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Monday, January 10, 2011

150 anni di Italia

LA SFIDA DELL'UNITÀ

Cosa ci unisce,cosa ci divide

Iniziano le celebrazioni: sette esperti ci raccontano il paese

Festeggeremo il secolo e mezzo di unificazione con federalismo fiscale e spinte separatiste. Ma davvero gli italiani non sono mai stati fatti?

di Marianna Aprile e Mauro Suttora

Oggi, 12 gennaio 2011

Centocinquanta e non sentirli. A un secolo e mezzo dall'unificazione nazionale, e alla vigilia delle celebrazioni che scandiranno il 2011, ci guardiamo attorno e ci chiediamo se, fatta l'Italia, siano poi davvero arrivati anche gli italiani. Non abbiamo mai brillato per patriottismo, anzi, siamo tradizionalmente i primi a inchiodarci alle nostre mancanze. E la politica non aiuta: saluta la ricorrenza accelerando l' attuazione del federalismo fiscale. Che significherà meno soldi per le città del centro-sud: L'Aquila, per esempio, registrerebbe un -66% rispetto al 2010, Napoli -60.

Ironia del destino, i due centri cui il governo di Silvio Berlusconi ha spesso legato le sue sorti negli ultimi due anni. Ci guadagnerebbero - e tanto - Parma (+105%), Padova (+76) e Treviso (+58). A Milano gli introiti crescerebbero del 34%. Insomma, il divario tra Nord e Sud è destinato a crescere, l' antimeridionalismo trova sempre più spazio sui giornali, e anche l' identità nazionale non si sente tanto bene. O no?

«Ci divide la crisi economica, che ci rende meno tolleranti verso gli sprechi e i trasferimenti di danaro da una parte all' altra del Paese: se a Torino non ho l' asilo pubblico, non posso accettare che si investano altri soldi nella Salerno-Reggio Calabria», dice Massimo Gramellini , vicedirettore de La Stampa e autore, con Carlo Fruttero, di La Patria, bene o male . Gramellini però non crede alla divisione tra Nord e Sud: «Piuttosto siamo ostili a Roma, vista come centro degli sprechi. In fondo, l' Italia è la somma di più capitali. Se abbiamo così tante città d' arte è proprio perché i centri di potere erano molti e ogni signore investiva sul suo territorio. Dovremmo valorizzare quelle storie, invece che comprimerle: recuperarle può aiutare a riscoprire il senso delle istituzioni».

Ma il federalismo non aumenterà la distanza? «Con le giuste contromisure, il federalismo può invece avere una funzione anti-disgregante. È giusto che i soldi vengano spesi là dove sono prodotti. Ma non a scapito del senso di solidarietà, che però deve passare da una pretesa di standard di efficienza, che ridia responsabilità ai centri di spesa».

Sul federalismo e sulle sue conseguenze si può essere o meno d' accordo. Cos' è invece che ci unirà nonostante tutto? «Il contropiede. Come diceva Gianni Brera, l'italiano vince tutte le sue battaglie in contropiede: dal Piave al Bernabeu del Mondiale 1982, noi non abbiamo mai attaccato, perché siamo privi di disciplina. Però siamo furbi, e alla bisogna partiamo in contropiede. Questo unisce il torinese al napoletano. A scacchi saremmo il cavallo: imprevedibile e pieno di risorse».

Gianluigi Nuzzi ha scritto Metastasi, oltre 50 mila copie in tre settimane, in cui attraverso le parole del pentito Giuseppe Di Bella traccia un quadro desolante della diffusione della 'ndrangheta al nord. Nuzzi, a unire l' Italia è il malaffare? «A guardare la ragnatela di affari della ' ndrangheta in tutto il Paese viene fuori un' altra Italia, meno legata alla suddivisione tradizionale nord-sud. Ma a legare italianità e 'ndrangheta sono altri aspetti».

