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Thursday, February 29, 2024

Nobel per la pace 2024 ad un italiano?



















Secondo il Peace research institute Oslo, il 49enne Matteo Mecacci, che da tre anni dirige l'Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell'Osce, è uno dei cinque favoriti. Quanto è attendibile il pronostico?

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 29 febbraio 2024

Un italiano vincerà il premio Nobel per la Pace 2024? Secondo il Prio (Peace research institute Oslo) il 49enne Matteo Mecacci, che da tre anni dirige l'Ufficio per le istituzioni democratiche e i diritti umani dell'Osce, è uno dei cinque favoriti. Gli altri sono la Corte internazionale di giustizia dell'Aja, Philippe Lazzarini e la sua Unrwa (l'Agenzia Onu per i profughi palestinesi), la Campaign to Stop Killer Robots con Article 36, e l'Unesco con il Consiglio d'Europa.

Tuttavia le candidature della Corte dell'Aja e dell'Agenzia profughi sono controverse, perché legate alla sanguinosa attualità delle guerre d'Ucraina e Gaza. Invece gli osservatori Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa), che monitorano le elezioni in 57 Paesi, si situano per definizione al di sopra delle parti. Sono diventati i più autorevoli al mondo in materia di elezioni, nessuno li contesta. Tranne Russia e Bielorussia, che hanno rifiutato di invitarli a controllare le loro votazioni.

"Quest'anno andrà alle urne metà della popolazione mondiale", spiega il direttore del Prio Henrik Urdal, "anche se non solo in stati democratici. Ma è dimostrato che le democrazie godono di maggior pace e stabilità degli altri regimi. E poiché alla base della democrazia ci sono le elezioni, gli osservatori giocano un ruolo fondamentale nel garantire la legittimità dei processi elettorali". 

Quanto è attendibile il pronostico del Prio? La sede dell'istituto di Urdal è a Oslo come il Comitato di cinque saggi eletti dal parlamento norvegese, che ogni anno in ottobre assegnano il Nobel della Pace (gli altri Nobel invece vengono scelti a Stoccolma). Ma il Prio, proprio per essere libero di commentare il premio, rinuncia al diritto di avanzare candidature (quest'anno sono 300) che gli spetterebbe. Quindi le sue previsioni sono un po' le semifinali del Nobel, così come i Golden Globe anticipano e indirizzano i premi Oscar nel cinema. 

Fra i vincitori azzeccati ultimamente spiccano il medico congolese Denis Mukwege nel 2018 e l'iraniana Narges Mohammadi l'anno scorso. Negli anni scorsi il Prio aveva indicato tra i favoriti Alexei Navalny: lo scudo del premio Nobel gli avrebbe probabilmente salvato la vita. Invece il dissidente russo Oleg Orlov, vincitore con il gruppo Memorial nel 2022, proprio ieri non è riuscito a evitare una condanna di due anni e mezzo di carcere comminatagli da Vladimir Putin. 

Prima di approdare a Varsavia negli uffici dell'Osce, Mecacci è stato deputato radicale (impegnandosi nell'Onu a New York per la moratoria alla pena di morte e la Corte penale internazionale) e direttore dell'International campaign for Tibet, la fondazione di Richard Gere. Sarebbe il primo italiano dopo il giornalista garibaldino Ernesto Teodoro Moneta nel 1907 ad aggiudicarsi, direttamente o alla guida di un organismo premiato, il Nobel per la Pace. 

Di recente sono stati candidati Federica Mogherini della Ue per il suo impegno nell'accordo antinucleare con l'Iran, e Filippo Grandi, da otto anni Alto commissario Onu per i rifugiati. L'agenzia di Grandi prenderebbe in carico i profughi palestinesi se l'Unrwa venisse travolta dalle accuse di vicinanza con Hamas. 

Sunday, December 11, 2022

La mini naja di La Russa già una volta è stata un fiasco. Buona per chi voleva il basco da paracadutista



La introdusse nel 2009 quand'era ministro della Difesa. Si esaurì dopo tre anni, con uno stanziamento di 21 milioni e una constatazione di sostanziale inutilità. "Così i giovani potevano mettersi i baschi amaranto dei paracadutisti o i cappelli da alpini"

di Mauro Suttora

Huffpost, 11 dicembre 2022

Il 15 dicembre 1972 una legge permise l'obiezione di coscienza al servizio militare obbligatorio in Italia. Per curiosa coincidenza, a mezzo secolo esatto di distanza il presidente del Senato Ignazio La Russa torna alla carica riproponendo la sua mini-naja volontaria, che già introdusse nel 2009 quand'era ministro della Difesa. Questa volta dura sei settimane invece di tre, ma è prevedibile che provocherà le stesse polemiche di allora: "Ecco il militarista che resuscita i campi Dux di mussoliniana memoria!".
 

Quella mini-naja si esaurì dopo tre anni, con uno stanziamento di 21 milioni e una constatazione di sostanziale inutilità: "Serve solo ad alimentare finanziariamente le associazioni d'arma", scrisse Gianandrea Gaiani su Analisi Difesa, "che dalla fine del servizio di leva nel 2004 non hanno più migliaia di nuovi iscritti ogni anno, e stanno invecchiando. I giovani dopo sole tre settimane di corso possono mettersi i baschi amaranto dei paracadutisti o i cappelli da alpini, privilegio un tempo riservato ai veri soldati".

Poi però l'idea fu adottata anche a sinistra, dalla ministra della Difesa Roberta Pinotti (Pd) che non la ripristinò, ma disse che era comunque un buon modo per avvicinare i giovani alle forze armate. E anche il buon La Russa è stato umanizzato dall'imitazione di Fiorello, che lo ha dipinto come un innocuo fanatico non più dei manganelli, ma delle divise: da ministro le indossava ogni volta che poteva, quando andava a visitare i nostri soldati in Iraq o Afghanistan. 

Quindi adesso passare 40 giorni in caserma non appare più come un passatempo per criptofasci. Ma a cosa servirà? A familiarizzare i giovani con pistole e fucili? Un corso rapido per imparare a sparare può sicuramente essere completato in sei settimane. Così poi sarà più facile passare all'azione, come il signore di Fidene stamane.

Forse le più favorevoli a veder partire i propri figli, anche per periodi più lunghi, sono le mamme d'Italia. Le quali magari auspicano per i loro bamboccioni un contatto ravvicinato con i mitici caporali e sergenti che se non altro insegnavano loro a farsi da mangiare e rifarsi il letto. 

Ma per questo ci vorrebbero trasferimenti dall'altra parte d'Italia, mentre ormai anche il servizio civile volontario (8-12 mesi in un ente a 444 euro mensili per 25 ore settimanali, ora lo stanno facendo in 44mila) è a domicilio, nella stessa città di residenza. Insomma, i mammoni viziati non schiodano, restano a casa.

Invece La Russa pensa sicuramente a qualcosa di più virile. E nell'anno in cui Putin ha sdoganato dopo otto decenni l'idea di guerra in Europa, probabilmente ha centrato lo zeitgeist. Lo spirito del tempo spinge ad andare a vedere da vicino, se non altro per curiosità, quegli aggeggi che c'eravamo dimenticati esistessero, e che invece entrano in funzione per difendersi quando un dittatore invade un Paese: le armi. 

Quindi, se proprio vogliamo far familiarizzare i nostri pargoli con la nuova realtà bellica, non limitiamoci a mandarli dai simpatici alpini con le loro folcloristiche penne ed epiteti etilico-maschilisti. Organizziamo piuttosto stage educational per studiare, ad esempio, le blindature dei nostri ottimi veicoli Lince che si stanno fronteggiando nel Donbass.  Ne sono dotati sia i russi che gli ucraini: ai primi li abbiamo venduti, ai secondi regalati.

Oppure una mini-naja negli impianti Leonardo, apprezzatissimo esportatore di sistemi d'arma. È lì che si costruisce il futuro, con frontiere tecnologiche d'avanguardia. Eccellenze italiane: come moda, design, cibo, vino. Con notevoli sbocchi occupazionali, altro che punti in più per qualche noioso concorso parastatale. 

Monday, November 28, 2022

Ucraina, Kosovo, Libia. Seguire l'esempio italiano



La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto fra kosovari e serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 28 Novembre 2022 

L'Italia può insegnare molto a Ucraina, Kosovo e Libia. La soluzione per Crimea e Donbass, per il conflitto kosovari/serbi, e anche per quello fra Cirenaica e Tripolitania, divise ormai da dieci anni, è rinvenibile nella nostra storia recente.
Il Territorio Libero di Trieste, per esempio. Quando ci sono dispute di frontiera apparentemente insolubili, come l'attuale fra Kiev e Mosca, la via d'uscita più semplice non sempre è spartire i territori contesi fra i due avversari, ma creare ex novo una terza entità.
Nel maggio 1945, alla fine della Seconda guerra mondiale, la Jugoslavia di Tito s'impossessò di Trieste. Di fronte al fatto compiuto, non era scontato per l'Italia riuscire a recuperare il capoluogo giuliano con mezzi pacifici. Anche perché, dei quattro Alleati vincitori, l'Urss appoggiava il dittatore comunista, la Gran Bretagna lo aveva armato contro di noi, e la Francia di De Gaulle voleva vendicare la 'pugnalata' fascista del 1940.
Fu così che, con un guizzo creativo, la città e la costa nord dell'Istria furono inglobate nel Tlt (Territorio libero di Trieste). Il quale durò fino al 1954. Nel frattempo gli animi si erano calmati, anche perché Tito aveva rotto con Stalin. Cosicché non ebbe problemi ad abbandonare ogni rivendicazione sulla città e il Carso triestino, in cambio di Capodistria, Portorose e Pirano: era minacciato più da est che da ovest.

