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Friday, January 26, 2024

Il magnifico gioco d’equilibro della Corte dell’Aja

GENOCIDIO A GAZA?

Non possono esultare né filopalestinesi né fan israeliani. Il procedimento va avanti, ma intanto si chiede a Israele di prendere misure che evitino rischi genocidiari. Sentenza in parte votata anche dal giudice nominato da Netanyahu

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 26 gennaio 2024

È rimasta solo la giudice ugandese Julia Sebutinde a difendere strenuamente Israele al tribunale Onu dell’Aja. La sentenza provvisoria di oggi, che invita lo stato ebraico ad applicare misure per evitare un genocidio a Gaza, è stata infatti approvata perfino dal giudice israeliano Aharon Barak, nelle parti in cui condanna le frasi d’odio pronunciate da alcuni ministri israeliani e auspica maggiore assistenza alla popolazione civile.

La giudice africana Sebutinde è una dei 15 membri permanenti della Corte. A loro si aggiungono come giudici ad hoc solo per questo procedimento i due rappresentanti delle parti in causa: Israele e Sud Africa, il Paese che ha trascinato lo stato ebraico davanti alla giustizia internazionale con la gravissima accusa di genocidio.

“Ignobile, ripugnante”, l’ha bollata il governo di Benjamin Netanyahu. Il quale però oggi ha dovuto incassare la prima decisione del Tribunale: la tesi sudafricana non è priva di fondamento, quindi il processo si farà. Attenzione, però: non per genocidio, ma per “atti” che potrebbero provocarlo.

E in attesa della sentenza, prevista in tempi non brevi, ecco alcune “misure provvisorie” per proteggere i civili di Gaza. Non il cessate il fuoco, come speravano i palestinesi, ma l’impegno da parte israeliana a evitare azioni che colpiscano ulteriormente i civili.

Sentenza pilatesca? L’unica possibile. Il “non luogo a procedere” o il “difetto di competenza” erano infatti irrealistiche speranze israeliane. Certo, finire sotto processo per genocidio è un duro colpo per il popolo che un genocidio lo ha subìto (come armeni, ruandesi, cambogiani), e per lo stato che dal genocidio è nato. Anche la coincidenza dei tempi è uno sfregio: proprio domani si celebra il Giorno della Memoria per ricordare la Shoa.

Tuttavia essere accusati non vuol dire essere condannati, e oggi Israele incassa a proprio favore l’unica decisione precisa del tribunale Onu: l’intimazione ai terroristi di Hamas di liberare gli ostaggi israeliani, senza condizioni.

Più imbarazzante, semmai, è che durante la lunga lettura della pre-sentenza la presidente statunitense della Corte, Joan Donoghue, abbia citato parola per parola alcune frasi particolarmente dure pronunciate non da estremisti di destra come il ministro israeliano Bezalel Smotrich, ma dal presidente d’Israele Isaac Herzog, dal ministro della Difesa Yoav Gallant e da quello degli Esteri Israel Katz. 

Sull’onda dell’emozione per le stragi del 7 ottobre non furono pochi, infatti, i politici israeliani che si lasciarono andare a comprensibili auspici di “eliminazione totale” di Hamas. Che però gli avversari d’Israele, con in prima linea inopinatamente il Sud Africa, hanno avuto buon gioco a equivocare come punizione collettiva verso tutti i civili di Gaza.

Intelligente invece il voto “diviso” dell’87enne giudice israeliano Barak: no alle parti della sentenza che sanzionano direttamente Israele, sì alle altre meno impegnative. Barak, sopravvissuto all’Olocausto nella sua Lituania e rifugiatosi con la famiglia a Roma per due anni prima di emigrare in Israele nel 1947, è un ex presidente della Corte costituzionale israeliana, grande avversario di Netanyahu. Ciononostante il premier lo ha nominato all’Aja.

Male fanno i tifosi palestinesi a esultare per la sentenza odierna, così come sbagliano i fan(atici) proisraeliani a rifiutare ogni giudizio dell’Onu. Nella Corte infatti siedono giudici provenienti da Paesi filoisraeliani come Germania, Giappone, Belgio, Francia, Australia, Usa. E il comportamento della giudice ugandese Sebutinde dimostra che molti di loro, se non tutti, sono dotati di indipendenza intellettuale. Semplicemente, a Israele non conviene autocollocarsi al di sopra delle leggi che regolano la comunità internazionale. Perché evocare il genocidio è oltraggioso, ma contenersi limitando la vendetta può rivelarsi saggio. 

Sunday, December 31, 2023

Per Bob Dylan Israele è il "bullo del quartiere"














di Mauro Suttora

Il premio Nobel compone la canzone 'Neighborhood Bully' dopo l'invasione israeliana del Libano e l'occupazione di Beirut, durante la quale avviene la strage di Sabra e Chatila. Anche allora, come oggi, Israele è criticato dal mondo intero per i suoi metodi violenti e sbrigativi

31 dicembre 2023

"Il bullo del quartiere è solo contro un milione. I suoi nemici dicono che occupa la loro terra, lo sovrastano di numero, lui non ha alcun posto dove scappare". 

Una delle migliori descrizioni di Israele è quella cantata dall'ebreo americano Bob Dylan 40 anni fa, nel 1983. Il premio Nobel compone la canzone 'Neighborhood Bully' dopo l'invasione israeliana del Libano e l'occupazione di Beirut, durante la quale avviene la strage di Sabra e Chatila. Anche allora, come oggi, Israele è criticato dal mondo intero per i suoi metodi violenti e sbrigativi. 

È la prima volta che Dylan torna alla canzone politica dopo 'Hurricane' del 1975. Ma l'autore dei principali inni antimilitaristi e nonviolenti degli anni '60 ora è schierato completamente dalla parte di Israele.

"Il bullo del quartiere vive solo per sopravvivere, viene condannato perché è ancora in vita.

Dicono che non dovrebbe rispondere agli attacchi, che con la sua pelle dura dovrebbe lasciarsi uccidere quando gli sfondano la porta.

È stato cacciato da ogni terra, ha vagato in esilio per il mondo.

Ha visto disperdere la sua famiglia, la sua gente perseguitata e fatta a pezzi, ma è sempre sotto processo per il solo fatto di essere nato.

Ha eliminato la folla che voleva linciarlo, ma dicono che deve scusarsi.

Poi ha distrutto una fabbrica di bombe, le bombe erano per lui, ma avrebbe dovuto sentirsi colpevole.

La sorte gli è avversa, le probabilità che viva secondo le regole che il mondo crea per lui sono minime, perché ha un cappio al collo, un fucile alla schiena, e a qualsiasi fanatico viene concessa licenza di ucciderlo.

Non ha veri alleati, deve pagare per tutto, non gli danno niente per amore.

Gli permettono di comprare armi obsolete, ma nessuno combatte anima e corpo al suo fianco.

È circondato da pacifisti, tutti vogliono la pace.

Pregano che cessi lo spargimento di sangue, non farebbero male a una mosca, piangerebbero nel farlo.

Aspettano seduti che il bullo si addormenti.

Ogni impero che l'ha fatto schiavo è scomparso: Egitto, Roma, anche Babilonia.

Ha trasformato la sabbia del deserto in un giardino paradisiaco.

Non va a letto con nessuno, nessuno lo comanda.

I suoi libri più sacri sono calpestati, nessun contratto che ha firmato vale la carta su cui è scritto.

Ha preso le briciole del mondo e le ha tramutate in ricchezza, le malattie in salute.

Qualcuno è in debito con lui? Nessuno, dicono.

Gli piace causare guerre, orgoglio, pregiudizi, superstizioni.

Aspettano il bullo come un cane aspetta il cibo.

Cos'ha fatto per avere così tante cicatrici?

Cambia il corso dei fiumi, inquina la luna e le stelle?

Il bullo del quartiere sta sulla collina, l'orologio si esaurisce.

Il tempo è immobile". 

Wednesday, December 06, 2023

In sessanta giorni, Israele non ne ha azzeccata una





















Il 7 ottobre è stato un dramma, il seguito pure: l’azione militare non è servita a liberare un ostaggio, a catturare un terrorista. Le bombe su Gaza paiono una vendetta furiosa condotta alla cieca. Che fine hanno fatto i leggendari servizi segreti israeliani? Domande sul futuro.

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 6 dicembre 2023

Diciamoci la verità: è in corso un secondo dramma per gli israeliani, dopo la strage del 7 ottobre. In questi due mesi non sono riusciti a liberare un solo ostaggio, a catturare un solo terrorista fra quelli individuati nei video della mattanza, a scoprire il quartier generale di Hamas, che non era sotto l’ospedale Shifa. E neppure a fermare i lanci di razzi palestinesi da Gaza, che costringono ancora centinaia di migliaia di israeliani a nascondersi nei rifugi di giorno e di notte.

