe assieme.

Insomma: Vicenza è solo un piccolo tassello di un impero gigantesco, descritto con particolari gustosi da Johnson. Per esempio, il Pentagono è il più grande gestore di campi da golf del mondo: ne gestisce ben 234 in ogni continente per la ricreazione dei propri soldati. Acquista 200 mila confezioni all’anno di creme abbronzanti. Possiede perfino una stazione di sci privata a Garmisch in Baviera, e un hotel di charme riservato agli ufficiali a Tokyo...

Johnson paragona il moderno impero Usa a quelli del passato: l’ateniese, il romano, l’inglese di un secolo fa. E scopre curiose analogie: «Sia Roma, sia l’Inghilterra, contavano su una trentina di basi militari maggiori per controllare i loro domini. Ebbene, è la stessa cifra delle installazioni più grosse che oggi possiedono gli Usa, oltre alla dozzina di portaerei».

Ma il parallelo più pericoloso è quello politico: alla lunga, la predominanza dei militari minò le istituzioni della repubblica romana portando necessariamento all’impero, mentre un senato logoro e corrotto s’inchinò di fronte alle pretese del generale vittorioso, l’«uomo forte». È lo stesso percorso che Johnson vede attuarsi oggi negli Stati Uniti. «Impero», d’altronde, non è più parola tabù a Washington. Ormai non la pronunciano solo Cassandre antimilitariste come Gore Vidal o Noam Chomski, ma anche ammiratori sinceri della nozione imperiale come Niall Ferguson.

Il nuovo libro di Johnson analizza la recente riedizione delle Guerre stellari, progetto fallimentare di Ronald Reagan negli anni ’80. La balzana idea di proteggere (soltanto) Polonia e Repubblica Ceca da improbabili missili di Corea del Nord o Iran serve solo a seminare discordia fra gli alleati europei, e risentimento nella Russia. «Divide et impera», appunto: l’antica regola imperiale. E la Nato assomiglia sempre più alla Lega di Delo, l’«alleanza ineguale» con cui gli ateniesi tennero sottomesse le città greche. Ma solo per trent’anni: dopo, ci fu la ribellione con la guerra del Peloponneso e il declino di Atene.

Curiosamente, sono sempre gli ex militari ad accorgersi per primi dei pericoli del militarismo. Il generale Eisenhower denunciò nel ’61 il «complesso militare-industriale» Usa. Ma anche Johnson è un ex ufficiale della guerra di Corea, nonché consulente Cia dal ’67 al ’73. Conosce insomma i suoi polli, e l’immensa ragnatela dei loro interessi.

Saturday, April 24, 2004

Il neocon Kagan fa marcia indietro

Foglio, sabato 24 aprile 2004 - prima pagina

SAPER FARE LE ALLEANZE

Il Foglio, 24 aprile 2004

di Mauro Suttora

Ora il neocon Kagan dice che Rumsfeld se ne deve andare, e che Bush sa affrontare i nemici ma non gli amici

New York. Robert Kagan, 46 anni, autore del manifesto neocon "Paradiso e potere", ribadisce la sua richiesta: "Donald Rumsfeld se ne deve andare". Ma accanto al segretario della Difesa mette pure il segretario di Stato: "Dopo l'uscita del libro di Bob Woodward anche la posizione di Colin Powell è diventata insostenibile".

Gran folla l'altra sera alla Japan Society per un dibattito fra le due K più prestigiose nella politica estera americana: Kagan e il clintoniano Charles Kupchan, autore nel 2002 di "The End o f the American Era".

"È vero", ammette subito Kagan, "Bush non sta facendo un buon lavoro in Iraq. È stato bravo nell'affermare il diritto alla difesa preventiva, nel sollecitare la riforma del mondo arabo e nell'affrontare con realismo la questione palestinese. Ma non riesce a gestire bene il nuovo mondo unipolare, una situazione confusa e senza precedenti dai tempi dell'impero romano. Occorre coltivare le alleanze, anche con accordi e compromessi, perchè la questione della legittimità conta molto in politica estera: è importante ciò che il mondo pensa di noi, non possiamo ignorarlo.  Dobbiamo riconciliare il nostro potere con l'ordine internazionale, per riassicurare coloro che normalmente starebbero dalla nostra parte".