Il tempo lenisce gli ardori, i furori e i dolori. Oggi appare inaccettabile sia per gli ucraini che per Putin rinunciare a Crimea e Donbass. Ma un'amministrazione provvisoria, magari con mandato Onu, potrebbe svelenire gli animi. Intendiamoci, le 'città libere' non sono state sempre un successo. Quella di Danzica finì come finì, nel 1939. E anche l'altro lascito della Prima guerra mondiale, Fiume, provocò subito la spedizione di D'Annunzio contro la città autonoma fra Italia e Jugoslavia. Ma gli opposti nazionalismi non vanno fatti incancrenire.
È questo l'errore commesso da Onu e Ue in Kosovo. Mai avrei pensato, quando nel 1999 seguii a Pec le nostre truppe con bandiera Nato, che quasi un quarto di secolo dopo le avrei trovate ancora lì. Le missioni di peacekeeping non possono durare in eterno. E infatti ora la situazione è di nuovo esplosiva: serbi e albanesi si confrontano sul fiume Ibar, che taglia in due la città di Mitrovica. A nord sono maggioranza i primi, che però risultano una minoranza di centomila abitanti rispetto al milione di kosovari albanesi a sud.

Qui l'unica soluzione è una pulizia etnica nonviolenta e volontaria. Non spaventatevi per la parola: nella vita pubblica come in quella privata, se non si riesce a convivere è meglio separarsi. Repubblica ceca e Slovacchia hanno divorziato subito dopo il crollo del Muro di Berlino, nel 1990. La Jugoslavia invece ha patito un decennio di sanguinosa guerra civile.
È triste dirlo, ma in Bosnia e Kosovo la convivenza fra musulmani e cristiani ortodossi risulta ancor oggi impossibile. Il labirinto bosniaco, con le sue enclaves etniche e l'aggravante del terzo incomodo, i croati cattolici, appare difficile da districare. In Kosovo invece sarebbe facile tracciare una linea di demarcazione: la zona a maggioranza serba vada sotto Belgrado, in cambio di compensazioni territoriali (alcuni paesi albanesi in Serbia) e finanziarie.
Sono figlio di profughi istriani, so quanto costi abbandonare la propria terra. Ma non si può vivere eternamente nella tensione, nell'oppressione, nel terrore. E quindi l'esodo nel 1947 della mia famiglia con i 300mila istrodalmati fu tutto sommato la decisione più saggia. Anche perché ci ha risparmiato mezzo secolo di miseria economica e morale sotto una dittatura comunista.
Naturalmente i danni e le perdite subite dai kosovari che accetteranno di trasferirsi spontaneamente da una parte all'altra della nuova frontiera dovranno essere risarciti fino all'ultimo centesimo. Anzi, all'ultimo euro. Perché in cambio di questa complicata e dolorosa pacificazione è auspicabile che tutta la regione entri finalmente nell'Unione europea: Kosovo, Serbia, Albania. I confini diventano più accettabili quando svaniscono: qualcuno oggi si accorge se da Trieste a Gorizia entra in Slovenia? (E fra un mese anche la Croazia adotterà l'euro).

L'auspicabile opzione etnica in Kosovo (praticabile anche in Ucraina) ha un precedente in Alto Adige. Nel 1939 Mussolini e Hitler si accordarono per trasferire in Germania o Austria i sudtirolesi che lo avessero desiderato. Optarono per la heimat tedesca in 86 su cento: quasi 200mila (qualche germanofono anche in Trentino, nell'Ampezzano veneto e a Tarvisio in Friuli). Poi però, con la guerra, i trasferimenti procedettero a rilento: se ne andarono solo in 70mila. E tutto si bloccò dopo l'8 settembre, quando il Trentino-Alto Adige passò direttamente al Reich.
Come racconta Carlo von Guggenberg nel suo libro appena pubblicato 'L'Altro Adige. Optanti e Dableiber per la nascita della Stella Alpina' (Praxis Edizioni), a quel punto nacque un dramma. I sudtirolesi di lingua tedesca che avevano optato si ritrovarono in mezzo al guado: molti non volevano più partire, e dei già partiti 20mila tornarono. Ci fu tensione con accuse reciproche di tradimento. Nei paesini di montagna qualcuno aveva già adocchiato le fattorie e i campi lasciati dagli optanti. C'è chi finì nella vasca di qualche fontana durante i tafferugli.
Fu impresa non facile riappacificare i sudtirolesi fra loro, prima che con gli italiani. Ci riuscirono i fondatori della Svp (Südtitoler VolksPartei), fra i quali giganteggiarono Erich Amonn, Otto von Guggenberg (nonno dell'autore del libro) e poi Silvius Magnago. Anche grazie a loro, e nonostante i terroristi degli anni 60, quella della minoranza tedesca in Alto Adige è una storia di successo, studiata nel mondo intero. E speriamo presto anche in Ucraina.

La Libia, infine. Anche qui, come in Istria e Kosovo: meglio amputare che deteriorarsi in cancrena. Dopo la Primavera araba del 2011 che cacciò il dittatore Gheddafi, il Paese è irrimediabilmente diviso in due: Tripolitania e Cirenaica. Si susseguono patetici inviati Onu che continuano ad auspicare un'unità inesistente. Tripoli e Bengasi, peraltro, sono separate da sempre: non solo sotto l'impero ottomano, ma anche nei primi vent'anni da colonia italiana, dopo il 1911. 
Quindi, come in Irlanda del Nord e in Sud Sudan, meglio dividere chi non vuole vivere assieme. Senza tenere unite artificialmente realtà diverse: ci ammonisce la guerra civile in Yemen, se non ricordiamo il Biafra o il Bangladesh.
Petrolio e gas ci sono da una parte e dall'altra, nessun libico si impoverirebbe. L'Eni continua a pompare, nonostante i volumi ridotti. In più, a Tripoli riecco i soldati turchi tornati dopo un secolo, e a Bengasi i simpatici mercenari russi della Wagner. Pare che ora per farci dispetto ci mandino barconi di migranti pure da lì, anche se dalla Cirenaica la distanza è doppia. Urge intervenire con proposte realistiche e intelligenti, senza inseguire miraggi di ripristino unitario.

Tuesday, November 22, 2022

Giganti del rock dai piedi di argilla. Da Luigi Tenco a Kurt Cobain, quei 13 che non sopportavano la vita



Folgorante libro di Paolo Vites: "Rock'n'roll suicide. Il lato oscuro del rock". Il critico musicale racconta il fenomeno dei musicisti uccisi dalla depressione

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 22 novembre 2022

Dopo quarant'anni esatti, resta imbattuto il record di Michael Jackson: il suo disco 'Thriller', uscito nel novembre 1982, con cento milioni di copie è ancora il disco più venduto della storia (il doppio del secondo, 'Dark side of the moon' dei Pink Floyd). Allora Jackson aveva 24 anni. A soli 50, nel 2009, muore per intossicazione di farmaci: propofol, lorazepam, midazolam, diazepam, lidocaina, efedrina. Tecnicamente non fu suicidio. Ma si trattò comunque di una morte provocata dall'autodistruzione, come quella di altre rockstar (Elvis Presley, Prince, Tom Petty) raccontate nell'ultimo, folgorante libro del critico musicale Paolo Vites: 'Rock'n'roll suicide. Il lato oscuro del rock' (Caissa Italia editore).

Vites tralascia la stranota lista dei rocker morti all'esatto scoccare dei loro 27 anni per droga e alcol, da Brian Jones ad Amy Winehouse, passando per i tre J (Jimi Hendrix, Janis Joplin, Jim Morrison). Si concentra su tredici casi di musicisti che si sono suicidati in piena regola: impiccandosi, sparandosi o per overdose. Da Luigi Tenco a Kurt Cobain, da Whitney Houston alla cantante dei Cranberries, da quello degli Inxs ('in eccesso') a illustri sconosciuti come Neal Casal che solo Vites, superesperto di musica Usa, conosce. Tutti accomunati dalla depressione.

