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Monday, October 16, 2023

Istriani e palestinesi. Le sliding doors di due popoli senza terra

Nel ’47-’48 due guerre perse provocarono un milione di profughi. Quelli dell’Istria hanno preso una strada, quelli di Palestina un’altra. Perché i secondi sono stati sfruttati anche dagli amici, e amici di un mondo bellicoso

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 17 ottobre 2023 

Quasi contemporaneamente, nel 1947-48, due guerre perse provocarono un milione di profughi: 300mila istriani rifugiati in Italia, e 700mila palestinesi scappati da quello che per l’Onu avrebbe dovuto essere il loro nuovo stato, accanto a Israele.

Attenzione: in entrambi i casi non fu pulizia etnica. Nessuno, né il maresciallo Tito né David Ben Gurion, obbligò italiani e palestinesi ad andarsene. Fu una fuga spontanea. Certo provocata anche dal terrore per foibe e per massacri tipo Deir Yassin (commesso dal futuro Nobel per la pace Menachem Begin, pensate un po’). 

Ma le stragi fra israeliani e palestinesi nei trent’anni precedenti erano state reciproche, e nel 1948 non furono certo gli israeliani a invadere la “Grande Palestina” araba prevista dall’Onu. Al contrario, vennero loro attaccati da tutti i Paesi arabi. Non solo quelli confinanti, Egitto, Giordania, Siria, Libano: anche da Iraq, Arabia Saudita, perfino Yemen.

Miracolosamente il neonato Israele sopravvisse al tentativo di sopprimerlo in culla, feroce quanto il 7 ottobre di Hamas: vinse la guerra e molti palestinesi preferirono andarsene. Non tutti: rimasero in 160mila, il primo nucleo degli attuali due milioni di palestinesi cittadini israeliani (su dieci milioni di abitanti d’Israele), che godono degli stessi diritti politici e civili degli ebrei, tranne il dovere della leva militare. Probabilmente sono gli arabi più liberi del pianeta.

Insomma, le guerre si vincono, si pareggiano, si perdono. In quest’ultimo caso, da sempre esse producono profughi. “Esuli”, preferivano chissà perché essere chiamati gli istriani e dalmati fuggiti in Italia dalle meraviglie del comunismo jugoslavo. Forse suonava più nobile di “profughi”. O poetico, e in effetti da Dante a Foscolo, da Mazzini a Garibaldi, quanti eroi sradicati e raminghi.

Fatto sta che molti dei rifugiati nostrani dopo aver perso tutto finirono anch’essi nei campi profughi. Ma nel giro di pochi anni si rifecero una vita trovando nuove case e lavori. Nessuno ha rivendicato mai nulla, in tre quarti di secolo neanche al più fanatico è passato per la testa di fondare un Fronte di liberazione dell’Istria. Neanche un petardo. L’Italia aveva attaccato la Jugoslavia, aveva perso, e amen.

Non così i palestinesi. Che sono stati sempre usati dai “fratelli arabi” come mezzo di pressione contro Israele. Ammassati in condizioni miserevoli nei campi profughi ai suoi confini, e peggio stanno meglio è, perché così aumenta l’odio verso Israele.

Gaza e Cisgiordania rimasero la prima egiziana fino al 1979, e la seconda giordana fino al 1994, quando furono firmati i trattati di pace con Israele. Perché in tutti quei decenni l’Egitto non diede Gaza ai palestinesi, né la Giordania Gerusalemme Est e la Cisgiordania, affinché lì nascesse il loro stato promesso dall'Onu?

In realtà quanto questi cari “fratelli arabi” amino i palestinesi lo hanno dimostrato re Hussein di Giordania col massacro del Settembre Nero nel 1970, e l’Egitto ancora in queste ore bloccando il valico di Rafah con Gaza.

Ora i profughi palestinesi sono aumentati da 700mila a cinque milioni. Gli unici rifugiati al mondo che hanno diritto a ereditare il titolo, si fanno mantenere in eterno da Onu e Ue e continuano a premere su Israele. Ormai sono passate quattro generazioni.

Nel frattempo le guerre non smettono di provocare esodi. I croati nel 1995 hanno cacciato dalla Krajna di Knin i terribili serbi, che però inopinatamente si sono rassegnati.

L’ultima fuga, quella dei centomila armeni espulsi dal Nagorno Karabach. Per fortuna non tutti hanno sempre voglia di rivincita, di tornare, di ricorrere al terrorismo per vendicarsi. Sarà vigliaccheria, sarà pigrizia, sarà quieto vivere, sarà dolente saggezza. Oppure i Rokes: “Bisogna saper perdere”. Come mi dicevano sorridenti mio padre e mio nonno, esuli nel 1944 dalla loro isola oggi croata di Lussino: “Cos te vol, mulo. G’avemo perso”. Non ditelo ai palestinesi. E neanche agli altrettanto bellicosi israeliani e iraniani, russi e ucraini.

Friday, February 10, 2023

Foibe ed esodo: colpa di una spia inglese

Venerdì 10 febbraio si celebra il Giorno del Ricordo, ma pochi ricordano il nome di James Klugmann, al soldo di Stalin, che nel 1942 convinse Winston Churchill ad aiutare i partigiani comunisti di Tito in Jugoslavia invece di quelli monarchici del generale Draza Mihailović

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 10 febbraio 2023

I 350mila profughi di Istria e Dalmazia possono ringraziare un certo James Klugmann, per il loro esodo e le foibe. Oggi si celebra il Giorno del Ricordo, ma pochi ricordano il nome della spia inglese al soldo di Stalin che nel 1942 convinse Winston Churchill ad aiutare i partigiani comunisti di Tito in Jugoslavia, invece di quelli monarchici del generale Draza Mihailović.