E inizia l'elenco: «La 'ndrangheta ha la doppia velocità tipica del nostro Paese. Da un lato la ricerca di metodi sempre più tecnologici per il riciclaggio, dall' altra un attaccamento morboso alle tradizioni e a una certa ritualità. E poi c' è quell' osannare in pubblico le regole, in particolare i legami di famiglia, una celebrazione cui corrispondono comportamenti privati non altrettanto rispettosi». Insomma, gli 'ndranghetisti sono arci-italiani? «Hanno la tendenza a una contrapposizione nettissima tra "noi" e "loro", un innato senso di superiorità, quello sì molto italiano».

«Certo, la mafia unisce l' Italia», dice Pino Aprile, autore di Terroni, terzo saggio più venduto del 2010. «Nel senso che versa i suoi soldi al Nord, mentre nel Sud si versa il sangue delle sue vittime. Tutte meridionali, tranne il generale Dalla Chiesa e l'avvocato Ambrosoli che la propria città, Milano, lasciò uccidere perché la sua onestà bloccava gli affari...».

Il successo di Terroni è parallelo a quello di un altro libro, Il sacco del Nord, scritto dal professore universitario Luca Ricolfi e diventato il vangelo della Lega Nord, nonostante il suo autore sia di sinistra.

Su un punto però Aprile e Ricolfi concordano: 150 anni fa, all' unificazione, il Sud non era sottosviluppato rispetto al Nord. Il divario produttivo si è creato dopo. «Poi, dal 1950 al '75 il Sud aveva diminuito la distanza, ma da allora le cose sono di nuovo peggiorate», spiega Ricolfi. Due i fattori del recupero: il boom economico e la Cassa per il Mezzogiorno. Grandi speranze: l'Alfasud, le autostrade... «Poi però l'industrializzazione ha attecchito poco, e ora il Nord ogni anno deve trasferire circa 50 miliardi al Sud».

Sono i 50 miliardi che fanno imbestialire i leghisti.
«Ma attenti: anche gli elettori di Pd e Pdl al nord condividono la rabbia per gli sprechi», avverte Ricolfi. A peggiorare le cose, l'aumento delle tasse: «Nel 1980 erano al 30 per cento, oggi siamo al 43. Ma, calcolando gli evasori, chi paga le imposte deve versare quasi il 60 per cento».

Per questo, nel 1987 la Lega ha mandato i primi parlamentari a Roma. «Ma fra le regioni sprecone non ci sono solo quelle del Sud», avverte Ricolfi. «La Liguria, per esempio, è a i primi posti per evasione e inefficienza. L'Umbria è prima per assistenzialismo. E anche le regioni autonome del Nord Val d'Aosta, Trentino-Alto Adige e Friuli incassano più di quel che pagano in tasse. Viceversa, al Sud bisogna distinguere fra le regioni con la piaga mafiosa - Sicilia, Calabria, Campania - e le altre, che stanno meglio».

Ci salverà la cultura

Tra i casi che hanno caratterizzato questo 2010 appena terminato c'è senza dubbio quello di Benvenuti al Sud, il film di Luca Miniero con Claudio Bisio protagonista, che ha incassato 30 milioni di euro al botteghino.
Miniero è un napoletano vissuto a Milano ed è fermamente convinto di una cosa: «Tra settentrionali e meridionali le affinità sono più delle discrepanze. La rappresentazione degli italiani come un popolo diviso è un affare tutto politico, e molto strumentale. Certo, il nostro patriottismo è diverso da quello, per esempio, dei francesi: abbiamo un' identità più sfaccettata. Ma il vero problema sono i pregiudizi, anche se non credo che l'antimeridionalismo sia davvero diffuso come ci viene raccontato».

Dopo aver girato tutta l'Italia dietro al suo film, Miniero non ha dubbi: «Ci uniscono senso dell' umorismo e la solidarietà nelle catastrofi, quel sentimento nazionale che quando succede qualcosa fa muovere italiani da tutto il Paese per aiutare». Quindi l'italiano si vede nel momento del bisogno? «E davanti alla nazionale di calcio. Il problema è che con la crisi si accentuano gli egoismi».