"Woodstock, 17 agosto 1969: salire sul palco, sedersi al proprio strumento di fronte a oltre mezzo milione di persone. Esibirsi. Quindici giorni dopo, quasi altrettanti spettatori all’Isola di Wight. Pochi anni dopo, il 28 luglio 1973, ancora sul palco per l’evento, come riportato nel Guinness dei primati, con «il pubblico più numeroso a un festival pop»: il Summer Jam al Watkins Glen, con oltre 600mila persone. Poi lo Stadio di Wembley, a Londra. E in mezzo gli stadi di tutta l’America, i teatri più lussuosi e ricchi di fama come la Royal Albert Hall di Londra, la Carnegie Hall di New York e l’Olympia di Parigi.  Il massimo a cui può aspirare un musicista rock, e non sono molti quelli che hanno toccato tali vette. Lui, Richard Manuel, insieme ai suoi compagni di The Band, è stato uno di quei giganti. Che purtroppo avevano dei piedi d’argilla, poiché vittime delle promesse e dei tradimenti del rock’n’roll".

Questo è l'inizio del capitolo sul pianista di The Band, il gruppo di Bob Dylan, che si è tolto la vita nel 1986. Lo si sente in The Weight, colonna sonora di Easy Rider; lo si vede nel film 'The Last Waltz' di Martin Scorsese. Si è appeso in bagno con il collo stretto nella sua cintura. Ma, attenti, quello di Vites non è un libro lugubre. Attraverso i suoi sapienti racconti si entra in un mondo che, come quello dello sport, è l'unico ad avere affascinato (e continua a farlo) miliardi di giovani in tutto il mondo negli ultimi 70 anni. E pazienza se in qualche caso non c'è il lieto fine.

Penso di essere l'unico oltre a Vites, in Italia, a ricordarsi di Phil Ochs. Ne ero un fan maniacale, avevo imparato a memoria la sua canzone più famosa ('I ain't marchin' anymore', Non marcio più) e la infliggevo cantandola con la chitarra ai miei compagni di liceo a Udine. I quali, con finezza friulana, si vendicarono soprannominandomi per scherzo 'Fin Occh'. Non ricordavo che questo autore di inni antimilitaristi preziosi quanto quelli di Dylan, colonna sonora delle marce contro la guerra in Vietnam (uno per tutti: 'There but for fortune', interpretato da Joan Baez) si fosse impiccato nel 1976. Questa mia mancanza di ricordi è forse uno dei motivi del suo gesto. 

Ma qualcuno si è sparato anche nel pieno della notorietà. Come Luigi Tenco, poche ore dopo essersi esibito a Sanremo di fronte a decine di milioni di telespettatori. Certo, Tenco era stato appena escluso dal festival 1967. E lo scrisse perfino sul biglietto d'addio: "Protesto contro un pubblico che manda 'Io, tu e le rose' in finale". Non risulta che l'incolpevole Orietta Berti abbia particolarmente sofferto per l'accusa contro la sua canzone, che arrivò quinta. Vinse Iva Zanicchi. E se le due brave e simpatiche cantanti ci fanno ancora compagnia dopo oltre mezzo secolo, forse Tenco ha portato loro fortuna. In ogni caso, ricorda Vites, l'ultima inchiesta sulla sua morte si è conclusa solo nel 2015. Evidentemente i complottisti, convinti per decenni che fu omicidio, non sono nati ora con vaccini e covid.

Il godibilissimo (nonostante l'argomento) libro di Vites scava a fondo, e inserisce il fenomeno dei musicisti che rinunciano alla vita in un quadro più ampio: quello della depressione, malattia che colpisce una quantità incredibile di persone.

"Nel 2030 la depressione diventerà la prima causa al mondo di giornate di lavoro perse per disabilità, superando le malattie cardiovascolari", scrive Vites. "L'Oms stima che sarà più diffusa di cancro, patologie cardiache e Alzheimer. In Italia 3,5 milioni di persone combattono contro la depressione, in Europa 35 milioni. In dieci anni la sua incidenza è aumentata del 18%. Nel mondo colpisce quasi cinque persone su cento: 322 milioni. Un male che non conosce confini: colpisce chiunque, anche se prevalentemente i redditi medi e bassi. Nel 2015 si sono suicidati in 788 mila: è la seconda causa di morte tra i 15 e i 29 anni".

Rock and roll will never die, ma ogni tanto qualche rockstar non sopporta la vita. 

Wednesday, November 02, 2022

Riccardo Lombardi, capo socialista

Cosa facevano gli antifascisti nel 1922? La storia di Riccardo Lombardi

di Mauro Suttora

Nel suo ultimo libro Antonio Alosco racconta il Lombardi ventunenne, figlio di un capitano dei carabinieri toscano, studente di ingegneria al Politecnico di Milano e attivista del partito popolare, negli anni della sua formazione politica attraverso posizioni che lo rendono un personaggio "amletico"

HuffPost, 2 Novembre 2022

La marcia su Roma, i fascisti, va bene. Ma cosa facevano gli antifascisti, nel 1922? Quelli che poi sarebbero diventati i capi partigiani, i padri della Repubblica?

Su uno di loro ferma l'attenzione Antonio Alosco, già docente di Storia contemporanea all'università di Napoli, col suo ultimo libro 'Riccardo Lombardi, un personaggio amletico' (ed. la Bussola).

Nelle famose foto della Liberazione a Milano, aprile 1945, Lombardi è lo spilungone che sovrasta gli altri leader antifascisti in parata: Pertini, Parri, Longo, Mattei, Solari, La Malfa. 

Aveva partecipato all'ultimo drammatico incontro con Mussolini in arcivescovado per conto del suo partito d'Azione, e poi divenne prefetto di Milano. 

Tutti lo ricordiamo come massimo dirigente del Psi fino alla morte, nel 1984 (soffriva ancora i postumi di un pestaggio fascista). 

Ma nel 1922 il ventunenne Lombardi, figlio di un capitano dei carabinieri toscano e della figlia del notaio di Regalbuto (Enna), era studente di ingegneria al Politecnico di Milano e attivista del partito popolare. Che gli andava stretto, contrariamente al fratello Ruggero diventato poi deputato dc fino al 1968 e sottosegretario al Turismo e spettacolo nei primi centrosinistra di Moro e Fanfani.

Riccardo invece, eterno dissenziente, già allora scalpitava. Tanto da meritarsi le attenzioni poco benevole di Giovanni Gronchi, futuro presidente e allora capo del sindacato cattolico, incline a espellerlo perché troppo vicino ai socialisti. 

In quella Milano ribollente Lombardi si trovò a difendere la redazione dell'Avanti! assaltata dagli squadristi dell'ex direttore Mussolini.

Non immaginava certo, il giovane Lombardi, che un giorno avrebbe diretto proprio lui il quotidiano del Psi, succedendo a un Nenni carico di livore personale dopo la sconfitta del fronte socialcomunista nel 1948 (anche per questo Alosco definisce Nenni "mediocre politico").

Lombardi difese il capo socialista Turati dai picchiatori fascisti in Galleria, e divenne un Ardito del popolo, corpo paramilitare di sinistra che sfidava le squadre di destra sul loro stesso terreno, la violenza. 

Lasciò i popolari troppo accomodanti con Mussolini per un partitino di cristiani di sinistra che non ebbe fortuna. 

Come dargli torto? Nel partito popolare l'unico ad accorgersi della pericolosità della legge elettorale Acerbo fu il fondatore don Sturzo, che perciò fu fatto fuori dai giovani moderati come Gronchi e, inopinatamente, De Gasperi.

Lombardi invece, dopo una sbandata per il Pci, si aggregò ai fratelli Rosselli in Giustizia e libertà. Incarcerato e torturato per un volantinaggio a Milano nel 1930, durante il ventennio mascherò la sua attività antifascista dietro a una rispettabile attività: ingegnere per una ditta tedesca di pompe idrauliche.

Ma perché Alosco lo definisce "amletico"? Perché Lombardi negli snodi fondamentali della sua vita politica esitò a scegliere. E quando scelse, ottenne a volte risultati opposti a quelli sperati. 

Sciolto il partito d'Azione, per esempio, non seguì La Malfa in quello repubblicano. Né confluì nell'approdo più naturale per un laico progressista come lui: la neonata socialdemocrazia di Saragat. 

Preferì il Psi allora stalinista quanto il Pci, forse influenzato dall'amatissima moglie, ex del dirigente comunista Li Causi. 

Battè Nenni al congresso socialista del 1948, ma poco dopo subì la rivincita dei frontisti di Morandi. Ancora nel 1959 criticò i socialisti tedeschi per la svolta moderata di Bad Godesberg. 

Si impegnò nel movimento per la pace, ma neppure lì scalfì l'egemonia Pci. 

Spinse per il centrosinistra, ma dopo un anno di governo con la Dc se ne dichiarò insoddisfatto. 

Appoggiò i radicali su divorzio e aborto, ma respinse l'iscrizione di Pannella al Psi.

Negli anni '60 e '70 si tenne lontano da incarichi ministeriali, facendo così conquistare alla sua corrente della sinistra Psi un'aura di estraneità al sottogoverno. 