Soltanto grazie all'appoggio inglese Tito conquistò il proprio Paese, sbaragliando non solo gli occupanti tedeschi e italiani, ma anche tutti i suoi nemici interni: fascisti ustascia croati, cetnici serbi, musulmani bosniaci, cattolici sloveni, democratici e liberali di ogni nazionalità.

La Jugoslavia nell'aprile 1941 era stata invasa dai nazifascisti, dopo il golpe filoinglese che l'aveva spostata dall'orbita dall'Asse a quella degli angloamericani. Ma fino all'estate l'unica resistenza fu quella dei partigiani dell'ex re Pietro, perché i comunisti jugoslavi rispettavano il patto Molotov-Ribbentrop fra Urss e Germania. Tito cominciò la sua guerriglia solo dopo l'attacco di Hitler a Stalin.

Nel febbraio 1942 il trentenne James Klugmann fu incredibilmente messo alla guida dell'ufficio jugoslavo del nuovo spionaggio militare inglese, il Soe (Special operations executive). Come fu possibile che un notorio comunista raggiungesse quella carica? Qualcuno incolpa un bombardamento aereo tedesco che aveva distrutto gli archivi del MI5, l'intelligence britannica. 

In ogni caso la talpa si mise subito all'opera. Gli inglesi monitoravano Balcani e Medio Oriente dal Cairo, e da lì Klugmann faceva partire per Londra rapporti che screditavano i partigiani jugoslavi democratici, lodando invece la pugnacia dei comunisti titini. Così i notevoli aiuti che gli alleati paracadutavano sulla Jugoslavia furono pian piano dirottati dai guerriglieri di Mihailović a quelli di Tito. 

L'unico a obiettare fu il Foreign office. Con lungimiranza, il ministero degli Esteri britannico si preoccupava per gli effetti a lungo termine del massiccio aiuto a quello che già sapevano sarebbe tornato ad essere il nemico, dopo la caduta di Hitler: il comunismo internazionale. Ma le perplessità furono superate da due argomenti. Primo, i partigiani titini erano in effetti più feroci e determinati dei monarchici, perché appartenevano a tutte le etnie jugoslave (serbi, croati, sloveni), mentre i cetnici erano solo serbi. Secondo: gli angloamericani stavano aiutando anche Stalin, superando le differenze ideologiche.

Ma l'opera di disinformazione di Klugmann riuscì a convincere Churchill che Tito potesse essere più efficace per l'unico scopo che interessava allora gli inglesi: ammazzava più tedeschi di Mihailović, teneva maggiormente impegnate le divisioni della Wehrmacht, distogliendole così dagli altri fronti.

Naturalmente la storia non si riscrive con i 'se'. Tuttavia il destino della Jugoslavia, e degli italiani di Istria e Dalmazia, sarebbe stato sicuramente diverso se, come in Italia, anche lì i partigiani vittoriosi nel 1945 fossero risultati di diverse estrazioni, senza un monopolio comunista.

Nel dopoguerra Klugmann, promosso maggiore, riprese tranquillamente la sua militanza nel partito comunista inglese, del quale scrisse la storia ufficiale. Fu sospettato di far parte dei 'Cambridge five', le famose cinque spie che facevano il doppio gioco per i sovietici. La realtà era ancora peggiore: fu proprio lui a reclutare Burgess, Philby, Maclean, Blunt e Cairncross. 

Ma la clamorosa verità è emersa solo con l'apertura degli archivi Kgb nel 1990 e di quelli inglesi nel 1997. Nel frattempo Klugmann era morto tranquillo nel suo letto, a 65 anni nel 1977. Dopo aver regalato a istriani e dalmati esilio e foibe, e agli jugoslavi mezzo secolo di dittatura, sfociata nella seconda guerra civile degli anni '90.

Tuesday, December 27, 2022

La Croazia nell'euro riunisce l'Adriatico, come ai tempi della Repubblica veneziana



Dal primo gennaio sarà di nuovo possibile, dopo 225 anni, viaggiare da Venezia fino alle più lontane città adriatiche della ex Serenissima senza dover cambiare valuta, attraversare dogane né mostrare documenti

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 27 dicembre 2022 

Risorge il Leone di San Marco: dal primo gennaio sarà di nuovo possibile, dopo 225 anni, viaggiare da Venezia fino alle più lontane città adriatiche della ex Serenissima senza dover cambiare valuta, attraversare dogane né mostrare documenti.

La Croazia adotta la nostra moneta: entra nell'eurozona e nello spazio Schengen. Viene così ripristinata l'unità economica e politica fra Veneto, Friuli, Istria, isole del Carnaro e Dalmazia rotta nel 1797: in quell'anno Napoleone invase Venezia, la repubblica più antica, ricca, civile e tollerante del mondo, e poi la diede all'Austria con il trattato di Campoformio. 

Da Ancona a Pola, da Pescara a Zara, da Bari a Spalato e giù fino a Ragusa/Dubrovnik (anch'essa repubblica indipendente per secoli fino al 1808), il mare Adriatico tornerà ad essere "golfo di Venezia", com'era denominato su tutti gli atlanti fino al '700. 