Parole di moderazione sorprendenti in bocca a un neocon, ma anche Kagan deve fare i conti con gli scricchiolii della Coalizione dei volenterosi: dopo la Spagna, anche la Polonia si è messa a borbottare. "Gli europei comunque non si illudano", avverte, "anche con un eventuale presidente Kerry non sarà automatico trovare un accordo. Ormai fra Europa e America c'è una grande divisione. E prima o poi ci ritroveremo davanti i problemi di Iran e Corea del Nord: rimandarli non significa risolverli. Chi oggi tanto invoca Onu e Consiglio di sicurezza sa bene che questi organismi non hanno mai funzionato. Insomma, si accusa l'amministrazione Bush di aver distrutto una trama di relazioni internazionali che in realtà non era stata mai tessuta, a cominciare dall'intervento in Kosovo non autorizzato dall'Onu".

"Il più grosso equivoco nel quale si cullano gli europei", dice Kagan, "è che la politica estera americana sia improvvisamente caduta in mano a un gruppetto di estremisti. In realtà il desiderio di cacciare Saddam è enormemente condiviso, è sempre esistito un consenso bipartisan su questo. E non c'è voluto l'11 settembre per convincerci. Andate a rileggervi i discorsi di Clinton dal '97 al '99: avrebbe potuto pronunciarli chiunque, nell'attuale amministrazione. E' inutile domandarsi chi scatena le guerre, perchè la risposta non è mai univoca. Chi provocò la guerra contro la Spagna del 1898, per esempio? Teddy Roosevelt, William Randolph Hearst? No, tutti gli Stati Uniti la volevano, non era solo l'isteria di qualcuno, e il presidente William McKinley era popolarissimo. Stesso discorso su Pearl Harbor o il Vietnam, che non fu certo un'avventura solitaria di Robert McNamara".

"Quella del Kosovo fu una guerra illegale ma legittima, questa in Iraq è legale ma illegittima", ribatte Kupchan, "e mi spiego: avrei voluto che l'asticella del livello di pericolo necessario per attaccare preventivamente l'Iraq fosse messa più in alto. La minaccia non era così imminente. Insomma, il concetto di guerra preventiva è giusto, ma è stato sbagliato inaugurarlo con l'Iraq, discreditandolo. Ci siamo bruciati le dita, e ora sarebbe molto più difficile attaccare, che so, la Corea del Nord. Gli Stati Uniti non sono più visti come la soluzione ma come il problema, perchè l'unipolarismo funziona solo se il polo unico è considerato legittimo. La nostra arma principale non sono le  portaerei o gli aerei F16, ma il prestigio. Non è vero che è meglio essere temuti che amati".

Anche Kupchan converge al centro e ammette: "Bush ha fatto cose buone, per esempio l'antiterrorismo non militare: è notevole che da due anni e mezzo non ci siano attentati negli Stati Uniti, anche se prima o poi mi sembra inevitabile che qualcosa accada. Un altro punto su cui Bush ha ragione è che l'Onu limita il nostro potere. È vero, ma è esattamente questo il motivo per cui al resto del mondo l'Onu piace. Cosa ci costava, per esempio, avvertire preventivamente Xavier Solana del nostro sì all'ultimo piano di pace di Ariel Sharon? Dimostriamo una straordinaria assenza di tatto... Ma dò ragione a Kagan: con Kerry non cambierà molto. L'internazionalismo liberal del nordest è ormai tramontato, negli Stati Uniti. E dall'Iraq non possiamo andarcene".
Mauro Suttora

Tuesday, April 29, 2003

Onu/3: disastro Kosovo

Il fallimento delle Nazioni Unite in Kosovo, e i motivi per cui non se ne vogliono andare

Il Foglio, 29 aprile 2003

New York. Molti vorrebbero che l’Onu amministrasse l’Iraq. Ma qual è il bilancio della missione di peacekeeping (“mantenimento della pace”) delle Nazioni Unite in Kosovo?