Per non parlare del crollo di reputazione provocato dai 15mila palestinesi ammazzati a Gaza: anche togliendo uno zero alla cifra sparata dalla propaganda Hamas, si insinua l'impressione di un disperato replay del “Muoia Sansone con tutti i filistei!” antico tre millenni: una vendetta furiosa condotta abbastanza alla cieca, lontana dall’abituale precisione chirurgica israeliana che minimizzava i “danni collaterali”. 

Per ironia della sorte, i philistin del 2000 a.C. abitavano proprio la zona di Gaza. Oggi le immagini della Striscia rasa al suolo si sovrappongono fatalmente a quelle degli sgozzamenti medievali nei kibbutz, facendole sbiadire.

Insomma, in questi 60 giorni Mossad e Shin Bet hanno continuato a perdere la loro leggendaria aura di servizi segreti più efficienti del mondo: un’ulteriore drammatica sconfitta, dopo quella del 7 ottobre. I loro informatori palestinesi vengono torturati, uccisi e appesi ai lampioni se scoperti o anche solo sospettati da Hamas, Jihad o Hezbollah. La rete di spie arabe non può più garantire l’invincibilità di Israele.

Perciò ora la domanda cruciale è: questo nuovo, inedito senso di insicurezza che gli israeliani provano per la prima volta dal 1948 provocherà un loro indurimento o ammorbidimento? Di solito soltanto i vincitori possono permettersi di essere magnanimi e generosi, mentre gli sconfitti covano frustrazione e voglia di vendetta. Ma la forza può anche trasformarsi in arroganza, mentre una consapevole debolezza spinge a compromessi.

Quindi, prosaicamente: alle prossime elezioni vinceranno i falchi o le colombe, la destra o la sinistra? Israele continuerà a imbottire la Cisgiordania di propri coloni che vaneggiano di Giudea e Samaria, o permetterà sul serio, 30 anni dopo Oslo, uno stato di Palestina indipendente, e quindi non à pois?

Idem per i palestinesi. I massacri di Gaza li renderanno più aggressivi o ragionevoli? Le scene di giubilo bellicoso per la liberazione dei loro prigionieri in cambio degli ostaggi ebrei non promettono bene. I fanatici di Hamas si rafforzeranno, o prevarrà la ragionevolezza di Anp e Fatah?

La banale risposta è: come in ogni conflitto, gli estremisti di entrambe le parti sono i migliori alleati reciproci. Si rinforzano a vicenda, nel convincersi che gli avversari capiscano solo il linguaggio della violenza.

Due mesi di guerra in Israele/Palestina, e quasi due anni in Ucraina. Purtroppo le dinamiche psicologiche collettive sono simili. Senza voler parificare aggressori e aggrediti: i primi restano Putin e Hamas, nonostante le recriminazioni su torti veri o presunti che possono aver subìto in passato Russia e palestinesi, di cui queste due escrescenze cancerose si spacciano rappresentanti e paladini.

Ma il fallimento della troppo annunciata controffensiva ucraina risulta deprimente quanto il disastro israeliano di queste otto settimane. Ci aggrappiamo ancora alla speranza che Vladimir Putin e Hamas si logorino fino a spezzarsi. Ipotizziamo nuovi leader a Gaza, Ramallah, Gerusalemme, Mosca: dotati, se non della lungimiranza di un Nelson Mandela, almeno del realismo dei vari Sadat, Begin, Rabin, Peres, o degli ultimi Sharon e Arafat in versione illuminata.

Il palestinese Marwan Barghouti (lo incontrai 35 anni fa, grande carisma) e l’israeliano Benjamin Gantz sono coetanei, nati a tre giorni e 40 chilometri di distanza nel giugno 1959: riusciranno a vincere anch’essi un Nobel della pace fra qualche anno?

Forse è solo la speranza di un disperato. Ma, come canta l’artista ebreo più famoso al mondo, Bob Dylan: “L’ora più buia è proprio quella prima dell’alba”. 

Thursday, October 26, 2023

Il grillino cannone. Siore e siori, è tornato Di Battista

di Mauro Suttora

Rentrée di Dibba nei talk, stavolta a dire che Israele è pari ai nazisti alle Ardeatine. Ma noi gli vogliamo bene e lo avvertiamo: anche al circo Barnum, dopo i mangiaspade e il nano, l’ultima carta per attrarre il pubblico era la donna cannone

Huffingtonpost.it, 26 ottobre 2023 

Dovrebbe preoccuparsi, il simpatico Alessandro Di Battista. Perché quando al circo Barnum esaurivano il campionario di fenomeni da baraccone, e dopo i mangiafuoco e i mangiaspade non facevano più ridere neanche i gemelli siamesi o il nano imitatore di Napoleone, l’ultima risorsa per attrarre pubblico era la donna cannone.

Allo stesso modo i talk show hanno dovuto resuscitare l’ex deputato grillino, che è riapparso in tv un anno dopo aver deliziato le platee sull’Ucraina. Il copione è lo stesso, e di sicuro effetto. Si intitola "Sì, però". Allora era “Sì, Putin ha invaso l’Ucraina, però non dobbiamo mandarle armi”, o “però l’occidente ha provocato”. Oggi dice “Sì, Hamas ha compiuto la strage del 7 ottobre, però anche Israele ammazza i bambini”, o “però l’occidente dimentica la Palestina occupata”.

Risultato: il piacione di Roma Nord è diventato istantaneamente l’idolo degli estremisti islamici, si è trasformato in Dibbah d’Arabia. Le sue urla di martedì sera, sottotitolate in arabo e titolate “Finalmente un politico italiano dice la verità”, impazzano sulla rete dal Marocco all’Iraq.

Anche a noi, come a Crozza, piace Dibba. È una miniera inesauribile di bufale e gaffes. Il New York Times lo issò in testa alla classifica mondiale delle panzane dopo che riuscì a dire “Metà Nigeria è in mano ai terroristi di Boko Haram, l’altra metà al virus Ebola” (erano venti villaggi e venti casi in tutto). Il folklore continuò con “in Grecia cittadini disperati s’iniettano il virus dell’Aids per prendere il sussidio”.

Poi certi teppisti francesi che indossavano gilet gialli incendiarono i negozi degli Champs-Élysées, e lui trascinò il collega grillino Luigi Di Maio a Parigi a stringer loro la mano. Quando Di Maio divenne inopinatamente ministro degli Esteri, faticò a spiegare la cosa al presidente Emmanuel Macron. E ora che il povero Di Maio è stato nominato – sempre inopinatamente – inviato Ue nel Golfo, si trova sorpassato dall’ex amico in popolarità presso le masse arabe.

Dibbah ci diverte ogni volta che appare sul piccolo schermo. Lo spettacolo è assicurato, e infatti pare che incassi 2.500 euro a puntata per l’erezione delle audiences. Una volta si proclama “testimone oculare” di un inciucio non perché fosse lì presente, ma perché “ho letto le carte coi miei occhi”. Un’altra scivola sul congiuntivo: “Mi auguro che la Meloni non cedi su Casellati”. Nella foga scambia “soddisfamento” per “soddisfazione”, missili ipersonici per supersonici.

Sul Medio Oriente invece ha studiato. Non gli capiterà mai di confondere il Libano con la Libia, come successe a un sottosegretario agli Esteri 5 stelle. Però l’altra sera, dopo aver dato dell’ex fascista a Italo Bocchino e avere incassato “il fascista ce l’hai in casa, tuo padre”, l’ha sparata grossa: ha equiparato Israele ai nazisti, dicendo che la “rappresaglia su Gaza è come quella delle Fosse Ardeatine: si vuole arrivare a 33 bimbi palestinesi uccisi per ogni bimbo israeliano?”.

A parte il delirante paragone, nessuno lì per lì si è accorto dello svarione contabile: Hitler applicò la vendetta nella misura di uno a dieci: 33 soldati uccisi, 330 (molti ebrei) fucilati. Ma nella confusa matematica dibbiana Bibi Netanyahu risulta peggiore del comandante SS Herbert Kappler.

È probabile che ora Dibbah, sull’onda di questi exploit, venga ripescato anche dai 5 stelle e candidato all’Europarlamento da un Giuseppe Conte in debito d’ossigeno. Così il circo verrà trasmesso in Eurovisione. Titolo in inglese, questa volta: "Freak show".

Thursday, October 05, 2023

Il Comune di Milano casca nella stupida burocrazia. E io mi dimetto da ecologista dopo mezzo secolo

Permessi auto. Tutto funzionava perfettamente. Perché cambiare?

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 5 ottobre 2023
  
Esattamente mezzo secolo fa, il 6 ottobre 1973, scoppiò la guerra del Kippur con l'attacco di Egitto e Siria a Israele. L'embargo petrolifero dei Paesi Opec fece esplodere i prezzi energetici, nacque l'austerity, si diffuse la coscienza che le risorse del pianeta sono limitate e occorre risparmiarle. In una parola, ecco l'ecologia.
 