Quindi la Croazia, dopo la Slovenia nel 2004, fa ingresso a pieno titolo nell'Europa unita, abbandonando la propria moneta (kuna) per l'euro. Porta in dote il suo porto principale, Fiume/Rijeka, che come Trieste non era mai stato veneziano: fino al 1918 fu lo sbocco al mare dell'Ungheria, così come il capoluogo giuliano era il porto dell'asburgica Vienna. 

Per la verità un'unità adriatica si era già ripristinata nel 1815-66, quando da Venezia alle bocche di Cattaro/Kotor, oggi porto montenegrino, comandava l'impero austriaco. Ma fu appunto una dominazione straniera, contestata sia dagli irredentisti italiani (Niccolò Tommaseo veniva da Sebenico, e dalmata era pure Antonio Baiamonti, sindaco di Spalato fino al 1880), sia dai nazionalisti croati. 

Non è un caso che gli unici due stati italiani non risorti con la Restaurazione del 1815 siano stati Venezia e Genova: erano repubbliche, quindi invise ai regni nuovamente padroni d'Europa dopo la ventata democratica napoleonica.

Il ritorno di Veneto e Friuli all'Italia nel 1866, dopo la terza guerra d'indipendenza, incattivì l'imperatore austriaco Francesco Giuseppe. Da allora in Istria e Dalmazia gli austriaci si vendicarono favorendo i croati rispetto agli italiani. Così esasperarono gli opposti nazionalismi fra due popolazioni che sotto Venezia avevano convissuto pacificamente per secoli, con proficua divisione del lavoro: marinai e pescatori gli italiani, contadini i croati. Un esempio di tolleranza per gli attuali irriducibili sciovinismi dell'est europeo, dalla Bosnia alla Russia, dal Kosovo all'Ucraina, dalla Serbia alla Crimea. 

Nella nostra parte del continente l'Unione europea ha fatto dimenticare il sangue degli ultimi cent'anni. Oggi a Gorizia, città martire della prima guerra mondiale, la nostra frontiera con la Slovenia è impercettibile quanto quelle con Francia o Austria. E Trieste ha sorpassato l'incubo dei carri armati comunisti incombenti sul Carso fino al 1989.

Festeggia Renzo Codarin, presidente dell'Anvgd (Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia): "Si ricompone l'unità dell'italianità adriatica. Accogliamo con favore la completa integrazione della Croazia nell'Unione europea, che abolisce il confine sloveno-croato e restituisce continuità territoriale a Istria, Carnaro e Dalmazia".

Ma non c'è alcun accento revanscista da parte dei 350mila esuli italiani del 1947: "Abbiamo vissuto con dolore e sofferenza l'imposizione di confini che seguivano la logica della guerra fredda, senza considerazione per le istanze dell’italianità autoctona e del principio di autodeterminazione dei popoli. Ora gli esuli, i loro discendenti e le comunità italiane di Slovenia e Croazia potranno finalmente ritrovarsi nella lingua, cultura e tradizioni comuni, all'interno di una struttura statuale libera e democratica, con la salvaguardia delle culture locali".

 

Monday, November 28, 2022

Ucraina, Kosovo, Libia. Seguire l'esempio italiano



La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto fra kosovari e serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 28 Novembre 2022 

L'Italia può insegnare molto a Ucraina, Kosovo e Libia. La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto kosovari/serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente.
Il Territorio Libero di Trieste, per esempio. Quando ci sono dispute di frontiera apparentemente insolubili, come l'attuale fra Kiev e Mosca, la via d'uscita più semplice non sempre è spartire i territori contesi fra i due avversari, ma creare ex novo una terza entità.
Nel maggio 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale, la Jugoslavia di Tito s'impossessò di Trieste. Di fronte al fatto compiuto, non era scontato per l'Italia riuscire a recuperare il capoluogo giuliano con mezzi pacifici. Anche perché, dei quattro Alleati vincitori, l'Urss appoggiava il dittatore comunista, la Gran Bretagna lo aveva armato contro di noi, e la Francia di De Gaulle voleva vendicare la 'pugnalata' fascista del 1940.
Fu così che, con un guizzo creativo, la città e la costa nord dell'Istria furono inglobate nel Tlt (Territorio libero di Trieste). Il quale durò fino al 1954. Nel frattempo gli animi si erano calmati, anche perché Tito aveva rotto con Stalin. Cosicché non ebbe problemi ad abbandonare ogni rivendicazione sulla città e il Carso triestino, in cambio di Capodistria, Portorose e Pirano: era minacciato più da est che da ovest.

Il tempo lenisce gli ardori, i furori e i dolori. Oggi appare inaccettabile sia per gli ucraini che per Putin rinunciare a Crimea e Donbass. Ma un'amministrazione provvisoria, magari con mandato Onu, potrebbe svelenire gli animi. Intendiamoci, le 'città libere' non sono state sempre un successo. Quella di Danzica finì come finì, nel 1939. E anche l'altro lascito della Prima guerra mondiale, Fiume, provocò subito la spedizione di D'Annunzio contro la città autonoma fra Italia e Jugoslavia. Ma gli opposti nazionalismi non vanno fatti incancrenire.
È questo l'errore commesso da Onu e Ue in Kosovo. Mai avrei pensato, quando nel 1999 seguii a Pec le nostre truppe con bandiera Nato, che quasi un quarto di secolo dopo le avrei trovate ancora lì. Le missioni di peacekeeping non possono durare in eterno. E infatti ora la situazione è di nuovo esplosiva: serbi e albanesi si confrontano sul fiume Ibar, che taglia in due la città di Mitrovica. A nord sono maggioranza i primi, che però risultano una minoranza di centomila abitanti rispetto al milione di kosovari albanesi a sud.