“Poveri iracheni, se l’Onu arriverà anche da loro”, commenta Beqe Cufaj, 33 anni, giornalista e scrittore kosovaro. Dopo quattro anni di protettorato Onu, infatti, il Kosovo ha ancora l’economia a pezzi. Anzi, con la diminuzione degli aiuti internazionali la situazione sta peggiorando. Ogni giorno l’elettricità manca per ore, anche se le centrali elettriche kosovare non erano state bombardate dalla Nato quattro anni fa. “Prima esportavamo la nostra energia elettrica in Macedonia e Grecia, ora siamo al buio”, ha denunciato il 23 aprile Nexhat Daci, presidente del Parlamento.

Finora l’amministrazione delle Nazioni Unite ha speso nove miliardi di euro per ricostruire il Kosovo. Ma molti soldi sono finiti nel nulla sta per iniziare il processo contro Joseph Trutschler, un tedesco 36enne nominato presidente della società elettrica kosovara, accusato per tangenti da quattro milioni e mezzo di euro.

A capo della missione Unmik (United Nations Mission Kosovo) c’è da un anno il 53enne tedesco Michael Steiner, un diplomatico succeduto all’altrettanto opaco danese Hans Haekkerup, che resistette solo pochi mesi. Prima di loro si era misurato con il Kosovo il francese Bernard Kouchner.

Questo turbinio di capi si aggiunge a quello delle sigle. L’Onu ha infatti delegato alla Ue la ricostruzione e lo sviluppo economico, mentre il compito di riorganizzare la vita politica è stato subappaltato all’Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), ente dalla dubbia utilità con sede a Vienna è un’ossificazione della Conferenza di Helsinki del 1975, sopravvissuto alla fine del loro la guerra fredda.

L’Osce ha in qualche modo portato a termine il suo compito, con i suoi 1.500 dipendenti ha organizzato le elezioni locali e poi le politiche nel 2001, che hanno eletto presidente Ibrahim Rugova. Presidente di che cosa, però, non si sa bene, perché lo status del Kosovo è ancora tutto da decifrare in teoria fa ancora parte della federazione Serbia-Montenegro, ma nella realtà è ormai indipendente. Resta la questione della minoranza serba nella zona settentrionale di Mitrovica, bubbone che l’Onu si guarda bene dall’affrontare.

Nella vita quotidiana, le Nazioni Unite gestiscono direttamente polizia, giustizia e amministrazione civile. Ma nessuno osa fare più previsioni sulla durata del mandato Onu. Il partito di Rugova continua a litigare con quello del rivale Hashim Thaci, e non si sa che cosa succederebbe se partissero i 30 mila soldati Nato (fra i quali settemila statunitensi e quattromila italiani) e i 4.389 poliziotti Onu ancora stanziati in Kosovo.

La composizione della polizia è esoticissima: fra gli altri, ci sono 84 agenti del Bangladesh, 500 indiani, 426 giordani, 16 senegalesi, 124 polacchi, 62 filippini, quattro kirghisi, cinque vengono addirittura dall’isola di Mauritius e ben 34 dalle isole Figi. Gli italiani sono 58. Un unico belga. Insomma, un vero e proprio Palazzo di Vetro trasferito sul campo.

Gli indiani sembrano andare d’accordo con i 182 pakistani. L’arruolamento, visti gli stipendi, è particolarmente attraente per i poliziotti del terzo mondo. I 522 statunitensi e gli altri europei occidentali, invece, provengono soprattutto dalla pensione. In che lingua riescano a comunicare fra di loro, non è dato sapere. Quanto alla loro efficacia, le rudi bande del leggendario crimine organizzato balcanico e i contrabbandieri albanesi sembrano abbastanza soddisfatti dell’attuale situazione.

Nel suo ultimo rapporto del 14 aprile, fatto proprio da Kofi Annan, il povero Steiner ammette che nei primi tre mesi del 2003 la criminalità è aumentata difficile parlare di Stato di diritto, gli assalti con granate contro la polizia sono all’ordine del giorno anche a Pec, nel settore in teoria sotto il controllo italiano. Nei 57 nuovi tribunali si è già accumulato un arretrato di 13 mila cause civili e 11 mila penali. Anche perché ogni documento dev’essere tradotto in quattro lingue inglese, albanese, serbo e turco. “Riusciamo a punire il 21 per cento dei reati contro la proprietà, una quota maggiore rispetto a molti paesi europei”, si consola l’Onu.