Singoli illuminati come Aurelio Peccei e movimenti ambientalisti denunciavano da anni i mali dell'inquinamento, del cemento e dell'assalto alla natura. Erano nati il Wwf, gli Amici della Terra. Forse a livello di cultura popolare in Italia il più efficace fu Adriano Celentano, con Il Ragazzo della via Gluck (1966) e Un albero di 30 piani (1972).
 
All'oratorio già raccoglievamo la carta usata per finanziare i missionari; come molti giovani, abbracciai con entusiasmo la nuova filosofia dei "limiti dello sviluppo". E negli anni '80 partecipai alla fondazione delle Liste Verdi, con l'allegro simbolo del Sole che ride. Oggi rimango un maniaco della raccolta differenziata, in città mi sposto con i mezzi o in bici, preferisco il treno all'auto e all'aereo. La mia impronta ecologica è minima, cerco di essere sostenibile.
 
Tuttavia. Quattro giorni fa, il primo ottobre, il Comune di Milano ha dimezzato da 50 a 25 i permessi annuali per circolare in quasi tutto il suo territorio (zona B) a carico delle auto diesel euro 5 come la mia, comprata nel 2015. È uno spreco energetico spingere a rottamare veicoli con appena otto anni di età; è un controsenso farlo mentre in contemporanea finanziamo con miliardi i molto più inquinanti tir, tramite gli sconti sulle accise del gasolio. Io uso l'auto solo per trasportare mia madre 90enne alle visite dal dottore. Ho provato ad affidarmi ai tassisti, con i risultati tragici che tutti i clienti di taxi conoscono.
 
Ma pazienza. Un po' di spirito civico e di sacrifici contro il cambiamento climatico sono accettabili. Trovo inaccettabile, però, la stupidità. Il problema è che il Comune di Milano ora costringe a chiedere in anticipo online il permesso per ognuno dei 25 permessi annuali. Il che è un delirio, perché bisogna ogni volta caricare il fronte e retro del libretto di circolazione, mettendoci almeno un quarto d'ora.
 
Non si capisce perché sia stato abbandonato il sistema precedente, dell'anno terminato il 30 settembre: iscrizione online della targa dell'auto una tantum, e poi registrazione automatica da parte del sistema degli ingressi ogni volta che se ne usufruiva, con l'indicazione di quelli residui (risultavo in credito di venti). Tutto funzionava perfettamente. Perché cambiare?
 
L'unica spiegazione è che si voglia dare gratuitamente fastidio agli automobilisti moltiplicando senza motivo per 25 la burocrazia a loro carico. Pensavo fosse un disguido tecnico dei primi giorni o un mio errore, non riuscivo a credere a una simile ottusità. Invece il Comune mi ha confermato che ora è così, e basta.
 
Immagino che ci sia un'ondata di proteste da parte dell'Aci e delle organizzazioni degli automobilisti contro una misura così platealmente inutile e vessatoria. Nel mio piccolo, dopo mezzo secolo mi dimetto da ecologista militante e praticante.

Tuesday, August 03, 2021

Covid: duecento milioni. Diamo un po' di numeri, con qualche sorpresa

di Mauro Suttora

HuffPost, 3 agosto 2021

I contagi covid nel mondo supereranno fra poche ore la barriera dei 200 milioni. I decessi sono quattro milioni e 250mila. La letalità (rapporto morti/malati) è quindi del 2,1%: dimezzata rispetto alla prima ondata. E fra i dati ufficiali Oms troviamo parecchie sorprese.

L’Italia, innanzitutto: i casi aumentano, però abbiamo pochi decessi (ieri solo 20, assai meno dei 50 di Francia e Spagna) e il minimo di terapie intensive fra i grandi Paesi (249 contro 11mila in Usa, 2300 in Russia, 1800 in Spagna, e poi Francia 1200, Regno Unito 889, Giappone 700, Germania 376).

Buone notizie anche da Londra: casi giornalieri dimezzati a 21mila e decessi crollati a 24. Ottime notizie da tutta l’Europa dell’Est, che era stata risparmiata dalla prima ondata e invece devastata dalla seconda: Croazia solo 29 casi giornalieri, Slovenia 31, Slovacchia 6, Cechia 75, Polonia 91, Ungheria 155 (ma con un solo decesso e undici terapie intensive).

Può stare tranquillo anche chi parte per Grecia (duemila casi giornalieri ma appena otto morti) e Portogallo (1190 casi, nove decessi). Preoccupante invece la situazione in Russia, oltre che per i dati (ieri 785 decessi, superata nel mondo solo dai 1568 dell’Indonesia, e più dei 420 in India, 411 in Iran, 337 in Brasile e 129 negli Usa), anche per la loro scarsa attendibilità. 

Da due settimane infatti i morti appaiono fissi ogni giorno appena sotto gli 800, come se Putin avesse ordinato di non superare questa cifra (già un anno fa si scoprì che Mosca falsifica le proprie statistiche).

Nonostante gli allarmi sui nuovi lockdown totali, invece, la Cina ieri ha dichiarato solo 98 casi, nessun decesso e 24 terapie intensive. Peggio Cuba: 9279 contagi, 68 morti e 385 in rianimazione.

Israele ha denunciato per la prima volta nove morti, rispetto ai 2-3 giornalieri dell’ultimo mese, e ben 3130 casi. Tel Aviv cerca di rimediare con la terza dose del vaccino Pfizer per i +60 che hanno effettuato il richiamo almeno cinque mesi fa.

Tornando all’Italia, tranquillità ai nostri confini: ieri in Svizzera un solo morto e 36 terapie intensive, seppure con duemila casi; anche in Austria un solo decesso, e appena 364 nuovi contagi.

Il golpe in Tunisia, invece, si spiega con i suoi dati drammatici: ieri 209 morti e 609 in rianimazione. In proporzione ai 12 milioni di tunisini, sarebbe come se in Italia avessimo oltre mille morti al giorno (livello da noi mai raggiunto) e tremila terapie intensive.

Mauro Suttora

 

Friday, May 14, 2021

Israele - Hamas: Onu, il gigante di superpagati che se la prende comoda















Lenta risposta alla crisi di Gaza: riunione domenica, con calma, dove si dirà di far la pace

di Mauro Suttora



HuffPost, 14 maggio 2021 

Con comodo. Per affrontare l’ennesima guerra Israele-palestinese, il consiglio di sicurezza dell’Onu si riunirà “d’urgenza”. Cioè domenica: quando la guerra magari sarà già finita, con centinaia o migliaia di morti.

A che servono le Nazioni Unite? A poco. Forse a nulla, anche se è bello che nel grattacielo di Le Corbusier e Niemeyer a New York si faccia finta che ci sia un ‘governo mondiale’. 

Nessuna delle crisi e guerre degli ultimi decenni è stata risolta dall’Onu: Birmania, Siria, Libia, Somalia. Per non parlare dei bubboni fissi: Iraq, Afghanistan, Kosovo, Bosnia, Palestina. 

Uno stato pirata e assassino, quello dell’Isis, ha potuto prosperare addirittura per quattro anni senza che le Nazioni Unite riuscissero a coordinare la reazione di Russia, Siria e dei poveri curdi, spazzati via dalla Turchia dopo averci liberati dal flagello islamista.

Ma cos’è l’Onu, in realtà? Un gigante gogoliano con 115mila dipendenti e un bilancio annuo astronomico di 17 miliardi, pieno di burocrati pigri, incompetenti e superpagati, posseduti dall’irresistibile tendenza a perpetuare i problemi invece di risolverli.

Intendiamoci, la sua inefficienza non è maggiore di quella di apparati pubblici a qualsiasi livello: statale, regionale, comunale. Solo che i nostri inutili consiglieri di zona ci costano appena qualche gettone di presenza, mentre i funzionari onusiani incassano stipendi anche da 200mila dollari nelle loro comode sedi di Manhattan, Ginevra o Vienna (diverso è il discorso degli inviati sul campo di agenzie come il Pam, Programma alimentare mondiale, fondamentale per alleviare le carestie).

A volte poi i dirigenti Onu non sono inutili, ma dannosi: come quello dell’Oms che ha censurato un rapporto sul covid perché poteva “rovinare i rapporti” col nostro governo.

Ecco, sono i governi nazionali la rovina delle Nazioni Unite (così come dell’Unione europea, peraltro). Quelli di dittature come la Cina che bloccano ogni risoluzione contro regimi loro alleati (Birmania, Corea del Nord). 

Ma anche quelli corrotti di Paesi in via di sviluppo, che mandano a New York ambasciatori inetti, spesso amici o parenti del dittatorello locale, per fare la bella vita con le loro mogli: quella poltrona in alcuni stati è più ambita perfino di quella di ministro degli Esteri o premier.

