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Saturday, March 30, 2019

La linea del Piave grillina: 19%

CAOS M5S/ IL 19,9% È LA LINEA DEL PIAVE: CHE SIGNIFICA LA MORTE DI DI MAIO (E RAGGI)

Il Movimento 5 Stelle si dibatte in una crisi interna ed esterna: se non supera le elezioni europee è la fine

29 marzo 2019

intervista a Mauro Suttora


Le elezioni europee rappresentano l'ultima ancora di salvataggio di un Movimento 5 Stelle ormai allo sfascio. 
Lo dice Mauro Suttora, giornalista, esperto delle dinamiche interne dei pentastellati: “Se scendono al 19,9% Di Maio è morto internamente ed esternamente, se vanno tra il 20 e il 25% possono galleggiare ancora un po’”. 
Le continue débâcle a livello regionale mostrano i segnali. Prima delle europee ci sono le elezioni comunali in Sicilia, dice ancora Suttora: “A Bagheria, uno dei primi comuni conquistati dai 5 Stelle, gli avvisi di garanzia per abusi edilizi ad assessori e consiglieri in questi anni si sono sprecati. Sarà una batosta che aprirà la strada anche al crollo di Roma”.

Di Maio è negli Stati Uniti. Ci è andato per ricucire i rapporti dopo le critiche americane per la firma del memorandum con la Cina?

Il viaggio è stato programmato da tempo, prima del disastro Cina. C’è da chiedersi invece chi riuscirà a vedere: se riesce a farsi ricevere dal consigliere per la sicurezza John Bolton è un successo. Di Maio cerca ogni volta di accreditarsi, ma in America non lo prende sul serio nessuno. Se poi parla con Bolton, che è un mastino neocon, lo riduce in polpette.

Ha definito la firma del memorandum “disastro”. Quella firma è stata un guaio del trio Conte-Di Maio-Geraci?

Il memorandum Cina è in mano al sottosegretario Michele Geraci, un personaggio dal curriculum strano, come tanti di questi nuovi, compreso il premier Conte. Probabilmente non si rendevano conto neanche loro di quello che hanno fatto, cioè il cavallo di Troia della Cina in Europa.

In che senso?

Non è tanto il numero dei contratti, tutti hanno diritto di farli, infatti anche Macron ha firmato una fornitura di Airbus per centinaia di milioni di euro, quanto la visione politica che non sta in piedi. La Via della Seta significa la seta cinese che arriva in Italia, non la seta italiana che va da loro.

Geraci è quello che ha messo in piedi questo “disastro”?

L’accordo è stato un'invenzione di Geraci, di cui si è fidato inizialmente anche Salvini che però negli ultimi tempi, ben istruito da Giorgetti, uno dei pochi con la testa sulle spalle, si è tirato indietro. Invece Di Maio ci è caduto dentro mani e piedi.

Ci sono evidenti malumori interni ai 5 Stelle. Quali correnti ci sono? E’ Fico a spingere?

Fico non conta un fico, non ha dietro nessuna corrente nonostante i giornali ci abbiano fantasticato per mesi, sono al massimo due o tre i senatori che gli vanno dietro. 
Ci sono piccoli movimenti interni, come il caso di Paragone, che però suscita fastidio a quelli della vecchia guardia che si vedono scavalcati da uno che è diventato grillino da un anno.

Ma i malumori ci sono. Il caso Di Battista è poi a dir poco inquietante.

C’è un ribollire da vulcano, ma come sempre viene tenuto nascosto. Di Battista per cinque anni ci ha deliziato di tre post e video al giorno, ma  improvvisamente finisce come un desaparecido. E’ evidente che dopo i disastri elettorali lo hanno messo a tacere, e lui obbedisce. 
Di Battista, come ha detto sprezzante Di Maio definendolo il primo degli attivisti, è uno che tira fuori 100mila like a ogni post. Ma ha garantito e promesso a Di Maio e Casaleggio fedeltà assoluta e piuttosto che dire qualcosa contro, sta zitto. Ogni volta che sta zitto vuol dire che ha qualcosa contro che vorrebbe dire, ma non può farlo.