L’arresto di alcuni membri del Kla (Esercito di liberazione del Kosovo) da parte del Tribunale dell’Aia ha provocato nelle settimane scorse dimostrazioni di protesta in tutto il paese. Il partito di Thaci è un’emanazione del Kla, e tuttora il vero potere locale resta nelle mani dei suoi uomini, armati. Il partito di Rugova si oppone al disegno di Thaci di far arruolare in blocco gli ex partigiani del Kla nell’esercito regolare kosovaro e nella polizia. Così non c’è verso di far decollare un esercito accettato da tutti.

Gli ex guerriglieri continuano a controllare 59 caserme e postazioni, contro un piano quinquennale che si proponeva di ridurle a 27. Quanto al sogno di un “esercito multietnico” coltivato dalle ingenue Nazioni Unite, non se ne vedrà mai l’ombra a nessun serbo passa per la testa di arruolarsi nelle forze armate dei nemici.

Naturalmente anche il Kosovo, come ogni area di crisi umanitaria, ha subìto un’invasione da parte delle Ong (Organizzazioni non governative) se ne sono registrate ben 2.292, di cui 381 straniere. Tutte alla costante ricerca di fondi – per lo più pubblici – con i quali far funzionare il proprio apparato. Intanto l’Onu, invece di esercitare una salubre autocritica sui suoi fallimenti, se la prende con i giornalisti locali sono stati comminati 51 mila euro di multa ai giornali che hanno pubblicato articoli sgraditi (“Titoli infiammatori e sensazionalisti”, accusa la censura del Minculpop onusiano, e speriamo che la sua giurisdizione non si estenda anche al Foglio…).

L’economia kosovara non si risolleva. L’amministrazione Onu-Ue, invece di favorire una rapida privatizzazione che valorizzi l’innato spirito d’iniziativa individuale della gente locale, mette i bastoni fra le ruote finora ha privatizzato solo sei aziende sulle 480 lasciate in eredità dal comunismo jugoslavo. “I burocrati internazionali sono rimasti gli ultimi nostalgici dell’economia pianificata”, accusa il giornale di Pristina Koha Ditore.

La principale preoccupazione dell’Onu sembra quella di garantire la non discriminazione della minoranza serba, invece di affrontare alla radice un problema insolubile e proporre uno scambio territoriale alla Serbia è evidente, infatti, che la provincia di Mitrovica non ne vuole sapere di rimanere in un Kosovo dominato dagli albanesi. I serbi rifiutano perfino le nuove targhe automobilistiche kosovare preferiscono tenere quelle vecchie con la stella rossa, che permettono loro di viaggiare liberamente in Serbia (oltre che di risparmiare sull’assicurazione).

Per tutti gli anni Novanta i kosovari perseguitati da Slobodan Milosevic avevano sviluppato una rete di resistenza clandestina formata da istituzioni parallele scuole e università in lingua albanese, ambulatori, servizi di assistenza. Ora i serbi kosovari si vendicano, e praticano a loro volta il boicottaggio delle istituzioni ufficiali. L’Onu deve così tollerare uffici serbi in teoria vietati dalla risoluzione 1244 del 1999 che pose fine al conflitto, con dodici impiegati delle Poste nel paese di Kamenica i quali prendono ancora lo stipendio dalla Serbia, e altri dipendenti pubblici di uffici di collocamento e dell’anagrafe che continuano imperterriti a obbedire a Belgrado invece che a Pristina.

Quanto ai politici kosovari, rifiutano tuttora ogni contatto diretto con il governo serbo. Il presidente del Parlamento kosovaro Daci è durissimo: “L’Onu vorrebbe restare qui ancora per un secolo. Perché dovrebbero andarsene? Prendono stipendi molto più alti che nei loro paesi, le nostre donne sono belle e abbiamo i migliori ristoranti della regione. All’Occidente avevamo chiesto professionisti, e invece loro ci hanno mandato politici e burocrati del diciannovesimo secolo. Non vogliamo che l’Onu se ne vada domani, ma che acceleri il trasferimento delle competenze e riduca drasticamente il suo staff. Dicono che i nostri politici litigano fra di loro? E ci mancherebbe altro non è proprio questa, la democrazia?"