Ma nel 1976 il suo contributo fu decisivo per l'ascesa di Craxi, il quale premiò i lombardiani De Michelis e Signorile. 

E quando negli anni '80 Lombardi sollevò la questione morale ("Abbiamo più socialisti in carcere ora che sotto il fascismo"), era troppo tardi. 

Amareggiato anche per l'iscrizione alla loggia P2 del suo allievo più brillante, Fabrizio Cicchitto, si spense pochi mesi dopo Berlinguer.

Mauro Suttora

Saturday, October 29, 2022

Il bipolarismo della Sapienza. Tutti hanno diritto di parola e i manifestanti hanno il diritto di non essere manganellati



La neopremier Giorgia Meloni e la neosenatrice Ilaria Cucchi, giudicando gli scontri all'università di Roma, non sono riuscite a mettersi d'accordo. La prima si è dimenticata della seconda regola e la seconda della prima

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 ottobre 2022

Basterebbe una modica quantità di Sapienza per ribadire due regole elementari: tutti hanno diritto di parola (perfino Capezzone), e i manifestanti inermi hanno il diritto di non essere manganellati. Invece la neopremier Giorgia Meloni e la neosenatrice Ilaria Cucchi, giudicando gli scontri all'università di Roma, non sono riuscite a mettersi d'accordo. La prima si è dimenticata della seconda regola, e la seconda della prima.

Sprofonderemo così di nuovo nella secolare guerra fascisti/comunisti? E dobbiamo chiedercelo proprio oggi, 28 ottobre? 

A giudicare da certe reazioni a caldo, pare di sì. I riflessi condizionati di sinistra di Ginevra Bompiani e Concita De Gregorio, in tv poche ore dopo i fatti, le hanno fatte pencolare automaticamente dalla parte degli studenti intolleranti. E sull'opposta barricata si sono alzati solo flebili appelli al var: "Vedremo i video della carica, se qualche agente ha esagerato verranno presi provvedimenti". 

Per la verità, il vizietto di zittire i fascisti (o reputati tali: sullo striscione del collettivo della Sapienza c'era scritto 'Capitalismo=fascismo', e perfino a un papa impedirono di parlare) viene da lontano. Nel 1972, tredicenne, reputai giunto il momento di farmi un'idea personale della politica, cosicché decisi di andare ai comizi di tutti i partiti prima delle elezioni. Quello del Msi (Mirko Tremaglia sul Sentierone di Bergamo) durò poco: fu subito interrotto da lanci di bottiglie della sinistra extraparlamentare. 

Ma anche la prima volta che l'estrema destra si affacciò al governo, nel 1960 (appoggio esterno a Tambroni), ai missini fu impedito di fare il loro congresso a Genova. In nome di una costituzione antifascista che però, proprio in quanto tale, permetteva anche ai fascisti del Msi di esistere, e quindi di riunirsi in congresso. Sempre a Genova, 31 anni dopo, le parti si invertirono: furono i poliziotti a trasformarsi direttamente in fascisti, anzi in nazisti, con le spedizioni punitive di Bolzaneto e scuola Diaz. Oggi troppi a sinistra evocano quel precedente sinistro. Per esorcizzarlo, certo, nessuno auspica la resurrezione dei black block. Ma sotto sotto la spiegazione è: ecco quel che succede appena governa la destra, via libera a Pinochet nel 2001 come nel 2022.  

Facciamo fatica a scorgere tratti cileni nel ministro dell'Interno Matteo Piantedosi, seppure omonimo di Salvini. Sulle 'cariche di alleggerimento' di scelbiana memoria ci sono interpretazioni infinite. Tuttavia se uno vuole entrare nell'aula di in convegno autorizzato per menare Capezzone che sta lodando il capitalismo, è possibile che rischi un ematoma a una gamba. Il fatto è che il 7 novembre alla Sapienza ci sono le elezioni studentesche. La temperatura è alta. La lista di destra Azione universitaria mostra nel suo simbolo una innocua feluca, il berretto della goliardia, che però stilizzata ricorda vagamente una runa neonazi. 

Provocazioni estetiche subliminali a parte, la povera rettrice Antonella Polimeni ha il dovere di assicurare ordine, pace, libertà, democrazia e perfino diritto allo studio nella sua Sapienza. Che non è uno spazio extraterritoriale come Chinatown a Milano: scusate la banalità, ma se si commettono reati anche lì arriva la polizia. La quale, si spera, non commetta a sua volta reati: i manganelli gratuiti lasciamoli ai fascisti del 1922.

Friday, October 21, 2022

Meloni ribattezza i ministeri con bei nomi sovranisti



Il nazionalismo inizia dalle targhe: "Sovranità alimentare", "Made in Italy", "Natalità", "Sicurezza energetica"

di Mauro Suttora 

Huffpost, 21 ottobre 2022


Apprendiamo con sollievo che il nuovo ministro dell'Agricoltura, Francesco Lollobrigida, aggiungerà al suo dicastero anche la dicitura ufficiale "per la sovranità alimentare". Non capiamo bene cosa essa sia, ma siamo felici che i sovranisti abbiano deciso di sfogare il loro temibile, annunciato nazionalismo soltanto sui campi da arare e sulle nostre tavole da apparecchiare, invece che in ambiti più pericolosi e dannosi. 

Vogliono valorizzare il Made in Italy? Macché: quello è entrato nel nuovo nome del ministero dello Sviluppo economico. C'eravamo abituati al suo acronimo Mise, che sostituiva il vecchio ministero dell'Industria, e ora ce lo cambiano in dicastero delle "Imprese e made in Italy". I puristi della Crusca sussultano per il debutto dell'inglese nell'onomastica ministeriale, comunque buon lavoro al neoministro Adolfo Urso. 

Chissà invece se i sovranisti noEuro/pa, una volta così numerosi tra fratelli d'Italia, leghisti e grillini, si accontenteranno del maquillage agricolo. Perché a pensarci bene oggi non c'è molto di italiano in ciò che mangiamo. I nostri campi e allevamenti sono pieni di lavoratori immigrati: trovate un giovane italiano in stalle o fattorie. I camionisti stranieri che trasportano le derrate ogni notte da Puglia e Sicilia fanno concorrenza a quelli italiani. Stessa prevalenza fra i facchini degli ortomercati al nord, e tante benemerite bancarelle arabe nei mercati ortofrutta rionali.

I supermercati Carrefour sono francesi, i Lidl tedeschi, e assumono cassieri/e di ogni nazionalità. I rider che ci portano il cibo a casa non sono quasi mai italiani, i cinesi fanno incetta di bar, i ristoranti cercano disperati personale almeno italofono. Per non parlare dei prodotti. E non quelli esotici: i pomodori a grappolo vengono da serre olandesi, i limoni dal Sudafrica, le noci dalla California. La farina della nostra pasta è ucraina o dell'Iowa, i prosciutti sono cosce di maiali olandesi, i filetti di vitelli slavi, il miele rumeno. 

Insomma, la globalizzazione stravince da vent'anni, in barba a tutti gli Eataly per clienti danarosi. Quindi che caspita vorrà mai dire "sovranità alimentare"? Almeno Mussolini aveva la scusa delle sanzioni per la guerra in Etiopia, quando ci proponeva orzo al posto del caffè e karkadè invece del the. 

Nel 1993 un referendum decise col 70% di abolire il ministero dell'Agricoltura, visto che quasi tutte le competenze sono passate alle regioni. Poi è resuscitato col nome di "coordinamento delle politiche agricole", perché non sapevamo chi mandare alle trattative Ue di Bruxelles. Nel 2018 il governo Conte1 diede all'Agricoltura anche il Turismo, dopo un anno il Conte2 glielo tolse. Ora il Mipaaf (Ministero politiche agricole, alimentari e forestali) diventerà Mipafsa? Contorcimenti della burocrazia. 

Poi ci sarebbe anche la "natalità" aggiunta al ministero della Famiglia e delle Pari opportunità, affidato all'ex femminista abortista radicale Eugenia Roccella. Forse in onore del suo nome: nata bene, Eu-genia. Altri motivi non riusciamo a trovarne, se non una riesumazione dell'invito fascista a procreare di più. Il che, in tempi di riduzione di emissioni e consumi per contrastare il riscaldamento globale, appare bizzarro. Ma la fantasia dei politici è tanta, sicuramente ci stupiranno anche con questi neologismi.

Wednesday, October 19, 2022

Berlusconi e Putin, amici machi



Si sono piaciuti subito, dal primo incontro al G8 di Genova. Da allora Berlusconi offriva Tony Renis, il Bagaglino o il famoso lettone di palazzo Grazioli, Putin ricambiava con tornei di judo e lotta con Van Damme, partite di hockey su ghiaccio, spettacoli di cosacchi, battute di caccia e pesca quasi artica e un cuore di cervo

di Mauro Suttora

Huffpost, 19 ottobre 2022 

Le venti bottiglie di lambrusco spedite da Silvio Berlusconi a Vladimir Putin per il suo 70esimo compleanno, il 7 ottobre, ricambiando le venti di vodka arrivate ad Arcore la settimana prima per l'86esimo dell'ex premier, non sono il regalo più originale della loro 'bromance' (brotherly romance, amore fraterno). 

