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Tuesday, April 22, 2003

Onu/2: disastro Unesco

L’Unesco colleziona critiche, sprechi e quintali di carta griffata Onu. Tornano gli Stati Uniti. Basterà?

Il Foglio, 22 aprile 2003

di Mauro Suttora

New York. Tutto merito di Laura Bush, moglie di George W. Ex maestra elementare e bibliotecaria, ha convinto il presidente, contro l’opinione dei neoconservative, a far rientrare gli Stati Uniti nell’Unesco (United Nations Educational, Scientific and Cultural Organisation), dopo ben 18 anni di polemicissimo autoesilio. E così, nel discorso del 12 settembre 2002 all’Onu, passato alla storia per l’annuncio della nuova strategia della guerra preventiva, Bush ha anche promesso che gli Stati Uniti torneranno dall’ottobre 2003 nell’organismo che ha sede a Parigi.

La pace Stati Uniti-Unesco è stata ufficializzata il 13 febbraio scorso, con una cena solenne nella Public Library di New York il segretario generale dell’Onu, Kofi Annan, ha nominato la signora Bush ambasciatrice onoraria per il Decennio dell’Alfabetizzazione. Non che sia un grande onore: gli ambasciatori Unesco sono ben 37, e si va da Giancarlo Elia Valori a Pelè, da Claudia Cardinale a Pierre Cardin, da Catherine Deneuve a Renzo Piano. Ma la signora Bush è contenta, anche perché appena arrivata alla Casa Bianca aveva lanciato pure lei un suo programma “Ready to Read, Ready to Learn” (“Pronti a leggere, pronti a imparare”, peccato che traducendo si perda il gioco di parole).

Nel 1984 Ronald Reagan e l’anno dopo Margaret Thatcher fecero uscire Stati Uniti e Gran Bretagna dall’Unesco. Anche Singapore se ne andò. Gli inglesi sono rientrati nel ’97. E ora, in barba a tutte le accuse di unilateralismo, pure gli Stati Uniti tornano. E’ singolare che la mossa venga attuata da un’Amministrazione repubblicana. Ma l’apertura durante gli anni di Bill Clinton era resa impossibile dalle perduranti malversazioni: “L’Unesco ha ancora troppi problemi”, sentenziò la segretaria di Stato, Madeleine Albright, nel ’97.

L’Unesco è l’agenzia Onu che ha ricevuto più critiche durante i suoi 57 anni di vita. Il nuovo direttore generale giapponese Koichiro Matsuura, 66 anni, subentrato nel ’99 alle sciagurate gestioni del senegalese Amadou-Mahtar M’Bow e dello spagnolo Federico Mayor, sostiene di essere riuscito a dimezzarne l’esorbitante staff dirigenziale. “In realtà, confrontando il bilancio 2003 con quello del ’99, si legge che i dirigenti sono calati appena da 110 a 103. E che i 782 alti funzionari in carica cinque anni fa si sono ridotti soltanto di 40 unità”, avverte Brett Schaefer della Heritage Foundation, acerrimo avversario dell’Unesco.

Matsuura getta la croce su Mayor: “Ho ereditato un’organizzazione in pessime condizioni. In termini di management, era molto peggio di ciò che mi aspettavo. Il mio predecessore si era circondato di una trentina di consiglieri personali, cinque dei quali molto potenti. Spacciati per consulenti, in realtà avevano più potere dei vicedirettori generali. Erano totalmente fedeli al direttore generale, ma non necessariamente all’organizzazione”. Matsuura li ha confinati in cantina, aspettando che scadessero i loro contratti annuali.

Ma anche i dirigenti si erano moltiplicati vergognosamente: 200, quasi il doppio rispetto all’organico ufficiale (e questo spiega la discrepanza rilevata da Schaefer), molti dei quali nominati per raccomandazione politica, senza concorso. “Ai 20 di loro che erano stati promossi all’ultimo minuto ho annullato la promozione”, dice il tremendo giapponese, “agli altri ho dato incentivi per andarsene”.