Qui l'unica soluzione è una pulizia etnica nonviolenta e volontaria. Non spaventatevi per la parola: nella vita pubblica come in quella privata, se non si riesce a convivere è meglio separarsi. Repubblica ceca e Slovacchia hanno divorziato subito dopo il crollo del Muro di Berlino, nel 1990. La Jugoslavia invece ha patito un decennio di sanguinosa guerra civile.
È triste dirlo, ma in Bosnia e Kosovo la convivenza fra musulmani e cristiani ortodossi risulta ancor oggi impossibile. Il labirinto bosniaco, con le sue enclaves etniche e l'aggravante del terzo incomodo, i croati cattolici, appare difficile da districare. In Kosovo invece sarebbe facile tracciare una linea di demarcazione: la zona a maggioranza serba vada sotto Belgrado, in cambio di compensazioni territoriali (alcuni paesi albanesi in Serbia) e finanziarie.
Sono figlio di profughi istriani, so quanto costi abbandonare la propria terra. Ma non si può vivere eternamente nella tensione, nell'oppressione, nel terrore. E quindi l'esodo nel 1947 della mia famiglia con i 300mila istrodalmati fu tutto sommato la decisione più saggia. Anche perché ci ha risparmiato mezzo secolo di miseria economica e morale sotto una dittatura comunista.
Naturalmente i danni e le perdite subite dai kosovari che accetteranno di trasferirsi spontaneamente da una parte all'altra della nuova frontiera dovranno essere risarciti fino all'ultimo centesimo. Anzi, all'ultimo euro. Perché in cambio di questa complicata e dolorosa pacificazione è auspicabile che tutta la regione entri finalmente nell'Unione europea: Kosovo, Serbia, Albania. I confini diventano più accettabili quando svaniscono: qualcuno oggi si accorge se da Trieste a Gorizia entra in Slovenia? (E fra un mese anche la Croazia adotterà l'euro).

L'auspicabile opzione etnica in Kosovo (praticabile anche in Ucraina) ha un precedente in Alto Adige. Nel 1939 Mussolini e Hitler si accordarono per trasferire in Germania o Austria i sudtirolesi che lo avessero desiderato. Optarono per la heimat tedesca in 86 su cento: quasi 200mila (qualche germanofono anche in Trentino, nell'Ampezzano veneto e a Tarvisio in Friuli). Poi però, con la guerra, i trasferimenti procedettero a rilento: se ne andarono solo in 70mila. E tutto si bloccò dopo l'8 settembre, quando il Trentino-Alto Adige passò direttamente al Reich.
Come racconta Carlo von Guggenberg nel suo libro appena pubblicato 'L'Altro Adige. Optanti e Dableiber per la nascita della Stella Alpina' (Praxis Edizioni), a quel punto nacque un dramma. I sudtirolesi di lingua tedesca che avevano optato si ritrovarono in mezzo al guado: molti non volevano più partire, e dei già partiti 20mila tornarono. Ci fu tensione con accuse reciproche di tradimento. Nei paesini di montagna qualcuno aveva già adocchiato le fattorie e i campi lasciati dagli optanti. C'è chi finì nella vasca di qualche fontana durante i tafferugli.
Fu impresa non facile riappacificare i sudtirolesi fra loro, prima che con gli italiani. Ci riuscirono i fondatori della Svp (Südtitoler VolksPartei), fra i quali giganteggiarono Erich Amonn, Otto von Guggenberg (nonno dell'autore del libro) e poi Silvius Magnago. Anche grazie a loro, e nonostante i terroristi degli anni 60, quella della minoranza tedesca in Alto Adige è una storia di successo, studiata nel mondo intero. E speriamo presto anche in Ucraina.

La Libia, infine. Anche qui, come in Istria e Kosovo: meglio amputare che deteriorarsi in cancrena. Dopo la Primavera araba del 2011 che cacciò il dittatore Gheddafi, il Paese è irrimediabilmente diviso in due: Tripolitania e Cirenaica. Si susseguono patetici inviati Onu che continuano ad auspicare un'unità inesistente. Tripoli e Bengasi, peraltro, sono separate da sempre: non solo sotto l'impero ottomano, ma anche nei primi vent'anni da colonia italiana, dopo il 1911. 
Quindi, come in Irlanda del Nord e in Sud Sudan, meglio dividere chi non vuole vivere assieme. Senza tenere unite artificialmente realtà diverse: ci ammonisce la guerra civile in Yemen, se non ricordiamo il Biafra o il Bangladesh.
Petrolio e gas ci sono da una parte e dall'altra, nessun libico si impoverirebbe. L'Eni continua a pompare, nonostante i volumi ridotti. In più, a Tripoli riecco i soldati turchi tornati dopo un secolo, e a Bengasi i simpatici mercenari russi della Wagner. Pare che ora per farci dispetto ci mandino barconi di migranti pure da lì, anche se dalla Cirenaica la distanza è doppia. Urge intervenire con proposte realistiche e intelligenti, senza inseguire miraggi di ripristino unitario.

Tuesday, February 09, 2021

Giorno del Ricordo

Sulla pelle di noi figli dei profughi litigano ancora comunisti e fascisti

di Mauro Suttora

HuffPost ,10 febbraio 2021

Ormai siamo diventati un milione, noi figli e nipoti dei 350mila infoibati ed esuli istriani del 1943-53. Mio padre era profugo dall’isola di Lussino. Oggi commemoriamo il nostro Giorno del Ricordo, istituito nel 2004. 