Sono stato quattro anni corrispondente a New York, giornalista accreditato al Palazzo di Vetro. Ne ho viste di tutti i colori, da Powell che giurava sull’atomica di Saddam ai diplomatici Onu che parcheggiano ovunque in divieto di sosta perché la loro immunità li esenta dalle multe

Ma è nel Terzo mondo che le Nazioni Unite combinano i guai peggiori. Tiziano Terzani si scagliò contro le tangenti della missione in Cambogia. E negli interventi di peacekeeping e nation building bisogna pregare che i caschi blu non rimangano coinvolti in traffici sessuali, o non si voltino dall’altra parte come nelle stragi di Srebrenica e Ruanda.

Perché in realtà la maggioranza del personale Onu lavora nelle numerose sedi in giro per il mondo: Ginevra (con i palazzi in stile anni Venti della sfortunata Società delle Nazioni), Vienna (Aiea, e l’Ufficio antidroga che vorrebbe comicamente estirpare i papaveri afghani), Roma (Fao), Parigi (Unesco), l’Aia (Corte internazionale di giustizia), Nairobi (Unep, United Nations Environmental program).

Ogni problema ha la sua bella agenzia Onu, cosicché a Santo Domingo c’è l’Instraw (Institute for training and advancement of women), a Berna l’Upu (Unione postale universale), a Londra l’Imo (International Maritime Organization) e a Montreal l’Icao (International Civil Aviation Organization).


Tutte queste simpatiche organizzazioni, prima della pandemia, passavano il tempo soprattutto apparecchiando conferenze leggendarie per spreco di risorse: si è sviluppata una vera e propria microeconomia dei congressi Onu, occasioni di svago e turismo per funzionari governativi di mezzo mondo.

E’ normale che i dirigenti pubblici, anche quelli internazionali, pensino soprattutto alla conservazione del proprio posto di lavoro. All’Unesco, dove i costi fissi di struttura per alcuni programmi raggiungevano l′80% del bilancio, i dipendenti si misero in sciopero della fame contro il nuovo segretario che voleva tagliare gli sprechi.


Ma i più abili, visto che stiamo parlando di Palestina, sono i dirigenti dell’Unrwa (United Nations Relief and Work Agency), l’Agenzia che da ben 72 anni assiste i profughi palestinesi. Erano poche centinaia di migliaia nel 1948, oggi sono oltre cinque milioni. 

Quasi contemporaneamente al loro esodo, nel 1947 anche 300 mila profughi istriani e dalmati (fra i quali mio padre) dovettero abbandonare le proprie terre alla Jugoslavia. Gli esuli italiani affollarono i campi dei rifugiati per qualche mese, al massimo pochissimi anni, e poi trovarono casa e lavoro, oppure emigrarono. Senza alcuna assistenza Onu. 

Quattro generazioni dopo, invece, i palestinesi sono sempre lì, moltiplicati e coccolati con l’assegno giornaliero delle Nazioni Unite. Tutta l’economia della striscia di Gaza è mantenuta in piedi dall’Agenzia per i profughi, che è diventata il maggior datore di lavoro per i palestinesi (ha 30mila dipendenti).

Cosicché domenica, quando con calma si riunirà il Consiglio di sicurezza, come sempre l’Onu farà finta che i suoi 50 eterni campi profughi non siano caduti in mano da decenni a Hamas ed Hezbollah, che predicano la distruzione di Israele, e inviterà entrambe le parti a deporre le armi. Salomonicamente. Anzi no: Salomone era ebreo, quindi innominabile come Israele sulle cartine geografiche arabe.

Mauro Suttora 

Thursday, August 13, 2020

Israele-Emirati, pace storica


DA 26 ANNI SI ASPETTAVA UNA GIORNATA COSÌ. CON L'ACCORDO VINCONO TRUMP, NETANYAHU E GLI ARABI SUNNITI. 
A PERDERE SONO GLI AYATOLLAH IRANIANI E I LORO PROTETTI DI HAMAS.
TEMPI DURI PER GLI SCIITI

di Mauro Suttora

Huffington Post, 13 agosto 2020

Oggi è una bellissima giornata per la pace in Medio Oriente. La aspettavamo da 26 anni, da quel 1994 quando re Hussein di Giordania fu il secondo capo arabo a riconoscere l'esistenza di Israele. Il primo era stato il presidente egiziano Anwar Sadat nel 1979, dopo gli accordi di Camp David con il premier israeliano Menachem Begin: guadagnò il premio Nobel per la pace, ma due anni dopo fu ammazzato dagli estremisti islamici.

Per capire quanto rischino i leader arabi che fanno la pace con Israele, basta un particolare: ai funerali di Sadat non partecipò nessuno di loro, tranne il sudanese Nimeiri.

Ora sono gli emiri Zayed di Abu Dhabi e Maktoum di Dubai a tendere una mano a Israele. Stabiliscono relazioni diplomatiche e annunciano accordi in campo scientifico, turistico ed economico, in cambio del congelamento "per ora" dell'annunciata annessione israeliana di larghe parti della Cisgiordania.

Il progetto 'Vision for peace', illustrato otto mesi fa dal presidente Usa Donald Trump e dal premier israeliano Benjamin Netanyahu senza il coinvolgimento dei palestinesi, prevedeva infatti una Palestina privata della valle del Giordano, con tutti gli insediamenti dei coloni ebraici confermati e la capitale palestinese situata non a Gerusalemme Est, ma in una periferia della città.

Piano rifiutato non solo da Hamas, ma anche dal presidente palestinese Mahmud Abbas e dall'intero mondo musulmano. Ora gli Emirati Arabi Uniti possono sventolare il ritiro provvisorio del piano come una vittoria.

I principali sventolatori però sono Trump e il suo genero ebreo Jared Kushner, marito di Ivanka, che hanno annunciato al mondo lo storico accordo Israele-Emirati di cui sono mallevadori.

Non che il ruolo di garante porti una gran fortuna ai presidenti statunitensi: Jimmy Carter non fu rieletto nel 1980 nonostante Camp David, e Bill Clinton non è certo passato alla storia per gli abortiti accordi di Oslo 1993 fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin.

Viene invece confermata una costante della storia israeliana: sono i premier "duri" quelli che ottengono accordi con gli ex nemici. Così Begin del Likud con l'Egitto, il falco laburista Rabin più della colomba Shimon Peres con Palestina e Giordania, Ariel Sharon che nel 2005 seppe rinunciare alle costose colonie di Gaza, e oggi Netanyahu con gli Emirati.

Gli unici perdenti di questa storica giornata del 13 agosto 2020 sono gli ayatollah iraniani e i loro protetti di Hamas, che infatti gridano al "tradimento". Sono stati nove giorni tremendi per gli sciiti: prima l'esplosione di Beirut del 4 agosto, che ha provocato la bruciatura in effigie in piazza di Hassan Nasrallah, capo di Hezbollah, da parte dei giovani libanesi; oggi l'accordo di Israele con gli Emirati, seconda potenza economica sunnita dopo l'Arabia Saudita.
Trump riesce così a emarginare l'Iran sciita, appoggiandosi agli arabi sunniti storici alleati degli americani.

Quanto alla Turchia, che nel 1949 fu il primo stato musulmano a riconoscere Israele, è dal 2011 che il neosultano Recep Erdogan ha innestato la marcia indietro con Tel Aviv. Prima ha rotto i rapporti diplomatici quando Israele ammazzò dieci cittadini turchi della cosiddetta Flotta della pace; e due anni fa, dopo un parziale riavvicinamento, ha di nuovo richiamato il proprio ambasciatore per protesta contro lo spostamento di quello Usa da Tel Aviv a Gerusalemme, capitale israeliana accettata da pochi.
Mauro Suttora

Wednesday, August 27, 2014

Gaza: vero e falso

di Mauro Suttora

Oggi, 20 agosto 2014

Le propagande contrapposte di Israele e Palestina usano argomenti a effetto. Verifichiamone alcuni.

1) «Lo statuto di Hamas vuole la distruzione di Israele». Vero. Ma al voto del 2006 questa parte venne tolta. I suoi capi hanno detto che riconoscerebbero Israele a determinate condizioni (ritorno dei profughi, capitale palestinese a Gerusalemme Est). In ogni caso, anche Al Fatah voleva distruggere Israele. Il che non impedì al suo leader, Yasser Arafat, di firmare gli accordi di Oslo (1993) che prevedono due popoli in due Stati.
  
2) «Missili e tunnel palestinesi minacciano Israele». Falso. I razzi sono poco più di scaldabagni sgangherati che hanno provocato in tutto tre morti. Vengono neutralizzati dallo scudo aereo israeliano. E anche le uscite dei tunnel sono facilmente scopribili dall’avanzatissima tecnologia di Tel Aviv.

3) «Genocidio: Israele ha ucciso 500 bambini». Falso. I «bambini» sono minorenni, quindi anche bellicosi 17enni caduti con le armi in pugno o morti perché non sgomberati da zone che gli israeliani avvertivano con anticipo di voler bombardare.

4) «Gaza è bloccata da Israele». Falso. Gaza confina anche con l’Egitto, Stato «fratello arabo», il quale potrebbe permettere il transito.