Come andranno le elezioni regionali per il M5s?

Prima delle europee ci sono le comunali in Sicilia a fine aprile. Sarà un’ulteriore batosta. A Bagheria che è una città importante i grillini hanno il sindaco da 5 anni e ci sono stati avvisi di garanzia con assessori che si sono dovuti dimettere per abusi edilizi. 
Alle europee la linea del Piave è il 19,9%, che significa la morte di Di Maio dentro al movimento e fuori. Dal 20 al 25% galleggiano, oltre il 25 sarebbe un successo insperato.

La compagine di governo è compatta?

I ministri si godono la poltrona. Sono quelli che se dovesse cadere il governo rimarrebbero fedeli a Di Maio.

Hanno un piano B per risollevarsi?

Fino al 26 maggio nessuno oserà dire nulla. L’intervista rilasciata da Roberta Lombardi in cui dice che lo stadio di Roma bisogna mollarlo, mentre Virginia Raggi dice che bisogna tenerlo, mostra la completa contraddizione in cui si trovano.

A proposito di Roma, dopo l'arresto del presidente grillino del consiglio comunale Marcello De Vito sembra che la Raggi abbia incassato bene il colpo. O no? Che succederà a Roma?

Assolutamente no. La Raggi non arriva a fine legislatura, cadrà insieme al patatrac che ci sarà a livello nazionale. La stessa Lombardi ha detto che è inutile illudersi, De Vito aveva messo a stipendio grillino la moglie come assessore di municipio e la sorella consigliere regionale. Tutto questo in un partito che aveva sempre detto di essere contro i favoritismi di famiglia. La Raggi cercherà di tener duro fino alle europee, ma non arriverà a fine anno. 

© RIPRODUZIONE RISERVATA

Friday, September 05, 2008

Khalilzad presidente dell'Afghanistan?

L'ambasciatore Usa all'Onu vuole succedere a Karzai

Il Foglio, 3 settembre 2008

di Mauro Suttora

Quella di presidente dell’Afghanistan è una delle poltrone meno salubri del mondo. L’elegantissimo Hamid Karzai, che la occupa da sette anni, ha subìto finora quattro attentati. L’ultimo quattro mesi fa: un bambino di dieci anni e altre due persone sono state uccise al suo posto. “Presidente dell’Afghanistan”, poi, è una parola grossa. Per il territorio che realmente controlla, molti lo definiscono “sindaco di Kabul”.

Eppure c’è un uomo che non vede l’ora di partecipare alla prossima elezione presidenziale in Afghanistan. Si terrà cinque anni dopo la precedente, quella dell’ottobre 2004 che fu la prima democratica nei cinquemila anni di storia del Paese. Non si sa bene ancora quando. C’è stata una lunga disputa per fissare la data, d’altronde in Afghanistan si litiga su tutto. Le scorse elezioni erano costate tantissimo, 350 milioni di dollari donati dalla comunità internazionale, e dopo pochi mesi si rivotò per il Parlamento. Così i pragmatici hanno proposto di accorpare i prossimi voti, allungando di qualche mese il mandato di Karzai e accorciando di altrettanto quello dei parlamentari. Niente da fare, compromesso fallito. Si voterà quindi separatamente, cominciando con le presidenziali nella seconda metà del 2009. Poiché autunno e inverno sono stagioni proibitive nelle montagne afghane, al massimo all’inizio di ottobre.

L’uomo che già si scalda i muscoli per scalzare Karzai vive a Manhattan, ha 57 anni e si chiama Zalmay Khalilzad, confidenzialmente Zal. Da due anni è ambasciatore degli Stati Uniti all’Onu. Prima lo è stato per due anni in Iraq. Prima ancora, per due anni ambasciatore Usa in Afghanistan. Adesso, sta facendo imbestialire i suoi superiori al Dipartimento di Stato perché tutti si accorgono che si sta preparando al suo prossimo lavoro, invece di obbedire agli ordini dei tanti vicesegretari e sottosegretari che affollano il Foggy Bottom statunitense.