Per 60 anni ci hanno ricordato troppo poco. Ora perfino troppo, cosicché sulla nostra pelle litigano di nuovo i nostalgici comunisti e fascisti. Cioè gli stessi che ci massacrarono e terrorizzarono spingendo i nostri genitori e nonni alla fuga (i comunisti jugoslavi), o che scatenarono la guerra persa che provocò l’amputazione territoriale e l’esodo (i fascisti italiani).

In realtà la maggioranza delle nostre famiglie non ha mai ricordato granché. Appena hanno potuto, i profughi hanno lasciato i campi trovando un lavoro e rifacendosi una vita. In Italia, America, Australia. Prima di fidanzarsi con mia madre a Genova negli anni ’50, anche mio padre aveva chiesto il visto al consolato canadese.


Poco spazio per rimpianti, nostalgie, lamenti. Nessuno si è mai sognato di fondare un Fronte di liberazione dell’Istria. Neanche un petardo. “Tornemo in Dalmazia in vacanza d’estate per andar in barca, magnar, bever, cantar, pescar”, mi disse nel 1987 Ottavio Missoni, sindaco del libero Comune di Zara in esilio, quando lo intervistai sul settimanale Europeo per il quarantennale dell’esodo.

 

Durante le mie inchieste in Israele e Palestina mi è capitato spesso di chiacchierare con qualche palestinese rivendicativo. Gli dicevo: “Sono figlio di profughi anch’io. Abbiamo perso la guerra, perché vi fissate ancora su queste quattro pietre dopo mezzo secolo? Il mondo è grande, partite e andate ad arricchirvi altrove, come hanno fatto tanti vostri e miei parenti”. E quello annuiva, vedevo nei suoi occhi le sue certezze Olp e Hamas barcollare, nonostante lo avessero imbottito di propaganda dalla nascita.

   

Per scherzo mandavo a mia nonna cartoline col suo cognome scritto Matković invece di Matcovich. Si arrabbiava, poverina, perché si sentiva italianissima nonostante fosse nata nel 1900 a Sebenico (allora Austria-Ungheria, oggi Croazia). Nel novembre 1918 si avvolse nel tricolore al molo dove arrivò la prima nave da guerra italiana ‘liberatrice’. 

Il destino la punì crudelmente. Riuscì ad essere profuga due volte in soli vent’anni, sciagura capitata nel secolo scorso soltanto ai palestinesi, appunto: prima quando la sua famiglia si rifugiò a Lussinpiccolo perché il trattato di Rapallo aveva negato (giustamente) la Dalmazia all’Italia tranne Zara; poi nel 1944, quando dovette scappare anche dall’isola di Lussino.

 

Morì nel 1992, riconoscendo che tutto sommato l’imperatore austriaco Francesco Giuseppe, da lei tanto detestato, fu una disgrazia preferibile alle successive: i dittatori Mussolini e Tito. In quello stesso anno andai a Sebenico a trovare sua cugina, rimasta sempre lì. Viveva confinata 90enne in una stanza da letto del suo appartamento, requisito dopo la guerra dai comunisti e assegnato a una famiglia bosniaca. Da allora convivevano, lei era diventata la loro nonnina, come in Dottor Zivago o in un film di Kusturica. Il socialismo reale.

     

La loro Sebenico, patria del Tommaseo, aveva un 30-40% di italiani (veneziani) all’inizio dell’800, come Spalato e Ragusa (Dubrovnik). In tutte le città e paesi della costa istro-dalmata gli italiani (marinai, pescatori, commercianti, professionisti) erano la maggioranza. Ma già in periferia predominavano gli slavi. La coabitazione fra contadini croati/sloveni e borghesi italiani fu pacifica nei 400 anni della Serenissima (mille in Istria) e sotto l’Austria fino al 1866.


Dopo la sconfitta nella Terza guerra d’indipendenza, però, Vienna cominciò a discriminare gli italiani, temendo gli irredentisti che volevano seguire il Veneto nella madrepatria. Ciononostante, furono italiani i sindaci di Spalato (Antonio Baiamonti) fino al 1880, e a Ragusa con un’alleanza italo-serba anticroata fino al 1899. Poi l’Austria vietò la lingua italiana e chiuse le nostre scuole.

 

Pochi lo sanno: la Prima guerra mondiale scoppiò perché l’erede al trono di Vienna Francesco Ferdinando voleva elevare la Croazia (con la Bosnia) allo stesso rango di Austria e Ungheria nell’impero asburgico, danneggiando così serbi e italiani. Il serbo Gavrilo Princip lo uccise per questo a Sarajevo, e non pochi anche in Italia applaudirono.


Da allora, ogni singolo fatto sul nostro confine orientale è stato usato dalla propaganda dei due opposti nazionalismi, italiano e (jugo)slavo. Poi al conflitto inter-etnico si è aggiunto quello politico fra gli opposti totalitarismi, fascista e comunista. E in questa quadruplice tenaglia sono rimasti schiacciati i 350mila esuli italiani. 


Mio padre 15enne nel 1943 vide nella pineta dietro casa sua a Lussinpiccolo i partigiani titini far scavare una fossa ai partigiani cetnici serbi (in teoria loro alleati contro i nazisti) per poi trucidarli. Bastò questo a mio nonno per intuire che non era il caso di rimanere.