Il massimo della stravaganza fu raggiunto nel 2017, quando Berlusconi gli portò a Sochi un copripiumino matrimoniale con la foto gigante di loro due che si stringono la mano, con sfondo di Colosseo e Cremlino. Lo confezionò Michele Cascavilla, proprietario del marchio Lenzuolissimi e autore del libro 'Le lenzuola del potere', prefazione di Silvio.

Soltanto il Covid è riuscito a interrompere la simpatica consuetudine annuale dei viaggi d'ottobre in Russia. Sono continuati anche dopo il 2011, quando Berlusconi perse palazzo Chigi, e dopo il 2013, quando l'ex premier fu estromesso anche dal Senato. 

Nel 2019, ultimo anno pre-virus, l'inossidabile coppia si è incontrata due volte: a giugno infatti Putin, invitato a Roma dal governo gialloverde di Conte, non rinunciò a vedere Silvio. Il quale, sostengono i maligni, chiese a Vladimir (Volodia) di non finanziare grillini e leghisti. Non per i soldi, ovviamente, che a Forza Italia non mancano. Era gelosia pura. 

Ma l'unico che può confermare questo veleno è Valentino Valentini, il Savoini forzista: da sempre pronube della coppia visto che mastica il russo, ma attualmente amareggiato dalla trombatura del 25 settembre dopo quattro legislature da deputato. 

I due amici machi si sono piaciuti subito. Il primo incontro avvenne al G8 di Genova del 2001. Si guardarono dritti negli occhi, e per una volta fu facile: Berlusconi ha solo quattro centimetri in meno del metro e 69 di Putin. Ma quel vertice fu rovinato dai no global, Silvio aveva ben altro cui pensare. La scintilla era comunque scoccata, e nel successivo anno e mezzo i due si videro per ben otto volte. Senza contare le vacanze estive delle due figlie di Putin a villa Certosa del 2002. 

Il 28 maggio di quell'anno rimane una data incisa nel cuore di Berlusconi. Lui la considera l'apice delle sue imprese politiche. Al vertice Nato di Pratica di Mare (fra Pomezia e Capocotta) riuscì quasi a far entrare la Russia nell'Alleanza atlantica. Erano i mesi dopo lo choc delle Torri Gemelle: la minaccia islamista fece chiudere gli occhi (non solo al nostro premier) sulle porcherie che andava combinando Putin in Cecenia. Tutto sommato l'idea di associare Mosca all'Occidente non era male. Ma come sempre Berlusconi ingigantisce tutto: "Quel giorno feci finire io cinquant'anni di guerra fredda". 

Freddo faceva sicuramente nel febbraio successivo: 30 gradi sotto zero a Zavidovo, parco dove il presidente russo regalò al nostro il famoso colbacco fuori misura, tipo cacciatore, con buffi paraorecchie di pelliccia. Poi gli propose di cenare fuori, nel bosco. Lo sventurato virilmente accettò.

Berlusconi ricambiò nella calda e favolosa estate 2003, quella della bandana. Ricevette Volodia a Porto Rotondo, celebrò l'occasione piantando un po' di cactus nuovi: "Ne ho quattrocento specie". Poi Bocelli cantò 'Tu ca' nun chiagne', e infine tutti in coro intonarono Oci Ciorne. Avevano mangiato e bevuto. Menu: antipasto di mare, tortelloni di ricotta, lasagne vegetariane, porceddu alla brace, dolci sardi. 

Putin si era portato in Costa Smeralda una scorta discreta: l'incrociatore lanciamissili Moskva (quello affondato dagli ucraini), il cacciatorpediniere Smetlivy e la nave appoggio Bubnov. Ma alla conferenza stampa la coppia si presentò come Stanlio e Ollio: su un traballante caddy car, la macchinina da golf guidata da Silvio. Poi una passeggiata a Porto Cervo, dove Berlusconi regalò a Putin piatti policromi e gioielli d'oro. Assieme guardarono Milan-Porto, finale Supercoppa. Pacche sulle spalle, fuochi d'artificio.

Più maschie le cene in Russia. Volodia infliggeva a Silvio storione in gelatina, insalata di urogallo, tagliolini in brodo di funghi, pesantissimi brasati misti. Conoscendo i suoi gusti, Berlusconi gli regalò un fucile Beretta con dedica incisa. Di tutti questi scambi restano irresistibili foto su google. 

Nel 2010 Silvio inaugurò quella che avrebbe dovuto essere la sua "università liberale" di villa Gernetto a Lesmo (Monza Brianza) con un vertice italo-russo. Allora Putin era 'solo' premier. Però regalò sette milioni per ricostruire un palazzo e una chiesa dopo il terremoto dell'Aquila. 

Ma i tempi stavano cambiando, negli Usa era arrivato Barack Obama "l'abbronzato" dopo otto anni dell'amico Bush. La Russia aveva attaccato la Georgia. Un wikileak di Julian Assange rivelò che il festoso rapporto Silvio-Volodia preoccupava gli americani: "Berlusconi sembra essere il portavoce di Putin in Europa". I contratti Eni-Gazprom si rivelavano un po' troppo redditizi. 

Ma che importava? Se nei loro privatissimi vertici Berlusconi offriva Tony Renis, il Bagaglino o il famoso lettone di palazzo Grazioli a Roma, l'altro ricambiava a colpi di tornei di judo e lotta con Jean-Claude Van Damme a Mosca, partite di hockey su ghiaccio, gare di slalom, spettacoli di cosacchi, voli su aerei antincendio e battute di caccia e pesca quasi artica. 

La prova d'amore definitiva arrivò una sera, in dacia. Neve dappertutto. "Andiamo Silvio, solo io e te. Niente accompagnatori". Avvertirono un'ombra, Volodia sparò. Aveva abbattuto un cervo. Prese un coltello, estrasse il cuore ancora caldo e lo porse all'ospite come gesto supremo. 

Nel 2013 Putin difende Silvio: "Lo attaccano per le donne? Se fosse gay nessuno lo toccherebbe. L'Europa si indebolisce con le nozze omosex". Berlusconi, ormai privato cittadino, ricambia avventurandosi in Crimea nel 2015, dopo l'invasione russa: "Andiamo in giro senza scorta, tutti gli vogliono bene". 

Adesso accusano Silvio di parlare fuori controllo, a ruota libera, senza freni? Ma per due decenni lui ha difeso Putin da qualsiasi accusa: diritti civili, omicidio Politkovskaya, affari Yukos: "Lo diffamano i comunisti, proprio come me". "È un dono del signore". "È il numero uno, come un fratello". Certo, ora la guerra d'Ucraina. Delusione. Ma la loro relazione resta dolcissima, innaffiata col lambrusco.

Tuesday, October 18, 2022

Togliere le foto di Mussolini è come nascondere il fascismo sotto il tappeto



Bersani si oppone al ritratto del duce per i novant’anni del Mise. Un po’ come Boldrini che voleva abbattere l’obelisco del Foro Italico. Toccherà chiedere consiglio agli islamisti di Palmira

di Mauro Suttora

HuffPost, 18 ottobre 2022  

Si chiamava Beneto Giraldon, il capo scalpellino incaricato da Napoleone di distruggere tutti i leoni alati di San Marco dopo la conquista di Venezia nel 1797. Così sparirono un migliaio di simboli della Serenissima che campeggiavano sulle porte e i palazzi pubblici di ogni città veneziana, da Bergamo a Zacinto. Fu uno scalpellamento metodico, da psicanalizzare: la neonata Repubblica francese si accaniva contro la millenaria Repubblica di San Marco, la più longeva, splendida e tollerante della storia. Quel che risparmiarono i francesi fu poi distrutto in Istria e Dalmazia da Tito, dopo la conquista jugoslava del 1945. 

Chi sarà ora il Giraldon che ci libererà da ogni ricordo mussoliniano? Perché dopo la rimozione della foto del duce dalla mostra per i 90 anni del palazzo del Ministero dello Sviluppo economico (fu anche lui ministro in quelle stanze), dopo la protesta di Pierluigi Bersani che non tollera di essere incorniciato e appeso sullo stesso muro, ci siamo improvvisamente accorti che il mascellone appare anche nella galleria dei ritratti degli ex presidenti del Consiglio a palazzo Chigi. Via.

E come mai sopravvive quell'obelisco all'entrata del Foro Italico con su scritto Dux? Vergogna.

Eppure con la fascioclastia del 1943-45 pensavamo di esserci totalmente purificati, cancellando da ogni marmo d'Italia scritte con le date in era fascista e fasci littori.