5) «I palestinesi capiscono e rispettano solo il linguaggio della forza». Falso. Israele si è accordata con tutti i suoi vicini: Egitto, Giordania e, di fatto, perfino con la Siria degli Assad. 
Quanto ai palestinesi, Abu Mazen e la Cisgiordania rispettano gli accordi di Oslo e vorrebbero reciprocità da Israele.

6) «Il muro e le colonie ebraiche impediscono la pace». Falso. Il muro ha eliminato gli attacchi suicidi. E le colonie potrebbero sopravvivere se nascesse un clima di fiducia reciproca.
Mauro Suttora

Wednesday, February 09, 2011

Assange come Vanunu?

La tremenda condanna che ha colpito il pacifista Mordechai Vanunu: 18 anni in carcere (11 in isolamento totale) per spionaggio. Aveva rivelato un segreto di Pulcinella: che Israele ha la bomba atomica

di Mauro Suttora

Oggi, 9 febbraio 2011

Altro che buona condotta e sconti di pena: non gli hanno abbuonato neanche un giorno di prigione. E lo hanno tenuto per ben 11 anni in isolamento. È questa la sorte capitata a Mordechai Vanunu, il pacifista oggi 56enne antesignano di Assange che 25 anni fa osò rivelare un segreto di Pulcinella: il possesso della bomba atomica da parte di Israele. Tutti lo sapevano, ma lui poté portare le prove perché di professione faceva il tecnico nucleare e lavorava nella centrale di Dimona.

Vanunu fu sequestrato nel 1986 da un commando del Mossad, i servizi segreti israeliani, con un'operazione segreta mentre si trovava a Roma, dove aveva seguito una bellissima ragazza che si rivelò un'agente segreto. Processato e condannato per alto tradimento, Vanunu ha scontato tutti i suoi 18 anni. È stato liberato nel 2004, ma ancora adesso non può lasciare Israele, non può parlare con cittadini stranieri, non può possedere né usare computer e telefoni cellulari, e se osa avvicinarsi a qualche ambasciata estera viene arrestato di nuovo. Amnesty International lo considera un perseguitato politico.

Gli Stati Uniti vorrebbero applicare ad Assange lo stesso trattamento riservato da Israele a Vanunu: processarlo per alto tradimento e rivelazione di segreti di Stato. Ma questo sembra giuridicamente impossibile, per due motivi: il capo di Wikileaks è cittadino australiano, quindi non ha obblighi particolari di lealtà verso gli Stati Uniti; e la costituzione americana tutela la libertà di parola e di stampa più della riservatezza statale. Quindi pare infondato il timore di Assange di venire estradato prima in Svezia (per una strana accusa di molestie sessuali da parte di due sue ex amanti consenzienti), poi negli Stati Uniti, dove rischierebbe molto di più.

Wednesday, February 07, 2001

I coloni israeliani a Gaza

I COLONI ISRAELIANI A GAZA

di Mauro Suttora

Il Foglio, 7 febbraio 2001

Gaza. Se non stesse lì, ma appena cinque chilometri più a Est, o quindici a Nord, sarebbe un posto bellissimo: una location ideale per un qualsiasi club Mediterranée o Valtur. Invece, è l’inferno dentro all’inferno. Nezarim, infatti, è uno dei 140 insediamenti ebraici in territorio palestinese, e sopravvive soltanto perché è sorvegliato giorno e notte da blindati e carri armati dell’esercito d’Israele.

Morire per Nezarim? È quello che si chiedono gli israeliani dopo il voto. Nezarim è una «goccia» di tre chilometri quadri in riva al Mediterraneo, ficcata proprio in mezzo alla striscia di Gaza. Fino al 1984 era una base militare. Poi, dopo la restituzione del Sinai all’Egitto, ci arrivarono i coloni religiosi sfrattati dai kibbutz che avevano impiantato nella penisola desertica. Oggi sono in 170: lavorano come insegnanti, fanno gli agricoltori, hanno una cava di ghiaia. Coltivano mango, vite, patate dolci e pomodori. Ma vivono assediati dal nemico. 

Ai professori e agli altri pendolari che lavorano in Israele tocca infatti passare ogni giorno per sei chilometri di strada in territorio palestinese, che da quattro mesi sono diventati un incubo. Devono attraversare l’unica superstrada che collega la striscia di Gaza da Nord a Sud, e lì stazionano le autoblindo israeliane. Ma ad ogni metro potrebbe partire l’attacco improvviso, con le pietre e i proiettili.

Per rendere sicure le strade che conducono gli insediamenti, a Gaza come in Cisgiordania, i soldati non hanno esitato a far tabula rasa: hanno abbattuto tutti gli alberi e le case circostanti, dalle quali potrebbero partire gli agguati. Risultato: gli israeliani, un tempo famosi per piantare alberi (la forestazione era diventata quasi una religione civile), ora li sradicano. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani, sono ben 400 gli ettari di campi coltivati con alberi da frutta rasati a zero accanto alle strade, da quando è scoppiata la seconda intifada.

L’ultimo piano di pace Clinton, abortito in gennaio, prevedeva il ritiro da tutti gli insediamenti ebraici a Gaza. In Cisgiordania, invece, gli israeliani speravano di poterne salvare parecchi. Ma adesso, con la vittoria di Ariel Sharon, i 200 mila coloni si sentono al sicuro. La destra, infatti, è disposta a tutto per difendere gli insediamenti. Anche quelli situati nelle posizioni meno difendibili, come Nezarim. 

Ma, paradossalmente, ora è proprio l’esercito ad avanzare le perplessità più solide contro l’abbarbicarsi a oltranza nelle enclaves in territorio palestinese. La domanda, assai concreta, è: «Quanto ci costa, in termini di soldi e di vite umane, assecondare l’orgoglio messianico e spesso fanatico dei coloni?»

In realtà, la situazione degli insediamenti in Palestina è assai diversificata fra loro. A Gaza, per esempio, ce ne sono di tre tipi. All’estremo nord i tre villaggi di Dugit, Alei Sinai e Nissanit sono in continuità territoriale con Israele. I coloni, quasi mille, hanno a disposizione una dozzina di chilometri quadri con tanto di stabilimento balneare (la spiaggia di Shikma, tranquilla e affollata di ombrelloni fino all’estate scorsa), un porticciolo per le barche da pesca, un allevamento di ostriche. 

Si raggiunge facilmente la città israeliana di Ashkelon, i pendolari vanno e vengono liberamente. Non sarà difficile praticare uno scambio territoriale: questi dodici chilometri quadri a Israele in cambio di una superficie analoga ai palestinesi, magari per farci scorrere quella famosa strada-corridoio fra Gaza e la Cisgiordania che gli uomini di Yasser Arafat reclamano dal ‘93.

Ci sono poi i quasi trenta chilometri quadri di Gush Katif, all’estremo Sud della striscia di Gaza, proprio al confine con l’Egitto. Qui vivono seimila coloni suddivisi in una dozzina di paesi, due stazioni balneari, un villaggio turistico, una pista d’aeroporto, decine di ettari di serre che esportano primizie in Israele, a Cipro e (clandestinamente) perfino nelle capitali arabe. 

L’insalata di Gush Katif è famosa in tutta Israele perché è garantita l’assenza di vermi, grazie a sapienti incroci genetici. I fiori vengono spediti in tutta Europa, soprattutto in Olanda. Un allevamento modello in mezzo alle dune del deserto ricava tonnellate di latte da un centinaio di mucche, anche queste trasportate ogni mattina a Tel Aviv in autobotte (e di nascosto anche al Cairo). Nel capoluogo, Neve Dekalim, ci sono asili, scuole elementari e medie, licei, due sinagoghe (una sefardita, l’altra aschenazita), officine industriali.
 
I coloni di Gush Katif, che dal 1970 a oggi hanno trasformato il deserto in una specie di Beverly Hills con palme, prati all’inglese e villette in stile Lego, hanno subìto duri colpi dall’intifada-bis, con tanto di attentati agli autobus, bombe, agguati e vendette. Da ottobre i pendolari palestinesi sono stati licenziati, e per sostituire la manodopera arrivano in turni da una settimana studenti da altri insediamenti in zone più tranquille. 

È il caso delle sedicenni Netta Dahari, che viene da Hadera (vicino a Netanya), Avital Moscovich e Leah Meller, provenienti da Ramat Golan: «Ci ospitano nei cottage del villaggio turistico che d’inverno è chiuso, ma per andare a lavorare nelle serre dobbiamo usare gli autoblindo dell’esercito».

A poche decine di metri, dall’altra parte di un muro di cemento, ci sono infatti i campi profughi palestinesi di Khan Yunis e Rafah. Da lì arrivano periodicamente sassi e pallottole, e sarebbe perfino strano che ciò non accadesse. È troppo stridente, infatti, la differenza fra il tenore di vita californiano di questi insediamenti e la povertà da terzo mondo dei palestinesi che li circondano. Ma almeno l’insediamento di Gush Katif possiede una stazza territoriale tale che per i soldati è relativamente semplice difenderlo.