Ora qualche storico buontempone vorrebbe negare agli italiani istro-dalmati lo status di ‘popolo’. E quindi il loro esodo non sarebbe stata ‘pulizia etnica’, anche se svuotò al 90% tutte quelle città e paesi, da Fiume a Pola, da Parenzo a Rovigno. 


È l’ultimo sgarbo alla memoria di mia nonna, che col suo cognome certo non fu italiana per ‘ethnos’, ma per ‘ethos’. Ovvero per libera scelta di valori, cultura, civiltà. Come tante famiglie miste e bilingui, dai Bettiza ai Tomizza, dai Citterich ai Volcich, dai Pamich ai Bastianich, che si illusero di poter sfuggire, con la loro apertura mentale, tolleranza e cosmopolitismo, alle follie dei sovranismi identitari del ’900.

Mauro Suttora

Monday, December 28, 2009

Fiume negli anni Trenta

Nel romanzo Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani) il novantenne Brunello Vandano ricorda gli amori di una civiltà magica

di Mauro Suttora

Oggi, 10 dicembre 2009



«Daniza Matcovich era una delle più belle tra le ragazze che in quella piccola città erano notate al passeggio, al ballo, d’estate al nuoto (...) Capelli quasi neri che al sole s’illuminavano di bronzo, zigomi rilevati che a sedici anni le toglievano la pienezza infantile della guancia, occhi notturni assottigliati dalle ciglia e da un accenno di plica mongolica, un viso che lui definiva da tartara, da attrice e da gatta. La pelle era esatto avorio, che d’estate diventava cioccolata. Era lunga, molto sottile ma non magra...»

Questa è la descrizione che fa sognare il protagonista di Ti chiedo ancora 900 miglia (Bompiani), romanzo di Brunello Vandano ambientato in buona parte nella Fiume degli anni Trenta. Che lo scrittore conosce bene, perché avendone oggi 90, di anni, ha fatto in tempo a crescere da liceale in quella magica cittadina conquistata da Gabriele D’Annunzio dopo la Prima guerra mondiale e persa dopo la Seconda. Che lo scrittore combattè in Russia.

«I 50 mila abitanti di Fiume erano quanto di più cosmopolita abbia mai avuto l’Italia», ricorda Vandano, autore di altri otto romanzi (fra cui I disperati del Don), giornalista di Epoca fino al 1972, poi in Rai, per tutta la vita appassionato velista. «I miei compagni di classe al liceo erano italiani meridionali e settentrionali, croati, sloveni, ebrei, tedeschi, ungheresi, austriaci... Ma mai nessuno che si accorgesse delle nostre differenze».

Nell’estate ’39 il protagonista, dopo la maturità, viene iniziato all’amore sullo yacht di una ricca principessa croata, Ilirija Frangipane. La quale poi fugge col marito ebreo, e verrà uccisa in una delle tante stragi che insanguinarono la Jugoslavia già nella seconda guerra mondiale - per loro anche civile, con il record europeo del numero di morti. Lo yacht resta al ragazzo, che ci porta la sua Daniza - più sorella che fidanzata - in gita fino alla splendida baia di Cigale, nell’isola di Lussino.

Poi altre avventure da non svelare, e l’esodo che svuota completamente Fiume. Il protagonista va a vivere a Roma, e nel 2002 ritrova per caso lo yacht, quasi abbandonato. Lo rimette in sesto, parte con tre amici per un’ultima crociera. Ma il cuore del romanzo è proustiano, e batte nelle struggenti descrizioni di quel civilissimo mondo austroungarico - troppo a nord per essere Dalmazia, troppo a sud per l’Istria - svanito nel ’45.

Che morale ne trae Vandano, ultimo testimone della grande storia del ’900?
«Che le masse più sono numerose, più diventano pericolose. L’unica salvezza è l’individuo, la singola persona. E l’unico valore è la sua vita, perché poter vivere è già felicità. Senza bisogno di ideologie».

Mauro Suttora

Saturday, September 26, 1987

Profughi istriani e dalmati


Ferite socchiuse: 40 anni dopo, gli esuli italiani si interrogano sul proprio passato

PALESTINESI DI CASA NOSTRA

Dalmati e istriani si incontrano a Trieste per commemorare gli avvenimenti del 1947. Gli jugoslavi li chiamano fuggiaschi, il Msi li corteggia. Ma loro cosa rivendicano? Le terre perdute? No, dicono, soltanto il diritto alla nostalgia

Europeo, 26 settembre 1987

di Mauro Suttora

In via Montenapoleone a Milano, fra i re della moda mondiale, la Dalmazia è regina. Sono dalmati, infatti, i due stilisti che si fronteggiano all'inizio della via, con le loro ricche vetrine nelle postazioni più prestigiose, quelle vicine a piazza San Babila: Ottavio Missoni e Mila Schoen. Dalmati , e quindi profughi. Così come gli altri 350 mila istriani, fiumani e lussignani che nel 1947, quarant'anni fa, dovettero abbandonare le proprie terre ai partigiani jugoslavi.

Fu un esodo drammatico. Per molti comincio' gia' nel 1943: gli abitanti di Zara scapparono in 14 mila per non morire sotto i bombardamenti a tappeto degli aerei inglesi. " Io ero prigioniero in Africa", ricorda Missoni, oggi sindaco onorario del 'Libero comune di Zara in esilio', "ma la mia famiglia fuggi' a Trieste con il 90 per cento della popolazione, che era tutta italiana. Quando tornai in Italia trovai mio padre che a 65 anni, per mantenerci, si era dovuto rimettere a navigare. Erano tutti scappati senza una lira".