Lo aveva riscoperto solo Laura Boldrini nel 2015, l'obelisco ducesco sotto cui passano spensierati ogni domenica milioni di tifosi romanisti e laziali da tre quarti di secolo. Propose di abbatterlo subito, con l'ignara urgenza dei neofiti. La liquidò Walter Veltroni: "Mi sembra assurdo nascondere un ventennio che è parte tragica della nostra storia".

Parole profetiche.

Per incredibile coincidenza del destino, venerdì 28 ottobre rischia di essere votata la fiducia al governo Meloni. Cent'anni esatti dopo la marcia su Roma. Non vogliamo assolutamente addentrarci nella querelle su quanto sia fascista, post o neo il prossimo governo. Diciamo solo che comincia per M e finisce per i. Oppure che la fiamma arde ancora. 

In ogni caso, per fugare ogni sospetto la soluzione è semplice. Fra i suoi primi atti la nuova premier istituirà una commissione internazionale per la promozione della virtù antifascista e la prevenzione del vizio littorio. Inviteremo a farne parte i migliori iconoclasti del pianeta: i talebani dei Buddha di Bamiyan, gli islamisti dell'Isis di Palmira e gli statunitensi bonificatori di statue di Cristoforo Colombo. Essi dovranno individuare e distruggere ogni traccia di mussolinismo: quasi tutte le stazioni e i palazzi di giustizia, la Farnesina, il codice Rocco, la giornata del Risparmio, l'Inps, la Festa degli alberi.

Elimineremo da wikipedia qualsiasi riferimento al Ventennio, così Bersani non dovrà più sopportare Mussolini come ministro suo predecessore al Mise. E anche lo scalpellino leontoclasta Giraldon rischierà: quel suo nome Beneto meglio cambiarlo in Veneto. 

Monday, October 17, 2022

Sorpresa: un libico giudica la Libia fascista



Per i cent'anni della marcia su Roma è stato pubblicato un libro prezioso: "L'esilio dorato. Luci e ombre dell'operato di Italo Balbo in Libia" (ed. Franco Angeli), di Mustafa Rajab Younis. Sul fascista più famoso, in Italia e nel mondo, dopo il duce

di Mauro Suttora

HuffPost, 17 ottobre 2022  

Nel profluvio di rievocazioni per i cent'anni della marcia su Roma è stato pubblicato un libro prezioso: "L'esilio dorato. Luci e ombre dell'operato di Italo Balbo in Libia" (Franco Angeli). Prezioso per due ragioni. L'argomento: Balbo è il più famoso dei quadrumviri della marcia del 28 ottobre 1922. Alla quale, ricordiamolo, Mussolini non partecipò: si nascose nella casa di campagna della sua amante Margherita Sarfatti a Cavallasca (Como), pronto a scappare in Svizzera se le cose si fossero messe male. 

Balbo, appena 26enne ma già ras dell'Emilia-Romagna, fu quindi il vero capo della marcia. E intervenne con decisione negli scontri del quartiere romano di San Lorenzo, dove la colonna fascista di Giuseppe Bottai era stata attaccata. Fondatore dell'Aeronautica, ministro dell'Aviazione, all'inizio degli anni '30 Balbo divenne il fascista più famoso dopo il duce, in Italia e nel mondo, grazie alle sue trasvolate oceaniche. 

Anche per questo Mussolini, geloso, nel 1934 lo tolse da ministro e lo esiliò in Africa, come governatore della Libia. E qui inizia il libro, prezioso anche per il suo autore: Mustafa Rajab Younis, docente libico di storia contemporanea all'università di Tripoli. Il quale affronta con equilibrio un argomento controverso, senza lasciarsi trasportare da una condanna pregiudiziale della sciagurata avventura coloniale, che ha pervaso la storiografia italiana più recente (Rochat, Del Boca).

Il professor Younis descrive meticolosamente i sei anni e mezzo di 'regno' di Balbo in Libia, che quando arrivò era ancora divisa fra Tripolitania e Cirenaica, com'è tornata a essere di fatto oggi. Un'avventura che termina tragicamente il 28 giugno 1940, quando Balbo viene ucciso in volo per sbaglio dalla nostra contraerea nei primi giorni della Seconda guerra mondiale. Younis non crede ai sospetti di un abbattimento voluto: "Fu un incidente casuale".

Di nemici comunque in Italia Balbo ne aveva parecchi. Anche perché la sua fama era ulteriormente aumentata in Libia, dove si comportava da vicerè invitando giornalisti da tutto il mondo a feste da mille e una notte nelle sue sfarzose residenze. Il suo governo della Quarta sponda fu facilitato dalla fine delle ribellioni senussita e di Al Mukhtar, che avevano funestato i primi due decenni della colonia conquistata nel 1911 (guerra avversata dall'allora pacifista Mussolini, tanto da finire addirittura in carcere con Nenni). 

"Younis valuta con obiettività le realizzazioni dell'epoca di Balbo in Libia", scrive il professor Andrea Baravelli nell'introduzione al libro, che viene presentato il 18 ottobre alle 17.30 nella biblioteca Cabral di Bologna. "Abitazioni, strade, acquedotti, scuole, consultori medici: un insieme sbalorditivo di opere che avrebbe consentito la realizzazione del vecchio sogno di popolamento su larga scala della Libia, stravolgendo equilibri secolari e sancendo la definitiva dipendenza delle genti arabe".

Nonostante la sua strada litoranea Balbia di 1800 chilometri il gerarca di Ferrara non fu un illuminato difensore dei diritti civili, anche se si oppose alle leggi razziali e voleva dare la cittadinanza ai libici, secondo le usanze dell'impero romano: era semplicemente un bravo organizzatore e ottimo propagandista. 

Come scrive Younis, oltre a favorire l'insediamento di 20mila contadini italiani, Balbo sviluppò il turismo, costruendo grandiosi alberghi per i visitatori di Leptis Magna. Mancò di poco la scoperta del petrolio, e si sentiva in concorrenza con i colonizzatori francesi in Tunisia e gli inglesi in Egitto. Finite le tirate nazionaliste di Gheddafi, ora anche gli storici libici esaminano con equanimità luci e ombre dell'occupazione italiana della loro terra.


 

Friday, September 23, 2022

Berlusconi, Putin e il formato Paperissima



Da Vespa pronuncia la più strabiliante e scassata difesa dello Zar. Poi qualcuno dei suoi andrà alla Farnesina… Come cantava il suo amato Aznavour, bisogna sapere quando è il momento di lasciare la tavola

di Mauro Suttora 

HuffPost, 23 settembre 2022  

Se fosse un vescovo, Berlusconi da undici anni sarebbe un felice pensionato. Da cardinale, sei anni fa lo avrebbero interdetto dall'entrare nella cappella Sistina per eleggere il Papa in conclave. Invece lui, convinto di valere assai più di un Papa, giovedì compie 86 anni, come Ratzinger quando si dimise. Ma continua a imperversare. Per la crudele gioia di Crozza e, lo confessiamo, anche nostra: ormai lo guardiamo in tv solo allo scopo di aspettare la sua prossima gag. 

Come in Paperissima, ieri sera ce ne ha regalata una lunghissima. Per due minuti da Vespa ha pronunciato la più strabiliante difesa di Putin mai udita in questi sette mesi di guerra. Poverino, Vlad è stato costretto da quei cattivoni di russi del Donbass ad attaccare, per difenderli dagli ucraini che li stavano sterminando. "Quindicimila morti" sarebbero le vittime filorusse in otto anni nel Donbass. Cifra totalmente campata in aria che ormai neppure i più scatenati propagandisti putiniani osano agitare, visto che nelle guerre metà dei morti stanno da una parte e metà dall'altra. Chi è il complessista che ha infilato questa fake nel briefing per l'intervento più importante di Berlusconi in tutta la campagna elettorale? 

Perché finché si scherza si scherza, ma seppur con un misero 6-8% Forza Italia si appresta a governare l'Italia, e alla Farnesina qualche sottosegretario berlusconiano approderà.

E poi via con le amenità, come le "persone perbene" con cui Putin avrebbe voluto sostituire Zelensky al governo ucraino. Oppure i soldati russi che inopinatamente si sono sparpagliati per tutta l'Ucraina, mentre io dottor Vespa li avrei concentrati su Kiev.

L'altra sera Berlusconi era invece scivolato durante un'intervista alla sua Rete4. Ha detto freudianamente "interessi di conflitto" invece di "conflitto di interessi", colpa trentennale per lui impronunciabile.

Di sicuro prima o poi i politicamente corretti introdurranno anche il reato di gerontofobia. Negli Usa esiste già, lo chiamano 'ageism': proibito scherzare sulle papere degli anziani. Per ora, tuttavia, noi birichini possiamo liberamente sghignazzare sugli svarioni dei nostri adorati nonni con dentiera.

Non che l'età conti granché: Kissinger a 99 anni sembra più lucido del 79enne Biden. E nel 1963 i democristiani tedeschi dovettero ricorrere a un piccolo golpe per rimuovere da cancelliere l'imperterrito 87enne Adenauer.