Diverso e disperato è invece il futuro per il terzo tipo di colonie ebraiche che punteggiano il martoriato territorio palestinese di Gaza: le «gocce» come Nezarim, appunto, e altri isolatissimi microinsediamenti come Kefar Darom (200 membri) e Morag (100). Questi sembrano veramente «un insulto al buon senso e alla giustizia», come ha scritto il corrispondente del Corriere della Sera da Gerusalemme, Guido Olimpio, due settimane fa. 

Per arrivare a Kefar Darom, per esempio, i soldati israeliani hanno dovuto subire l’umiliazione di dividere in due con un muro di cemento vari chilometri dell’unica autostrada di Gaza: una carreggiata agli israeliani, l’altra ai palestinesi. È un apartheid insensato e onerosissimo: perfino Arafat, ogni volta che deve prendere l’aereo, è costretto a passare attraverso queste forche caudine per raggiungere il suo aeroporto. Per di più, gli israeliani bloccano la circolazione civile durante giorni interi come rappresaglia dopo ogni attacco palestinese. 

Quindi la striscia di Gaza, lunga neanche 50 chilometri, risulta divisa ulteriormente in tre compartimenti stagni che non possono comunicare tra loro: lavoratori impediti dal tornare a casa la sera e costretti a dormire da amici, ambulanze bloccate, perfino i convogli dell’Agenzia per i rifugiati dell’Onu non possono circolare. Sarebbe come se venisse bloccato tutto il traffico fra Milano e Monza, o fra Roma e Fiumicino.

I coloni, tuttavia, sono riusciti in questi ultimi mesi a togliersi di dosso la nomea di provocatori, perlomeno agli occhi di fette consistenti dell’opinione pubblica israeliana. Il punto di svolta è stata l’imponente manifestazione dell’8 gennaio a Gerusalemme, organizzata dall’ex dissidente russo Nathan Sharanski (anni di gulag comunista sulle spalle). 

Con i loro canti e balli e la loro solidarietà tranquilla e gioiosa, i coloni accorsi in massa hanno incantato perfino alcune fasce della sinistra, che vedono in loro gli eredi dello spirito socialista e pionieristico dei kibbutz. Così oggi, nella nuova Israele di Sharon, i coloni hanno smesso di essere un problema da risolvere, e qualcuno li considera una bandiera da sventolare.

Gli insediamenti nel deserto di Samaria e Giudea hanno almeno una giustificazione storica, perché coprono a pois il territorio di quello che tremila anni fa era il regno di Davide. Ma le mini-enclaves ebraiche dentro a Gaza saranno difficili da difendere perfino per Sharon, che quando era ministro della Difesa e poi dei Lavori pubblici ne favorì la costruzione. In ogni caso, dalle poche centinaia di metri di Nezarim, oltre che da quelle del monte del Tempio a Gerusalemme, dipende la pace in Medio Oriente.
Mauro Suttora  

Saturday, January 20, 2001

Reportage da Gaza per la seconda Intifada

COME VIVONO I PALESTINESI DA 53 ANNI NEI CAMPI PROFUGHI

dall'inviato a Gaza (Palestina) Mauro Suttora

Oggi, 20 gennaio 2001

Nazir Abdel Fattah ha 36 anni e sei figli: le femminucce Ghadir, Nahil, Hadil, Abir, Hannil, e l’unico maschio Abid, di sei anni. Vive da quand’è nato nel campo profughi Sciatt («spiaggia») a Gaza. Suo padre c’è finito in esilio nel 1948, quando gli arabi attaccarono il neonato stato di Israele e persero la guerra. 

La casa di famiglia a Esdud (Ashdod in ebraico) non c’è più. La città di Ashdod (sulla costa, poche decine di chilometri a nord di Gaza) era stata assegnata a Israele nel piano Onu di spartizione della Palestina nel ‘47, che i Paesi arabi rifiutarono. 

Alla fine della guerra soltanto 160 mila palestinesi accettarono di rimanere sotto Israele. Gli altri 900 mila finirono in esilio: mezzo milione in Cisgiordania, centomila in Libano, 90 mila in Siria. E ben 200 mila qui, nella piccola striscia di Gaza che venne data all’Egitto.

«Nei primi anni la mia famiglia visse sotto una tenda», racconta Nazir, «perché c’era ancora la speranza di tornare a casa entro breve tempo. Solo dopo la seconda guerra contro Israele, nel ‘56, furono costruite le case». 

Quelle che Nazir chiama «case» sono catapecchie di un piano addossate l’una all’altra e separate da stretti vicoli senza asfalto, con la sabbia che si trasforma in fango dopo le piogge. 

In questa baraccopoli vivono da più di mezzo secolo 50 mila profughi palestinesi. I quali nel frattempo, figliando, da 900 mila sono aumentati fino a tre milioni e mezzo. 
Solo Nazir, per esempio, ha sei fratelli. Lui è l’unico rimasto a Gaza con la vecchia mamma, la moglie e i figli. Gli altri si sono trasferiti in Egitto, Libia, Giordania ed Emirati Arabi.

Per questi tre milioni e mezzo di «figli di profughi» i Paesi arabi continuano a reclamare, 53 anni dopo, il «diritto di ritorno» in Israele. Il quale, a sua volta, grazie a massicce immigrazioni ha decuplicato la propria popolazione ebraica: dai 650 mila del 1948 agli attuali sei milioni. 

Difficile, quindi, che questo «diritto» possa essere esercitato. Anche perché molti palestinesi, in realtà, non hanno alcuna intenzione di tornare in posti dove non sono nati.

Lei, Nazir, tornerebbe ad Ashdod? 
«No, non voglio vivere sotto gli israeliani. Anche se lì guadagnerei sette volte di più. Sono meccanico, e qui a Gaza prendo mille shekel al mese [500 mila lire italiane, ndr]. Facendo lo stesso lavoro in Israele arriverei a settemila shekel. Pensate che perfino gli arabi disoccupati, se sono cittadini israeliani, prendono un sussidio di tremila shekel... Ma io voglio stare qui, con la mia famiglia».

È il mezzogiorno del venerdì. Siamo seduti sotto un albero, nel giardino della casetta di Nazir. 
«Io sono fortunato: abbiamo questo spazio di pochi metri quadri, circondato dai muri delle case dei vicini, ma sufficiente a far giocare le mie bambine senza costringerle a stare in strada. Però gli altri abitanti di questo campo vivono in condizioni peggiori. Venite, venite a guardare». 

E Nazir ci porta in «tour» nei tuguri dei profughi, fra bambini cenciosi, donne che stendono i panni nei vicoli e ragazzotti nullafacenti. In questa povertà, è facile per gli estremisti della Jihad («Guerra santa») e di Hamas reclutare adepti.

Viene spontaneo pensare ai ricchissimi emiri arabi miracolati dal petrolio che scorrazzano ogni estate fra Cannes e Porto Cervo sui loro megayacht dal lusso sfrenato. E scandaloso, se paragonato alla miseria in cui sono costretti questi loro «fratelli arabi». 

Possibile che nessun filantropo saudita pensi a costruire qualche centinaio di case dove sistemare decentemente questa povera gente?

In fondo, è la stessa cosa che fanno i miliardari ebrei americani, assai generosi nei confronti di Israele. Ma il tremendo sospetto è che i satrapi arabi giochino al «tanto peggio, tanto meglio», facendo rimanere apposta i palestinesi nella disperazione per meglio aizzarli contro gli odiati israeliani.

«Guardate, questo muro pochi giorni fa è caduto da solo», ci mostra Nazir, «era fatto di mattoni di sabbia pressata, paglia e fango, come tutte le case qui. Solo per miracolo non c’è rimasto sotto qualche bimbo». 

L’unico edificio lussuoso in mezzo alla bidonville è una moschea, costruita quattro anni fa. È l’ora della preghiera, e dagli altoparlanti esce la voce assordante di uno sceicco che predica. Chiediamo di tradurci: «Il profeta Maometto dice che la forza sta nello stare assieme, non separati...»

Non è un mistero che Gaza sia diventata, in questi ultimi sette anni di «autonomia» palestinese, una roccaforte dei fondamentalisti islamici. Con quasi due milioni di abitanti ammassati in pochi chilometri quadri e la disoccupazione al 60 per cento, questo è un terreno fertile per gli integralisti. 

Quando siamo arrivati alla frontiera abbiamo chiesto a un doganiere qual è il migliore albergo della città. «Il Tahuna», ci risponde. Così chiediamo al tassista di portarci lì.

Mentre siamo in viaggio, lo chauffeur dice che anche altri hotel sono belli come il Tahuna... Sospettando che ci voglia portare nell’albergo di qualche suo parente, insistiamo per il Tahuna. «Ma è bruciato», ci annuncia. 