Per altri la fuga fu meno precipitosa: gli italiani della "zona B" del mai nato Territorio libero di Trieste se ne andarono nel 1954-55, quando la zona passo' sotto amministrazione jugoslava in cambio del ritorno di Trieste all'Italia. Ma il grosso dei profughi "esodò" nel 1947, quando il trattato di pace impose all'Italia sconfitta di cedere quasi tutta la Venezia Giulia alla Jugoslavia.

Fu la ratifica di una realta': gia' da due anni nei paesi italiani della costa istriana si erano installate vincitrici le truppe comuniste del maresciallo Josip Broz detto Tito. Che avevano prevalso, con l' aiuto russo-inglese, non solo su tedeschi e italiani, ma anche, dopo una feroce guerra civile interslava, sui fascisti croati (gli "ustascia") e sui partigiani monarchici "cetnici" (paragonabili ai nostri badogliani).

Il 19 e 20 settembre a Trieste si riuniscono gli esuli istriani e dalmati per commemorare gli avvenimenti di quel 1947. Arriveranno 5 mila persone dall'Italia e dall'estero (soprattutto Canada  Australia e Usa, dove si sono rifugiati circa 50 mila profughi). E poi ci saranno i 50 mila triestini di origine istriana e dalmata.

Ma non sara' un anniversario facile. Il quotidiano semiufficiale Delo (Lavoro) di Lubiana ha gia' dedicato al raduno un articolo in cui si esprime "sorpresa e meraviglia per l'appoggio delle autorita' italiane a questi 350 mila fuggiaschi" (agli esuli, nonostante l'insulto del termine "fuggiasco", l'articolo non e' interamente dispiaciuto: per la prima volta infatti gli jugoslavi riconoscono il numero di 350mila profughi. Nel tentativo di minimizzare l'esodo, in passato Belgrado non era mai andata oltre la cifra di 200-250 mila).

L'ambasciata jugoslava a Roma ha protestato con il nostro governo, che dovrebbe essere rappresentato al raduno dal ministro della Funzione pubblica Giorgio Santuz (Dc), unico titolare di dicastero seppure senza portafoglio proveniente dal Friuli Venezia Giulia.

Perche' queste proteste? "Non lo so, noi non avanziamo alcuna rivendicazione nei confronti della Jugoslavia", assicura Silvio Cattalini, organizzatore del raduno ed esule da Zara. "Certo, nei decenni scorsi c'e' chi ci ha fatto passare tutti per nazionalisti o fascisti. Ma noi vogliamo fare solo un discorso culturale : mantenere viva la memoria sulla nostra tragedia , farla studiare sui libri di scuola. Fra qualche anno, dei protagonisti diretti di quella vicenda non rimarra' piu' nessuno. Ecco, noi vogliamo che la nostra sofferenza non sia cancellata".

A complicare le cose, pero', e' arrivato il Movimento sociale italiano. Il quale ha organizzato per sabato 19, alle sette di sera, un comizio di Giorgio Almirante in piazza Unita'. Gli esuli hanno un concerto nel vicino teatro Verdi alle 18  e usciranno negli stessi momenti in cui il segretario del Msi iniziera' il suo discorso.

"Almirante e' fiero di aver potuto parlare in pubblico per la prima volta proprio a Trieste, nel 1949", spiegano al Msi, "e vuole concludere la sua carriera da segretario con un comizio nella stessa città". Apriti cielo : il consigliere comunale della minoranza slovena a Trieste Alessio Lokar ha protestato per l'adesione del Comune, con il sindaco Giulio Staffieri in testa, al raduno "sciovinista e revanscista" dei profughi.

Il messaggio di Staffieri agli esuli, in effetti, si differenzia da quelli piu' anodini fatti pervenire dal presidente della Regione e da quello della Provincia. Mentre per esempio quest'ultimo definisce l'esodo come "una scelta imposta dalla storia" (frase che fa imbestialire i profughi, ma che si giustifica per la presenza in provincia di Trieste di molti sloveni ai quali dispiacerebbero indicazioni piu' precise), il sindaco si lancia in affermazioni drastiche: "All'emigrazione degli esuli va coraggiosamente dato il nome di esilio, ma noi siamo rimasti qui a mantenere le posizioni di una civilta' che non e' destinata a morire". E poi: "Accanto al rilancio dell'economia , a quello emporiale e scientifico, e' da coltivare o addirittura da anteporre il rilancio dei grandi valori ideali, di cui uno dei piu' alti e sacri e' l'amor di patria".

Patria: una parola che fa venire ancora i brividi di commozione ai profughi (anche perche' la patria e' piu' bella se perduta), ma che suscita sentimenti opposti fra i 30 mila sloveni di Trieste, che non si considerano certo un "avamposto della civiltà" (italiana, latina, occidentale, cristiana) in territorio nemico.

Cosi', a quarant' anni dalla fine della guerra, molti sono ancora gli argomenti che scottano. E anche i gesti: "Finalmente", annuncia per esempio Silvio Del Bello, 53 anni, di Umago, presidente dell'Unione degli istriani, "domenica, per la prima volta , un ministro del governo italiano rendera' omaggio alle vittime delle foibe di Basovizza e Monrupino".