Continua Daci: "Non abbiamo bisogno né di zar né di dei calati dall’esterno. E che i diecimila dipendenti Onu in Kosovo la smettano di spedire a New York rapporti falsi, per farsi belli. Abbiamo bisogno soltanto di poche centinaia di esperti tecnici, non di decine di migliaia di funzionari il cui unico contributo alla nostra economia è quello di drogarla ormai il trenta per cento delle nostre entrate dipende dagli aiuti internazionali. Il mio stipendio è inferiore a quello di una qualsiasi donna delle pulizie pagata dall’Onu per lavorare nei suoi uffici di Pristina. E i giovani assunti come traduttori dalle Nazioni Unite guadagnano 750 dollari al mese, mentre un professore universitario ne prende cento”.
(3. continua)
Mauro Suttora

Friday, October 20, 2000

Antonio Russo ucciso in Cecenia

settimanale Diario

20 ottobre 2000

di Mauro Suttora

Milano. De mortuis nisi bene? No, si può anche parlar male di Antonio Russo, 40 anni, da Francavilla al Mare (Chieti). Aveva un caratteraccio, sembrava un barbone, un disadattato che vagava per il mondo, non era equilibrato nei suoi giudizi politici, parteggiava sempre sfrenatamente per una delle parti in causa, prima di essere un giornalista era un radicale.

Ma mi piaceva proprio per questo. E anche per un particolare solo apparentemente secondario: non lavorava assieme agli altri giornalisti. «Pour exister il faut qu’ils se mettent à plusieurs»: il gregge stigmatizzato da Jean-Paul Sartre nella Nausea è la triste normalità dei giornalisti italiani sui fronti di guerra. Tutti in gruppo, sempre: un po’ perché è pericoloso, un po’ perché qualcuno non sa bene le lingue, un po’ per non rischiare di prendere buchi. Ma soprattutto per comodità, viltà, pigrizia, conformismo.

Antonio Russo invece era un lupo solitario. Non era un fighetto con la sahariana e le note spese facili: anche perché Radio Radicale non ha i soldi per mandare i suoi reporter negli alberghi a cinque stelle. E neanche in quelli a tre. Cosicché lui si faceva ospitare da qualche abitante del luogo di cui diventava amico, e si infrattava. Nel senso che rimaneva sul posto per mesi. È successo così dappertutto: la Colombia dei narcos, l’Algeria degli sgozzati, il Ruanda dei trucidati, la Sarajevo dei cecchinati.

SENZA TESSERA

Si immedesimava nella vita degli abitanti del posto, perché la condivideva. Dopo quasi un anno trascorso nel Kosovo, aveva perfino imparato l’albanese. Con la sua faccia patibolare, con quella cicatrice rimediata chissà dove, con quegli stracci di vestiti che indossava, era diventato lui stesso un kosovaro. Non per nulla riuscì a nascondersi per molti giorni a Pristina, fra i rastrellamenti serbi e sotto le bombe Nato, e poi scappò in Macedonia sul treno dei deportati senza essere individuato.

Sua madre lo aspettava in Italia, ma lui non aveva mai voglia di tornare. Mandava lunghi reportage per telefono a Radio Radicale, e confesso che quando li ascoltavo di primo mattino a volte mi assopivo, cullato dal suo accento abruzzese. Era buffo quando tentava di applicare al conflitto kosovaro o a quello ceceno (dispute fra bande medievali, essenzialmente) analisi raffinate e usava locuzioni come «si ipotizza in ambienti diplomatici…».

No, lui quegli ambienti proprio non li frequentava, una volta lo cacciarono da una conferenza stampa nel migliore albergo di Pristina perché… sembrava un albanese. E perché non aveva la tessera da giornalista. Come tutti i free lance e i cooperatori delle Ong che sognano di farlo, il giornalista, inseguiva l’iscrizione all’Ordine. Ma poi partiva sempre.

L’ultima volta per la Cecenia: la fine del millennio l’ha festeggiata lì, fra le nevi del Caucaso, attaccato al telefono con Radio Radicale. Dieci mesi dopo era ancora da quelle parti, sempre in quei posti inutili che non fanno più notizia. Ma lui si affezionava a quelli che gli offrivano un letto e un pranzo. E ce li raccontava.

Mauro Suttora