Questa settimana le due attrici più belle del mondo compiono 88 anni. Ma Sophia Loren e Brigitte Bardot intelligentemente non si mostrano più, altrimenti rischiano di lollobrigidizzarsi.

Allo splendido Silvio, cui ormai siamo affezionati proprio in virtù della sua veneranda età, ci permettiamo di consigliare un ripasso dell'Ecclesiaste, pregno di bimillenaria saggezza: "Per ogni cosa c'è una stagione". Se leggere lo annoia, chieda a Marta o a Licia di mettere sul giradischi (pardon, nella playlist) una delle più belle canzoni dei Byrds: 'Turn! Turn! Turn!'. È in inglese, purtroppo. Ma lo stesso concetto è espresso magistralmente in francese da Aznavour: "Il faut savoir". Quand'è il momento devi sapere lasciar la tavola, ritirarti senza tornare. 

Saturday, September 03, 2022

Pochette rossa la trionferà. La quarta formidabile trasformazione di Conte Zelig

Presi dall'ascesa della Meloni, c'eravamo dimenticati del populismo di sinistra. Poi arriva il leader M5s nell'ultima indimenticabile interpretazione: il Masaniello pacifista

di Mauro Suttora

HuffPost.it, 3 settembre 2022    

Si chiamerà Coltano il luogo della riscossa grillina? Il 14 settembre in questo paesino vicino a Pisa si terrà una manifestazione nazionale contro la costruzione di un centro addestramento dei carabinieri. Il mondo pacifista si è mobilitato contro il progetto, finanziato a marzo dal Pnrr (Piano nazionale di ripresa e resilienza) e previsto inizialmente dentro il parco di San Rossore. Ma neanche ora che è stato spostato e riqualificherà stalle abbandonate ridotte a ruderi, senza consumo di suolo, gli antimilitaristi lo accettano. In prima fila a protestare ci saranno Giuseppe Conte e tutto lo stato maggiore del Movimento 5 stelle, che ha riscoperto il fascino del populismo. 

Pochi giorni fa Paolo Mieli sul Corsera si stupiva di come nessun partito sembri più innalzare le bandiere del no alla guerra in Ucraina, che solo cinque mesi fa infiammò il nostro dibattito pubblico. Detto fatto: ecco Conte riempire il vuoto, e proporsi come il Melenchon italiano. Perché mentre tutto il mondo osserva stupito l'affermarsi in Italia del populismo di destra, lanciato verso il governo, c'eravamo quasi dimenticati che il populismo può stare anche a sinistra. E che non rimarrà confinato ai verdi estremisti di Fratoianni e Bonelli, al comunista Rizzo o a Italexit di Paragone.

Chi meglio di Conte per interpretare questo nuovo ruolo? La parte che si accinge a recitare è infatti la quarta in quattro anni. Tutte diverse, ma coperte con efficace versatilità dal facondo politico pugliese. Prima l'alleanza gialloverde di destra con la Lega; poi il suo opposto, a sinistra col Pd; quindi la fase moderata della 'responsabilità' sotto Draghi; infine l'agitazione contro le spese militari e la difesa del reddito di cittadinanza. L'ennesima svolta sembra pagare, nei sondaggi. Non più sotto il 10%, i grillini si sono issati a tallonare il 13% leghista. E a chi lo accusa di trasformismo l'Avvocato del popolo (il popolo, appunto) replica soave: "Siamo coerenti con il nostro no all'aumento del bilancio bellico chiesto dalla Nato". 

Già in primavera questa mossa solitaria del M5s gli permise di ammiccare alla maggioranza assoluta degli italiani, contrari all'aumento. Ma allora eravamo nel pieno dell'aggressione di Putin all'Ucraina, e di fronte alle fosse comuni di Bucha la necessità dell'aiuto militare a Kiev s'imponeva. Ora invece, con lo stallo dopo mezzo anno di guerra e soprattutto col terrore per il gas e l'inflazione, è facile fare demagogia: ma come, volete spendere per la guerra invece di aiutare i cittadini? Volete aprire una nuova base militare a Coltano, proprio di fronte a quella Usa di Camp Darby?

Come tutti i populisti, Conte non entra nel merito: ai carabinieri servono veramente 70 ettari per addestrare i propri reparti speciali e cinofili? Può darsi di sì, oppure che bastino meno ettari. Bisogna intaccare la pineta di San Rossore? Certo che no, e infatti il progetto è stato sposato. Non si possono utilizzare le tante caserme vuote? Certo che sì. Ma il 14 settembre lo slogan dei pacifisti sarà: "Nessuna nuova base in nessun posto". 

Così ha insegnato Peron: slogan semplici e chiari. Egualmente per il reddito di cittadinanza: non ha "abolito la povertà", non fa funzionare meglio i Centri lavoro, premia i pigri. Ma come manna dal cielo funziona egregiamente. E la carità statale al popolo non costa niente ai politici. Anzi, Evita è diventata un'eroina del popolo. Di destra, di sinistra? Che importa. L'Argentina, fino ad allora uno dei Paesi più ricchi del mondo, dopo il peronismo ebbe il bilancio sfasciato per sempre. Perché quando i populisti sventolano il motto "nessuno deve rimanere indietro", troppo spesso è capitato che tutti lo siano rimasti. O quasi tutti: certo non quelli ai quali è  bastato cambiare immatricolazione al proprio jet privato, per continuare a volare felici.

Friday, August 05, 2022

Che vita da cani. I soldi nella cuccia della Cirinnà diventano un legal thriller

La telenovela dei 24mila euro sembrava esaurita quando il pm di Grosseto ha archiviato le indagini. Ecco ora la nuova richiesta della Cirinnà: poiché il tesoro è stato scoperto in un terreno di sua proprietà, spetta a lei

di Mauro Suttora

HuffPost, 5 agosto 2022


Era stato il giallo dell'estate scorsa: i 24mila euro in banconote da 500 ritrovati in una cuccia di cane nell'azienda agricola della senatrice pd Monica Cirinnà a Capalbio (Grosseto). Un malloppo ritrovato per caso fra le assi abbandonate in un angolo dei cento ettari di proprietà della senatrice e di suo marito Esterino Montino, anch'egli Pd, ex senatore e da nove anni sindaco di Fiumicino (Roma).

La coppia lo consegnò alle autorità, ma la singolare scoperta scatenò i commenti sui social. Niente infatti irrita gli 'odiatori' di destra più della parole Cirinnà e Capalbio. La prima perché, oltre a essere verde e animalista, ha firmato la legge sulle unioni civili gay ed è quindi amata dal mondo lgbt; la seconda in quanto simbolo delle élite radical chic.

Da dove venivano quei soldi? Probabilmente dimenticati da qualche banda di malviventi che li aveva nascosti in un luogo accessibile dalla strada. I tagli da 500 euro sono fuori corso dal 2019 e i numeri di serie di molte banconote risultano illeggibili. Roba vecchia, quindi. Ma il mistero eccita i complottisti, e così la cuccia di cane della politica animalista divenne bersaglio di insulti.

La telenovela sembrava esaurita quando il pm di Grosseto ha archiviato le indagini, data l'impossibilità di rintracciare l'origine dei soldi. E invece, ecco ora la nuova richiesta della Cirinnà: poiché il tesoro è stato scoperto in un terreno di sua proprietà, spetta a lei. E lo devolverà all'associazione Olympia De Gouges (femminista ghigliottinata nel 1793 in place de la Concorde a Parigi), che assiste le donne vittime di violenza a Grosseto.

Per la gioia dei burini misogini, i quali ora possono rinfacciare alla Cirinnà e al marito la dichiarazione di un anno fa: "Siamo felici che quel denaro sarà nella disponibilità del Fondo unico per la giustizia, e che verrà utilizzato per fini di pubblica utilità".

Il giudice penale ha detto no alla nuova richiesta della senatrice: deciderà il giudice civile. La surreale vicenda quindi proseguirà a colpi di fioretto legale, con disquisizioni fra avvocati sul destino della "res inventa". La legge prevede che le cose ritrovate spettino solo per metà al proprietario del terreno, e per l'altra metà allo scopritore. Ma restiamo sempre in famiglia: la cuccia del cane infatti fu ispezionata dal figlio del sindaco Montino, assieme a un operaio. Quest'ultimo, magari, preferirà tenersi il suo 25%, piuttosto che regalare seimila euro alle donne grossetane.

In questi giorni, comunque, la 59enne Cirinnà è impegnata in una lotta ben più sostanziosa di quella per i soldi della cuccia del cane. Il Pd sta definendo le candidature per il voto del 25 settembre: non è detto che lei, dopo due legislature e con il taglio dei parlamentari, riesca a mantenere la poltrona. Se dovesse soccombere, potrà consolarsi con l'indennità di fine mandato. La liquidazione dei politici nel suo caso, dopo quasi dieci anni di mandato, ammonta a un'ottantina di migliaia di euro. Altro che la cuccia. 