Le foibe sono grotte carsiche, cavita' profonde dentro le quali i partigiani di Tito gettarono circa seimila italiani, spesso ancora vivi: tutti accusati di essere fascisti o collaborazionisti, mentre in realta' in non pochi casi si tratto' di vendette personali. Nella foiba di Basovizza, per esempio, che e' la piu' grande fossa comune d' Italia, sono finiti anche comunisti e soldati neozelandesi.

Pochi i corpi riconoscibili : quando gli alleati scoprirono la foiba, i cadaveri legati l'uno all'altro da fil di ferro erano gia' decomposti. Si conosce solo lo spazio che occupano: 300 metri cubi di ossa.

Ma si sa, fra i crimini di guerra quelli dei vincitori sono sempre i meno gravi. E quindi le vittime delle foibe non hanno ricevuto gli stessi onori degli altri caduti. Anzi, illustri professori di storia, come Giovanni Miccoli ancora nel 1976, si sono esercitati nel bollare come "aberrante" l'accostamento fra due pagine egualmente nere della guerra a Trieste, seppure di segno opposto: le foibe slavo-comuniste e il campo di sterminio nazista della risiera di San Sabba (dove, per ironia della sorte, nel dopoguerra vennero parcheggiati molti profughi istriani in attesa di sistemazione).

Ma chi sono veramente i profughi istriani e dalmati? Cos'hanno fatto in quarant'anni questi nostri 350 mila "palestinesi"?
"A differenza dei palestinesi noi siamo esuli in patria", risponde Del Bello, "e pensiamo di esserci comportati bene: ci siamo sparsi un po' in tutta Italia, abbiamo lavorato duro, ci siamo rifatti una casa".

Alcuni hanno fatto fortuna, come l'industriale farmaceutico Fulvio Bracco, quello del Cebion. Altri sono arrivati al successo: l'attrice Laura Antonelli, nata a Pola nel 1941, il cantante Sergio Endrigo, anche lui polesano, la presentatrice tv Paola Perissi (Processo del lunedi).

Uno che non ha dimenticato e' il celebre violinista Uto Ughi, 43 anni, che sta eguagliando le gesta del suo compaesano piranese Giuseppe Tartini: fa parte del consiglio nazionale dell'Unione degli istriani. Dall' ex zona B vengono lo scrittore Fulvio Tomizza e il pugile Nino Benvenuti, da Lussinpiccolo il comandante Tino Straulino, olimpionico di vela.

Mila Schoen (vero nome Maria Nutrizio, sorella del celebre giornalista Nino, ex direttore della Notte) e' fuggita dalla sua Trau', in Dalmazia, addirittura nel 1923, quando aveva un anno e mezzo. Il padre, farmacista, passo' il confine di notte, perdendo tutto. "Mio padre era un patriota", ricorda lei adesso, "e quando la Dalmazia fini' alla Jugoslavia fu considerato un traditore dagli slavi".

Non pochi sono i dalmati profughi due volte: nel primo dopoguerra quando si rifugiarono a Fiume, Zara o Pola, e poi nel 1947, quando dovettero andarsene di nuovo. Mila Schoen e' sfuggita a questo amaro destino: lei nel 1940 era gia' a Milano. "Sono ritornata per la prima volta a Trau ' sei anni fa, mi ci hanno portata in barca degli amici brasiliani. Sono posti bellissimi, straordinari. Quando sono sbarcata, ho domandato in piazza al primo passante se si ricordava dov'era la farmacia del dottor Nutrizio. 'La farmacia del buon Gigi ? Era quella la'!', mi ha subito risposto".

L' Associazione nazionale Venezia Giulia e Dalmazia ha sede a Roma: ha assistito 172 mila profughi e pubblica un quindicinale, Difesa Adriatica. Presidente e' Paolo Barbi, europarlamentare democristiano fino al 1984; segretario un prete, padre Flaminio Rocchi. Per le ultime elezioni Difesa Adriatica ha indicato alcuni candidati da votare, tutti Dc (l'olimpionico Abdon Pamich, Uto Ughi e lo zaratino Lucio Toth, eletto senatore) e del Msi. Perche'? "Abbiamo segnalato tutti quelli che ce lo hanno chiesto", risponde padre Rocchi. "L'unico requisito e' essere nati nelle nostre terre. Abbiamo pero' una preclusione verso il Pci, che nel 1947 voleva dare Trieste e Gorizia alla Jugoslavia".

Annunci piu' inquietanti sono pubblicati sul mensile Voce di Fiume: raduni di reduci della Decima Mas repubblichina  incontri al Vittoriale. "I nostalgici ci sono dappertutto", commenta Silvio Cattalini, "ma sono solo una piccola minoranza".

E Missoni, che ne pensa? "Fiol, cos te vol che te diga, mi de politica no me interesso. Io vado in Jugoslavia da 25 anni ogni estate con la mia barca  perche' il vino, il mare, i canti e i tramonti sono sempre quelli. Ma nessuno ha mai pensato di tornare. Io non ho mai avuto odio, ne' allora ne' oggi, verso gli slavi. In fondo, noi dalmati siamo sempre stati sotto qualcuno".

Padrone per padrone, l'unica nostalgia che riesce ad accomunare tutti gli esuli istriani e dalmati e' forse quella per l'impero austriaco di Francesco Giuseppe, che riusci' a far convivere pacificamente marinai e pescatori italiani della costa con i contadini slavi dell'interno. Poi sono arrivati i fascisti. Poi i comunisti. E gli ammiratori degli Asburgo sono aumentati: "Quando governavano loro, profughi non ce n'erano".

Mauro Suttora