Fa bene Zal a mandarli a quel paese? Lui di Afghanistan ne sa più di tutti, semplicemente perché è afghano. Di etnia pashtun, come Karzai, anche se è nato nel nord, a Mazar i Sharif, mentre l’elegantissimo viene da una tribù altrettanto ricca ma meridionale, da Kandahar. I padri li spedirono entrambi a fare il liceo a Kabul, e loro non s’incrociarono solo per la differenza d’età, sei anni.

Zal nel ’67 finì in California, uno delle centinaia di “exchange student” dell’Afs (American Field Service). Un anno da senior nella high school della città di Modesto, nome agli antipodi della sua prorompente personalità. Ma invece di diventare figlio dei fiori e consigliare ai suoi coetanei californiani peace&love i migliori indirizzi dove procurarsi hashish afghano, Zal si è trasformato nel più militarista fra i falchi. Merito o colpa del leggendario professor Albert Wohlstetter dell’università di Chicago, che oltre a Zal ha covato Paul Wolfowitz e tutta una nidiata di futuri neocon.

Ora i neocon non vanno più di moda a Washington, e comunque in questi pochi mesi di residua presidenza Bush tutti gli alti gradi del Dipartimento di Stato stanno pensando al loro prossimo job. Molti faranno come fece Zal dal ’92 al 2000, durante l’era Clinton, e reperiranno qualche think tank da cui farsi mantenere. Lui, dopo aver servito sotto Dick Cheney e Wolfowitz nelle presidenze Reagan e Bush senior, non ebbe problemi a farsi dare un posto alla Rand Corporation, visto che era uno dei maggiori esperti di Afghanistan. Fu Zal per tutti gli anni Ottanta a coordinare gli aiuti militari Usa ai mujaheddin, che fecero impazzire gli occupanti sovietici.

Nessuno lo ha ancora superato negli Stati Uniti, come fine conoscitore dei meandri tribali afghani. Non si capisce quindi a quale titolo John Negroponte, suo predecessore sia all’Onu, sia all’ambasciata di Baghdad, e ora vice di Condi Rice allo State Department, gli faccia mandare umilianti e pubbliche e-mail di richiamo (in copia per conoscenza a New York Times e Washington Post) con l’accusa di condurre una “diplomazia personale”.
Certo, non è un mistero che da mesi i suoi amici afghani preparino per lui un comitato elettorale a Kabul. Raccolgono fondi, organizzano riunioni, li si può addirittura incontrare ogni giovedì a pranzo nell’hotel Serena. Karzai è furibondo.

D’altra parte, è sicuro che Zal da gennaio sarà disoccupato, perché né Obama né McCain rinnoveranno il mandato a uno che sul tavolo del suo alloggio all’hotel Waldorf-Astoria tiene come simpatico souvenir, invece della famosa pistola del predecessore John Bolton sulla scrivania dell’Onu, un fucile d’assalto AK-47 proveniente dall’arsenale di Saddam Hussein. Perché sono fatti così i neocon, ancora meno in auge nelle ultime settimane dopo i débordements del loro protegé georgiano Saakashvili: magari sbruffoni, ma adorabili viveurs capaci di perdere la presidenza della Banca Mondiale per un’amante (Wolfowitz), la rappresentanza alle Nazioni Unite per una battuta di troppo (Bolton), e adesso la guida dell’Afghanistan per una sfacciataggine eccessiva (Zal).

Dicono che Khalilzad stia antipatico a Negroponte ma simpatico a Condi, che il suo ex mentore Cheney non lo possa più sopportare ma che Bush in persona ne apprezzi ancora la personalità “larger than life”. Sicuramente più larga di quella del povero Andrew Young, il primo ambasciatore Usa di colore all’Onu nominato da Jimmy Carter, che perse il posto nel ’79 per lo stesso sgarro imputato a Zal: diplomazia “personale” e contatti allora vietatissimi con i palestinesi dell’Olp.