Anche a Sud, però. Basti pensare alle spinte autonomiste dei siciliani Raffaele Lombardo e Gianfranco Miccichè: «Ci sono sempre state, e sono sempre state un po' ridicole. Il vero problema è che dovremmo smettere di piangerci addosso, e cercare di far evolvere il nostro orgoglio provinciale in orgoglio nazionale. Dovremmo imparare a guardarci con gli occhi degli stranieri».

Più pessimista è Renzo Arbore, mattatore dell'Orchestra Italiana, con la quale fa sold out in tutta italia e in tutto il mondo: «Sono un curioso degli italiani ma devo amaramente dividerli in due categorie, gli italiani "sì" e gli italiani "no". I primi hanno fame di cultura, conoscono le bellezze di questo fantastico Paese e sanno valorizzarle. Pensate alla rivalutazione dei borghi, dalle Alpi a Santa Maria di Leuca. I secondi sono macroscopiche eccezioni rispetto ai primi, ma egregiamente rappresentate, e foraggiate, dalla tv dei reality, dei toni esasperati e del gossip. La tv è il nostro dittatore, perennemente all' inseguimento del cattivo gusto».

Un cattivo gusto che cozza con l' essenza profonda dell' italiano: «Siamo un Paese benedetto da Dio, un po' meno dagli italiani. La chiave di volta può essere una sempre maggiore consapevolezza culturale. Dove manca la cultura, per colpa della miseria, della disoccupazione o di altro, l' Italia è ancora da fare».

Già, ma come? «Sono abbastanza vecchio da aver vissuto fascismo, antifascismo, il boom , lo sboom , la crisi. E mi sento di poter dire che una nuova stagione si sta affacciando, un nuovo rinascimento che richiederà uomini all' altezza, figli di una generazione che ha girato il mondo e che torna in Italia con la consapevolezza di esser nata nel posto più bello del mondo».

La soluzione, quindi, arriverà dai giovani che ora fuggono all'estero? «I talenti fuggono perché la politica e le sue politiche non sono alla loro altezza. Da noi le eccellenze vengono ignorate: il jazz italiano è migliore di quello americano, la musica popolare italiana è la più varia e poliedrica del mondo. Poi ci sono la moda, la gastronomia. Noi siamo il simbolo del gusto, e all' estero ci percepiscono così».

Sembra di intravvedere un "però"... «Il pessimo senso civico di alcuni, la maleducazione, il degrado di certe zone del Sud, che indigna me per primo e che declassa agli occhi degli stranieri anche città virtuose come Torino e Venezia».

Anche Vittorio Sgarbi, che ha appena scritto Viaggio sentimentale nell'Italia dei desideri (Bompiani), punta su arte e cultura come motivo di orgoglio unificante: «Siamo uniti dalla bellezza. Gli stranieri vengono in Italia per Taormina e Capri, Ischia e Costa Smeralda. Non per Cinisello o Valdobbiadene. Nonostante tutte le catastrofi estetiche combinate dai geometri negli ultimi 50 anni, Gore Vidal prende casa a Ravello, e lì Oscar Niemeyer costruisce l'auditorium. E tutto questo ha un grande ritorno economico. Il turismo del borgo, il lusso dell'albergo diffuso a Santo Stefano di Sessanio negli Abruzzi. Perfino casa mia, il palazzo Cavallini Sgarbi di Ferrara, sta per diventare un'attrazione: fu l'abitazione di Ludovico Ariosto, e la apriremo al pubblico in gennaio».

Ricapitolando: il gusto, la solidarietà, la cultura e l'arte (soprattutto quella di sfangarla in zona Cesarini) ci rendono tutti italiani nonostante le divisioni politiche, economiche e ideologiche. Come dire che aveva ragione ancora una volta Giorgio Gaber: «Noi non ci sentiamo italiani, ma per fortuna o purtroppo lo siamo».

Marianna Aprile e Mauro Suttora