Arriviamo: è vero, tutto distrutto. Ma chi è stato? «L’Intifada». Come, il proprietario era un collaborazionista degli israeliani? «No». Il tassista non va oltre con le spiegazioni. Domandiamo ad altri notizie sul disastro del Tahuna, ma c’è imbarazzo e omertà. È stata la mafia? «Nooo, a Gaza non c’è mafia», spara un poliziotto.

Alla fine, la triste verità: i fondamentalisti hanno bruciato due mesi fa l’albergo perché osava vendere alcolici nel bar (anche se i clienti erano quasi tutti stranieri). 

Insomma, ormai a Gaza è in vigore la legge islamica. Fortunatamente, invece, nell’altra parte della Palestina autonoma (la Cisgiordania) gli integralisti musulmani non sono ancora così forti, anche perché un buon venti per cento dei palestinesi è di religione cristiana.

Dopo gli ultimi scontri, i soldati israeliani hanno bloccato i palestinesi dentro ai loro territori: la frontiera con Israele è chiusa per loro. In più, la striscia di Gaza al suo interno è stata divisa in tre compartimenti stagni che non possono comunicare tra loro. 

Così Montasser El-Tilbani, 27 anni, che lavora a Gaza città ma vive dieci chilometri più a sud, non può neanche tornare a casa la sera e deve dorm ire da amici. E, come lui, centinaia di migliaia di palestinesi hanno la vita privata sconvolta dai tre mesi di «Intifada numero due» (la prima ebbe luogo nell’87/’88).

Montasser parla italiano: due anni fa ha frequentato un corso alla Dante Alighieri di Alessandria d’Egitto, dov’è nato da padre palestinese e madre egiziana. Poi ha lavorato a Sharm el Sheikh, dove ha perfezionato la nostra lingua parlando con turisti italiani. 

Ora lavora a Gaza, ma fra tre mesi dovrà tornarsene in Egitto: «Non ho il passaporto, sono “apolide”, senza identità, perché sono nato in Egitto e neanche qui riconoscono i miei diritti». 

La sua è una storia tipica di quanto i palestinesi siano vittime, oltre che degli israeliani, anche delle dittature arabe che li «usano» a seconda delle convenienze politiche. 
Montasser, infatti, nel 1994 è stato espulso assieme a tutti i palestinesi dalla Libia, dove studiava, perché Gheddafi era contrario all’accordo di pace di Oslo che Arafat aveva firmato con gli israeliani. 

La stessa sorte è capitata nel ‘91 ai molti palestinesi che lavoravano nei ricchi Emirati Arabi, perché Arafat appoggiò Saddam nella guerra del Golfo, mentre gli Emirati stavano con gli americani.

Insomma, alla fine le vittime dei giochi politici sono solo i poveri abitanti dei campi profughi come Nazir, e anche i giovani che si danno da fare come Montasser. 

Un altro giovane palestinese lo troviamo, in divisa, davanti a un palazzo bombardato, vuoto e imbandierato. Si chiama Mohamed Riad Rohmy, ha 24 anni. «Questa è la sede di Fatah, il partito di Arafat», ci spiega, «in ottobre sono arrivati gli elicotteri di Israele, si sono abbassati e hanno lanciato missili».

Non ci furono vittime solo perché gli israeliani avevano avvertito di evacuare pochi minuti prima. È stata un rappresaglia per il linciaggio dei due poliziotti ebrei a Ramallah, quello in cui la Tv italiana mostrò il corpo di uno degli sventurati che veniva gettato dalla finestra, e l’esultanza isterica di un giovane assassino palestinese che mostrava le proprie mani grondanti del sangue del nemico.

Quanto sia difficile risolvere il conflitto Palestina-Israele lo capiamo subito, appena entrati nella dogana palestinese di Erez. Notiamo appesa al muro una grande cartina: Israele non c’è, tutto è considerato Palestina. Ma il riconoscimento non doveva essere reciproco? 

La stessa inquietante cartina campeggia nella hall del nostro albergo sul lungomare, con la poetica scritta «A quelli che sono stati martirizzati per la Terra delle arance tristi», e una promessa di violenza per il futuro: «A quelli che non sono stati ancora martirizzati».

Nell’entrata dell’hotel c’è un ospite straniero sulla cinquantina, con i capelli bianchi. A un certo punto arriva una jeep militare, scendono in fretta quattro soldati palestinesi e lo portano via: «È il pilota personale di Arafat, un austriaco», ci tranquillizza il portiere. 

Ma c’è poco da stare tranquilli, in questi giorni a Gaza. Due ore prima che passassimo, alla frontiera gli israeliani hanno freddato un palestinese che si stava arrampicando sulla rete del confine, gridando «Allah ahbar!» (Dio è grande). 
E nei due giorni che abbiamo trascorso a Gaza, ci sono state altre due vittime dell’Intifada numero due: ormai il conto dei morti, in tre mesi di conflitto, si avvicina a 400 (in grande maggioranza palestinesi). 

I piani di pace crollano uno dopo l’altro. Tutti aspettano le elezioni in Israele, il 6 febbraio. E intanto la famiglia di Nazir Fattah continua a vivere, come da 53 anni, nella catapecchia del campo profughi «Spiaggia» di Gaza.
Mauro Suttora

Wednesday, January 17, 2001

"In questo deserto non c'erano arabi, non glielo daremo mai!"























I nostri inviati sono andati nel Medio Oriente insanguinato per scoprire come vivono i coloni israeliani assediati dall’Intifada palestinese


di Mauro Suttora

foto di Gianni Gelmi


Neve Dekalim è una striscia di dieci chilometri in mezzo a un territorio nemico. “Non abbiamo portato via la terra a nessuno, qui c’era solo sabbia, noi abbiamo creato un ‘paradiso’ e non ce ne andremo”, dicono gli abitanti. “Siamo in mezzo alla guerra, ma ci siamo abituati”


Oggi, 17 gennaio 2001


Israele è un striscia di 300 chilometri circondata da arabi. Gaza è una striscia di 40 chilometri in mezzo agli israeliani. E a sua volta Neve Dekalim, come in un gioco di matrioske, è una striscia di dieci chilometri ficcata fra i palestinesi di Gaza.

Siamo quindi venuti qui, proprio nell’epicentro della guerra infinita fra Israele e Palestina che si trascina da più di mezzo secolo, per capire le ragioni degli uni e degli altri. Neve Dekalim infatti, secondo gli accordi di pace discussi in questi giorni, dovrebbe sparire. Ma i 7mila coloni ebrei che ci lavorano da trent’anni ovviamente non sono d’accordo. E preferiscono vivere nel terrore quotidiano di essere attaccati dal milione di palestinesi di Gaza che li assediano, piuttosto che andarsene.


Arriviamo ad Ashkelon, ultima città israeliana prima di Gaza, e cerchiamo di salire sull’autobus numero 36, l’unico che porta a Neve Dekalim. Ha doppi vetri blindati antiproiettile e una grata di ferro sul parabrezza per proteggersi dalle pietre dell’Intifada. Ma la corriera è piena di soldati e soldatesse di leva diciottenni che tornano dalle licenze: non c’è più posto, neanche in piedi.

In Israele il servizio militare dura tre anni per i maschi, due per le femmine, e non può essere rinviato per motivi di studio. È impressionante vedere tutti questi ragazzi in tuta mimetica verde girare col mitra in spalla, ma anche preoccupante constatare come chiunque possa lasciare qualcosa nel bagagliaio del bus, senza controlli.


Il bus successivo della linea 36 parte solo dopo due ore, e allora cerchiamo un taxi. Ma i tassisti ci avvertono subito: “Fino a Neve Dekalim non andiamo, ci fermiamo alla frontiera di Kissufim. Per gli ultimi dieci chilometri dovete arrangiarvi, perché lì i palestinesi tirano pietre. E anche peggio: una settimana fa ci hanno lasciato la pelle due soldati israeliani di pattuglia”.


Accettiamo lo stesso, e arriviamo alla frontiera fra campi color verde smeraldo che ci sorprendono, perché qui siamo molto a sud, al confine con l’Egitto, quasi nel deserto del Sinai. Il tassista è un ebreo i cui genitori lasciarono la Libia nel 1948, dopo la prima guerra fra Israele e i Paesi arabi. Al confine con la striscia di Gaza telefoniamo all’insediamento di Neve Dekalim. Dror Vanunu, un 25enne che è una specie di assessore, promette di venire a prenderci con la sua auto.


Al posto di blocco ci sono cavalli di frisia, filo spinato, trincee, pezzi di muro di cemento armato prefabbricato e chiodi sull’asfalto. Due giovani coloni ebrei fanno autostop verso Israele sotto il sole. C’è un grande parcheggio di auto: molte appartengono a coloni che fanno ‘car sharing’ (pendolari che usano la stessa macchina, o che non vogliono rischiare di farsi distruggere la propria dai sassi palestinesi).