La verità è che Zal se ne fotte allegramente, della diplomazia. Se ne è sempre fottuto. Soprattutto di quella di carriera, dei frustrati del Dipartimento di Stato che pretendono di compilare dossier sull’Afghanistan sapendo solo quattro parole di pashtun. Ma anche dell’inutile macchina dell’Onu, che sta rendendo lui un frustrato, e che lo annoia profondamente. Lo scorso gennaio i burocrati dello “State” lo avevano perfino escluso dalla delegazione americana a Davos. Allora Zal è andato per conto suo in Svizzera, e ha fatto imbestialire tutti gli “assistant” e i “deputy” segretari di Stato partecipando a un dibattito con Manouchehr Mottaki, ministro degli Esteri iraniano. Lo hanno accusato quasi di intelligenza col nemico, lui che a ogni dibattito nel Palazzo di vetro si trova isolato nel chiedere inasprimenti delle sanzioni contro l’Iran.

Ma fin qui, le intemperanze di Zal sono passabili. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, la scorsa settimana, è stata invece la rinnovata consuetudine con Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto e da mezzo mese candidato a succedere a Pervez Musharraf alla guida del Pakistan.

Anche qui, il fiuto di Zal è innegabile. Da dieci anni era diventato amico di Benazir e del suo discusso marito, cenando con loro a Londra, New York o Ginevra, e viaggiando con la coppia sull’aereo privato verso Aspen.
Scommessa riuscita, perché se Benazir non fosse stata falciata dall’attentato dello scorso dicembre, ora presidente del Pakistan sarebbe lei. «Ma gli Stati Uniti adesso sono neutrali nelle presidenziali pakistane, tu non puoi dare consigli e aiuti a Zardari», ha scritto tramite e-mail l’assistente segretario Richard Boucher a Zal. Così quest’ultimo ha dovuto annullare all’ultimo momento un incontro privato con Zardari a Dubai.

Insomma, per gli Stati Uniti il dilemma è: affidare posti di governo importanti a stranieri naturalizzati, capitalizzando la loro preziosa esperienza ma rischiando figuracce come quella con l’iracheno Ahmed Chalabi? Oppure vietare ai cittadini provenienti da una nazione di occuparsi del proprio Paese d’origine, come fanno le diplomazie britannica, australiana, canadese e neozelandese?

Zal è un seduttore nato, e all’Onu ha affascinato molti: “Ci consulta sempre, non è il solito americano aggressivo”, lo loda l’ambasciatore sudafricano. Ma quelli americani in Afghanistan, Pakistan e Iraq lo detestano, perché si sentono scavalcati da questo afghano elegante e brillante: parla troppe lingue misteriose a loro sconosciute. E non capiscono bene quanto sia intelligente, o furbo, o leale. E a chi.

Mauro Suttora

Tuesday, February 26, 2008

Josette Sheeran, un'americana a Roma

JOSETTE SHEERAN, UN’AMERICANA A ROMA PER CONTO DI BUSH

Chi è il nuovo direttore del Pam (Programma alimentare mondiale)

Il Foglio, sabato 23 febbraio 2008

di Mauro Suttora

Una delle eredità positive che George Bush lascerà a fine mandato fra un anno si chiama Josette Sheeran. È una bella signora bionda di 53 anni che da nove mesi si è trasferita a Roma per dirigere il Pam (Programma alimentare mondiale, Wfp nell’acronimo inglese), una delle agenzie più efficienti dell’Onu: vanta appena il sette per cento in costi di struttura.

Una decina digiorni fa la Sheeran ha effettuato la sua prima uscita pubblica in Italia. A Milano, dove, assieme al sindaco Letizia Moratti, al giocatore del Milan Ricardo Kakà e al presidente del Ghana, ha lanciato la campagna “Fill the cup” (riempi la tazza), con cui il Pam incita a donare ogni giorno venti centesimi per sconfiggere la piaga della fame nel mondo. “Venti centesimi garantiscono un pasto caldo a ognuno dei venti milioni di bambini che assistiamo, facendoli anche andare a scuola», ha detto Josette Sheeran.