L’Unesco spende 272 milioni di dollari all’anno. I dipendenti a tempo pieno, che erano 400 nel ’60, oggi sono quasi 2 mila. Ma la vera greppia sono consulenze (spesso agli ex dirigenti, che vanno in pensione a 60 anni) e contratti a termine. Il 60 per cento del bilancio finisce in stipendi, in alcuni casi la percentuale dei costi di struttura ha raggiunto l’80 per cento.

Tre anni fa Matsuura ha dovuto affrontare perfino uno sciopero della fame di dieci giorni da parte dei dirigenti che aveva retrocesso. E solo nel 2001 è riuscito a chiudere una rivista mensile che perdeva undici miliardi di lire all’anno: un miliardo a numero. Il principale problema dell’Unesco è che la sede centrale sta in una città molto bella, per cui i dipendenti sul campo appena possono si fanno trasferire a Parigi. Così i tre quarti del personale ingrossano le fila di una burocrazia centrale esorbitante, superiore anche ai due terzi dei dipendenti Fao concentrati a Roma.

Ma americani e inglesi se n’erano andati per motivi politici, oltre che gestionali. Negli anni 80, infatti, l’Unione Sovietica e i suoi satelliti volevano colorare di rosso i programmi culturali ed educativi dell’organizzazione. Si vagheggiava un orwelliano “nuovo ordinamento mondiale dell’informazione e della comunicazione”, che avrebbe dovuto ufficializzare la censura dei media da parte delle dittature del Terzo mondo, con la scusa che giornali e tv del Primo mondo non sarebbero liberi in quanto in mano a poteri forti industriali e finanziari (ritornello familiare anche in Italia).

Alla fine il piano è finito nel cestino. Gli Stati Uniti, accettando di rientrare, si accolleranno 60 milioni di dollari annui che corrispondono al 22 per cento del bilancio. Le spese Unesco, dopo anni di vacche magre, potranno aumentare del 12 per cento. C’è stata battaglia, all’ultima riunione dell’Ufficio esecutivo di aprile: i più rigorosi non avrebbero voluto allargare i cordoni della borsa. Alla fine, però, è prevalsa l’euforia per il ritorno degli odiati/amati americani.

Ma come mai l’Amministrazione Bush ha cambiato idea? “Gli Stati Uniti hanno bisogno anche dell’Unesco e dei suoi programmi educativi per controbilanciare le campagne di odio verso gli ideali occidentali che riescono a farsi strada solo se prevale l’ignoranza”, dicono le “colombe” del Congresso a Washington.

L’Unesco produce tonnellate di documenti che nessuno legge, e ha nostalgia dei piani quinquennali sovietici. Attualmente è in corso il Decennio dell’Alfabetizzazione, che si propone di dimezzare gli 861 milioni di analfabeti (che esattezza sospetta!) entro il 2013. Altri Decenni si intersecano fra loro, come quello per i Popoli indigeni (1995-2004) e quello per la Pace (2001-10). Vengono inoltre proclamate Giornate (proprio domani c’è quella “del libro e del diritto d’autore”), Settimane (dal 6 al 13 aprile si festeggiava l’Educazione per Tutti, che deve raggiungere i sei obiettivi stabiliti in un congresso a Dakar due anni fa), e il 2003 è l’Anno dell’Acqua Dolce.

L’Unesco tende a occuparsi di tutto: educazione familiare e della prima infanzia, strutture edilizie, introduzione ai computer, assistenza d’emergenza, programmi per donne in Africa, studi di specializzazione, insegnamento dell’“inclusione”, introduzione alla nonviolenza, corsi di sradicamento della povertà, istruzione secondaria, scuole elementari, scienza e tecnologia, bambini che lavorano o abbandonati in strada, scambi culturali con l’estero, sviluppo sostenibile, e chi più ne ha più ne metta.

“Mancanza di focus e mission”, direbbero gli esperti di marketing se si trattasse di un’impresa privata. Gran parte di questa programmazione disordinata e a pioggia, oltretutto, è un doppione rispetto a iniziative private o di altre agenzie Onu. Ma poiché lo scopo sottinteso dell’Unesco è quello di strappare schiere di sociologi e intellettuali alla disoccupazione, la sua missione può dirsi compiuta.
(2. continua)
Mauro Suttora