Qui fino al 1967 (guerra dei Sei giorni di Moshe Dayan) passava la frontiera fra Israele ed Egitto. Poi c’è stata l’occupazione israeliana. Dal 1993, con gli accordi di Oslo fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, Gaza è diventata palestinese.

Ma i soldati israeliani mantengono il controllo delle strade che portano a 140 insediamenti ebraici, sia qui che in Cisgiordania: sono quasi 200mila i coloni israeliani che vivono in territorio palestinese, e sono aumentati di oltre 50mila dal ’93 in poi.


Arriva Vanunu, un simpatico ragazzo laureato in storia del Medio oriente, che sulla nuca porta il tipico ‘centrino’ degli ebrei ortodossi. Con lui attraversiamo i dieci chilometri della ‘linea di fuoco’. La cosiddetta ‘seconda Intifada’ da tre mesi ormai sconvolge queste strade e ha causato quasi 400 morti, in grande maggioranza palestinesi.

“I nostri soldati hanno dovuto tagliare tutti gli alberi lungo la strada per evitare agguati ad auto e bus. Possiamo passare solo con due auto per volta”. E un muro di cemento separa per tre km le due corsie della principale autostrada di Gaza, che la attraversa da nord a sud: apartheid automobilistico, di qua gli israeliani, di là i palestinesi. Vicino alla strada sorgono i silos di una grande fabbrica di farina: “I palestinesi costruiscono apposta edifici alti vicino ai nostri insediamenti per potersi sparare”, si lamenta Vanunu.


Entriamo nel territorio dell’insediamento, che si estende per più di venti kmq fino al mar Mediterraneo: “Qui nel 1970 non vivevano arabi, c’era solo sabbia”, assicura Vanunu, “quindi non abbiamo portato via niente a nessuno”. Oggi tutto il terreno è ricoperto da serre, campi coltivati e addirittura prati all’inglese. Sembra di stare in California, oppure in un golf club.

Arriviamo nella cooperativa agricola di Gush Katif, e Vanunu ci mostra orgoglioso un allevamento modello di 300 mucche: “Ciascuna fa 8mila litri all’anno, più di quelle olandesi”. Il direttore dell’allevamento Beni Ginsberg sta seguendo la mungitura su una rotonda dove le vacche girano automaticamente, per poi tornare nelle stalle all’aperto: “Produciamo quasi quattro milioni di litri all’anno, che mandiamo ogni giorno a Gerusalemme in autobotte”.


Poi c’è la seconda meraviglia: uno sterminato vivaio con milioni di fiori e piante in serra: “Il 60 per cento delle piante d’Israele viene da qui ed esportiamo fiori in tutto il mondo, ma soprattutto in Olanda”, dice Amazia Yehiely, 37 anni, uno dei capi delle settanta famiglie che lavorano nelle serre. “Selezioniamo geneticamente le piante. Prendiamo le cinquemila migliori e le incrociamo, per ottenere la foglia perfetta”.

Pare che, in effetti, l’insalata di Gush Katif sia apprezzata dappertutto in Israele, in quanto assolutamente priva di vermi.

Fino a ottobre lavoravano qui anche molti palestinesi, ma dopo l’attentato a un bus di bambini in cui è morto un insegnante i rapporti si sono interrotti: Israele ha bloccato tutte le frontiere ai palestinesi. Niente più lavoro per decine di migliaia di frontalieri, quindi. Alla mancanza di manodopera i coloni cercano di sopperire con operai thailandesi, e con giovani volontari ebrei che vengono a lavorare in turni settimanali.


Proprio negli spartani bungalow dove sono ospitati questi ragazzi ci porta Vanunu: mangeremo e dormiremo con loro, in quello che fino alla scorsa estate si chiamava ‘Palm Beach’ ed era un affollato villaggio turistico in riva al mare. Ora è protetto dai soldati che lo hanno circondato di filo spinato e sorvegliano la spiaggia con postazioni ogni cento metri. C’è infatti il timore di incursioni notturne da parte di commando palestinesi. Di fronte ai nostri bungalow sta un accampamento di beduini, con le loro tende e cammelli: “Loro sono tranquilli, si trovano bene con noi”, spiega Vanunu,”anche perché sanno che sotto i palestinesi starebbero peggio”.


Due chilometri più avanti c’è il villaggio vero e proprio di Neve Dekalim (traduzione: posto delle palme) che è formato da casette bianche tipo Lego con tetti di tegole arancioni. All’entrata a sinistra c’è una scuola elementare per 700 alunni con uno zoo (“Ogni bimbo ha il suo animale”), a destra il benzinaio. Ci sono poi un centro commerciale con negozi e supermercato, due sinagoghe nuovissime (una di rito sefardita, l’altra askenazita), un centro culturale, un centro religioso ortodosso, una scuola media, due licei (maschile e femminile) e ben sette asili nido e materne.

I coloni, infatti, figliano in quantità: ci sono famiglie con sei e anche dieci rampolli. Il nostro cicerone Vanunu ha già due figli dalla moglie 23enne Keren, professoressa di liceo fuori dall’insediamento, nel paese di Netivot, in Israele. Molti dei coloni sono professionisti (medici, avvocati, scienziati) che lavorano in Israele: quindi il flusso sulla ‘strada del terrore’ è continuo.


La professoressa Ronit Balaban insegna informatica nella scuola media del villaggio, ma poche settimane fa durante la lezione una pallottola palestinese ha spaccato la finestra dell’aula e si è conficcata sotto la sua cattedra. Così le hanno messo dei sacchetti di sabbia davanti ai vetri, e adesso le sembra di stare veramente in trincea. “Durante gli scontri si sentono gli spari”, dice, e aggiunge ironica: “Trovo una certa difficoltà a ottenere l’attenzione dei ragazzi con i proiettili che fischiano…”


La signora Balaban insegna part-time, perché aiuta il marito nella floricoltura: due mesi fa erano alla Fiera di Milano per l’esposizione Gardenia, ora parteciperanno alla Fiera di Essen in Germania. Viaggiano parecchio: quando diedero ad Arafat il Nobel per la pace, loro si spinsero fino a Oslo per fischiarlo personalmente. “La Bibbia parla della Terra promessa come ‘terra di latte e miele’, e noi stiamo lavorando per realizzare il sogno”, dice Vanunu.


Ma, domandiamo, vi rendete conto che siete circondati da palestinesi in un territorio che da sette anni è stato assegnato a loro, e che quindi prima o poi dovrete andarvene?

“In realtà abbiamo una lista d’attesa di 78mila persone che vogliono venire a vivere negli insediamenti”, risponde lui, “da noi sono appena arrivate 15 famiglie dalla Francia. Quanto alla sensazione di stare in un ghetto, beh, sa… essendo ebrei, ci siamo abbastanza abituati. E poi, se ci pensa, è tutta Israele a essere circondata e perennemente insicura, non solo noi. I palestinesi hanno sempre sparato sui bambini e sui bus scolastici”.


A Neve Dekalim invece il bersaglio sono le volontarie sedicenni costrette ad andare al lavoro in un blindato dell’esercito. Questi insediamenti sono sicuramente una provocazione permanente nei confronti dei palestinesi, e anche un ostacolo per il ‘processo di pace’. 

Ma mangiando e parlando a cena con questi ragazzi, ci accorgiamo che lo spirito eroico e pionieristico dei kibbutz di sinistra oggi sopravvive soprattutto qui, fra i coloni che votano a destra (per il generale Ariel Sharon, favorito alle elezioni del 6 febbraio contro l’attuale premier socialista Ehud Barak). Loro, i nazionalisti ebrei, stanno felici in prima linea e costringono l’esercito israeliano a sforzi e spese immense per difenderli.

La loro testardaggine garantisce tensioni e guerre anche per il prossimo mezzo secolo. Non sarebbe più facile e ragionevole spostare tutto (mucche da latte, serre modello, prati perfetti e villette linde) solo dieci chilometri più a est, in Israele?


“Possiamo anche farlo”, concede Vanunu, “ma poi chi ci garantisce che i palestinesi non ci chiederanno qualcos’altro? Perché sui loro libri di scuola, pagati anche dall’Italia, il nome ‘Israele’ è ancora cancellato dalle carte geografiche? Come possiamo fidarci, di fronte a episodi simili? Avete visto la felicità dei giovani palestinesi con le mani lorde del sangue del giovane israeliano linciato a Ramallah?”


Dall’altra parte dei muri di cemento che fanno da fragile frontiera per questi coloni ebrei ci sono i campi profughi di Gaza, Khan Yuinis, Rafah. Vere e proprie bidonvilles dove i fondamentalisti islamici arruolano facilmente giovani esaltati pronti a farsi martirizzare. A pochi metri di distanza, così, si toccano fisicamente la disperazione del Terzo mondo e la supertecnologia degli israeliani. L’assurdo labirinto delle enclaves ebraiche è una spina insopportabile nel fianco dei palestinesi. La prossima settimana andremo a sentire anche le loro ragioni.

Mauro Suttora

1 - continua