Quest’anno il Pam fornisce aiuto alimentare a oltre 70 milioni di persone in circa 80 paesi. È il più grande organismo umanitario mondiale. Dalla sede di Roma (vicino a Fiumicino) e dalla base operativa di Brindisi (dove stanno i magazzini con le scorte alimentari, e da dove sono pronti a decollare gli aerei per le emergenze) partono gli aiuti che fanno sopravvivere popolazioni intere. Tutto il Darfur, per esempio, da anni ormai purtroppo dipende totalmente dal Pam.

La Sheeran è la più giovane fra le tre donne attualmente alla guida di un’agenzia Onu. Le altre sono le sessantenni Louise Arbour (la canadese ex pm del tribunale internazionale dell’Aia che quattro anni fa soffiò ad Emma Bonino il posto di Alta commissaria per i diritti umani) e Margaret Chang, una cinese alla testa dell’Oms (Organizzazione mondiale della sanità).

Il suo curriculum è interessante. Tutta la sua vita pubblica, infatti, si svolge a destra. Nel 1975 fece notizia, appena ventunenne. Un anno prima di laurearsi all’università del Colorado finì sul settimanale Time perché suo padre denunciò la setta del reverendo coreano Moon (quella della moglie del vescovo Milingo) per avergli plagiato le tre figlie, fra cui Josette. La quale nella setta Moon c’è rimasta ventidue anni, facendo una gran carriera come giornalista. Approdata al quotidiano moonista conservatore Washington Times nell’82, ne è uscita solo nel ’97 con il grado di managing editor (vicedirettrice). Ha ricevuto una nomination per il premio Pulitzer, del quale è stata poi giurata.

Dieci anni fa la rottura con Moon: Sheeran passa alla chiesa episcopale, e contemporaneamente William Bennett, già ministro reaganiano dell’Istruzione, le offre la presidenza del suo think tank di destra Empower America, che oggi si chiama Freedom Works. Slogan: “Meno stato, meno tasse, più libertà”. Nel ’99, un tuffo a Wall Street: la poliedrica Josette diventa managing director di Tis Worldwide, multinazionale informatica con 1.200 dipendenti.

Un’esperienza manageriale che le torna preziosa quando l’amministrazione Bush la richiama a Washington nel 2001, collocandola in posizione di rilievo al Commercio estero. Lì Sheeran fa la sherpa ai vertici G8, familiarizza con la finanza internazionale e diventa numero due. Nel 2005, infine, l’approdo al Dipartimento di stato: sottosegretaria di Condi Rice per gli Affari economici ed agricoli.

Alla fine del 2006 comincia la corsa per l’ambita poltrona di direttore del Pam, che gestisce un bilancio ragguardevole (due miliardi di dollari annui) con ben undicimila dipendenti sparsi nel mondo. Un potente braccio operativo di cui l’allora ambasciatore Usa all’Onu, il falco neocon John Bolton, reclama la guida per gli Stati Uniti. Siamo alla fine del mandato di Kofi Annan. Per sancire il ritorno alla collaborazione Usa-Onu dopo la guerra d’Iraq, cosa di meglio che nominare una statunitense bushiana nell’agenzia meno burocratica delle Nazioni Unite?

Il disgelo passa quindi per Roma, dove Josette Sheeran approda lo scorso maggio e resterà per altri quattro anni. Ironia della sorte: anche il suo nuovo principale si chiama Moon, ed è coreano: Ban ki Moon, nuovo segretario generale dell’Onu. Lei affronta il nuovo incarico con il consueto entusiasmo americano, adora Roma e ormai in città si sente a casa: in un ristorante di via Margutta ha incontrato per caso David Letterman, che cenava in un tavolo vicino.