Sunday, July 31, 2022

I due mandati grillini sono una barzelletta. Imparino dai radicali

Da sempre nelle democrazie il divieto di ricandidarsi è considerato il principale antidoto alle incrostazioni di potere. Gli ultimi che in Italia hanno provato a limitare la durata dei politici, prima di Grillo, li facevano ruotare a metà mandato

di Mauro Suttora

Huffpost, 31 Luglio 2022  


Altro che due mandati. Gli ultimi che in Italia hanno provato a limitare la durata dei politici al potere, prima di Grillo, li facevano ruotare a metà mandato. Due anni e mezzo, e poi via. 

Dieci anni è troppo, inutile e crudele. Troppo, perché due lustri sono un'eternità; inutile, perché come dimostrano i grillini quasi tutti trovano trucchi per continuare; crudele, perché dopo un tempo così lungo è un'agonia tornare al precedente lavoro (Vito Crimi era dovuto emigrare da Palermo a Brescia per fare fotocopie in tribunale) o reperirne uno nuovo. 

Una suora divorzista, un obiettore antimilitarista, un intellettuale omosessuale e un avvocato garantista: questi furono i deputati che nel 1976 i radicali scelsero per subentrare a metà mandato ai loro primi quattro eletti (Pannella, Bonino, Mellini e Adele Faccio). Erano arrivati secondi nelle preferenze: suor Marisa Galli, Roberto Cicciomessere, Angelo Pezzana e Franco De Cataldo. Cominciarono da subito a frequentare Montecitorio come deputati supplenti: aiuto prezioso che raddoppiava le forze, visto che non esistevano ancora i portaborse.

La mossa dei radicali ebbe particolare risonanza, perché già allora montava la polemica contro l'inamovibilità dei politici di carriera: in particolare dei democristiani, da trent'anni al governo senza interruzione. Le turnazioni radicali a metà mandato proseguirono nelle legislature successive, tanto che Pannella alla fine si ritrovò una pensione notevolmente decurtata.

Anche i verdi all'inizio promisero la rotazione a metà mandato. Ma dei consiglieri regionali e comunali eletti nel 1985 pochi mantennero l'impegno: fra gli altri Michele Boato in Veneto e Nanni Salio a Torino (dopo un solo anno). Spesso i verdi, per dimostrare il loro disinteresse verso le poltrone, si candidavano in ordine alfabetico. Quindi quasi sempre ottenevano più preferenze quelli con cognome A o B. I quali però alla scadenza dei due anni e mezzo non lasciavano la carica, nonostante l'assoluta casualità della loro elezione. 

Uno dei casi più spiacevoli avvenne a Milano. Non solo i consiglieri comunali Antoniazzi e Barone nel 1987 non si dimisero, ma vennero nominati assessori dal furbo sindaco socialista Pillitteri, che formò così la prima giunta rossoverde d'Italia.

Erano tempi duri per gli eletti di movimenti 'alternativi' che cedevano alle lusinghe del potere: vidi un assessore verde lasciare la sua auto blu a un isolato dall'assemblea di partito cui doveva partecipare, e arrivare a piedi per non farsi notare. I grillini odierni invece ci hanno messo poco ad adeguarsi.

Da sempre nelle democrazie il divieto di ricandidarsi è considerato il principale antidoto alle incrostazioni di potere. 2500 anni fa Atene e Roma stabilirono in un anno la durata di arconti e consoli, oggi i presidenti Usa e francesi hanno limiti di otto e dieci anni. Ma il record di velocità appartiene ai priori della repubblica di Firenze: a casa dopo soli due mesi.

Mauro Suttora


Tuesday, January 04, 2022

Berlusconi torna al primo amore: il cemento

Il comune di Olbia gli ha dato il permesso di costruire un hotel a Porto Rotondo 

di 
Mauro Suttora

HuffPost, 4 gennaio 2022


Silvio Berlusconi è candidato presidente della Repubblica, ma intanto è tornato al suo primo amore: il cemento. Il comune di Olbia gli ha dato il permesso di costruire un hotel con 133 posti letto nel centro di Porto Rotondo.

Una variante del nuovo Puc (Piano urbanistico comunale) ha infatti trasformato tredici ettari dei suoi terreni da bosco e macchia mediterranea in edificabili: sono previsti 20mila metri cubi per “insediamenti turistico-alberghieri”. La Siamed (Società iniziative alberghiere Mediterraneo), società con sede a Cagliari, possiede un lotto di 31mila metri quadri. Gli altri appartengono all’immobiliare Idra di Segrate (Milano), cui è intestata l’intera, immensa proprietà berlusconiana di villa Certosa. Da punta Lada i terreni dove ora è possibile costruire si spingono a nordest fino al borgo di Porto Rotondo, inventato negli anni ’60 dai conti Donà delle Rose.

Amministrativamente, l’esclusiva località sarda è solo una frazione di Olbia. Così come la gemella Porto Cervo, all’estremo opposto della Costa Smeralda, fa parte del comune di Arzachena. Entrambe sono amministrate da consorzi, ai quali i facoltosi proprietari di ville e case affidano la gestione di molti servizi. Ma la pianificazione urbanistica resta prerogativa dei comuni. E a Olbia la giunta di centrodestra guidata da Settimo Nizzi, ex parlamentare di Forza Italia appena rieletto sindaco per la quarta volta, ha fatto questo bel regalo a Silvio per i suoi 85 anni.

Assieme alla variante berlusconiana ne sono state approvate altre sei fra Porto Rotondo e l’adiacente golfo di Marinella, per un totale di mezzo milione di metri quadri con costruzioni di centomila metri cubi e una previsione di 600 posti letto.

Una colata di cemento di cui beneficerà anche Sergio Zuncheddu, amicissimo di Berlusconi, proprietario dell’albergo di lusso Abi d’Oru oltre che del principale giornale dell’isola, l’Unione Sarda, e della tv Videolina.

L’espansione preoccupa i consorziati di Porto Rotondo, che già oggi ogni agosto va in collasso. Le spiagge della zona non sono tante, e con questo aumento della capacità recettiva saranno ancora più affollate.

A mordersi le dita resta l’Aga Khan, il principe fondatore di Porto Cervo. A lui il comune di Arzachena e la regione Sardegna hanno sempre bloccato ogni espansione. Il no trentennale al suo masterplan lo ha spinto a vendere sia gli alberghi agli americani, sia la ex Alisarda (poi Meridiana e Air Italy) al Qatar. E proprio in questi giorni gli ultimi 1.300 dipendenti della compagnia aerea sono stati licenziati.

Mauro Suttora 

Saturday, December 25, 2021

Happy Xmas di Lennon compie 50 anni

Ma diventò un classico nel Natale 1980, subito dopo la morte dell'ex Beatle

di Mauro Suttora

HuffPost, 25 dicembre 2021

Compie mezzo secolo oggi quella che è diventata una delle più popolari canzoni di Natale: Happy Xmas di John Lennon. L’ex Beatle la incise infatti nel 1971 a New York, e al titolo aggiunse “war is over” come augurio per la fine della guerra in Vietnam (auspicio esaudito quattro anni dopo con la fuga degli statunitensi da Saigon, simile a quella da Kabul l’estate scorsa).

Per la verità in quel Natale la canzone non ebbe un gran successo. Finì in classifica, ma niente di paragonabile all’esplosione di Imagine, il precedente 45 giri di Lennon che aveva appena sbancato le hit parades di tutto il mondo nell’autunno 1971.

Per diventare un classico Happy Xmas dovette aspettare il Natale 1980, e per una ragione tristissima: pochi giorni prima Lennon era stato assassinato. Sull’onda dell’emozione planetaria il disco venne ristampato e le vendite decollarono. 

La musica della canzone riprende un classico folk inglese: Stewball. Lennon la registrò in un’unica giornata in uno studio di Manhattan. Al piano c’era Nicky Hopkins, il ‘quinto Rolling Stone’. L’inizio è inconfondibile: “And so this is is Christmas, and what have you done?”. L’arrangiamento ha un grandioso effetto eco: la famosa “parete del suono” del produttore Phil Spector, morto undici mesi fa di covid mentre scontava 19 anni di carcere per avere ucciso una donna nel 2003.

Innumerevoli le cover di Happy Xmas in questi cinquant’anni, da Celine Dion ai Maroon 5. In Italia, fra gli altri, i Pooh, Raffaella Carrà, Tiziano Ferro, Elisa.

Mauro Suttora

Friday, December 24, 2021

Il proscioglimento di Rackete condanna la politica di Salvini

L’archiviazione dell’accusa di ‘favoreggiamento dell’immigrazione clandestina’ per la 33enne tedesca della nave Sea Watch dimostra che erano illegali i decreti con cui nel 2019 il governo Conte 1 chiuse i porti italiani 

di Mauro Suttora

HuffPost, 23 dicembre 2021



Salvini e i grillini si mettano il cuore in pace: Carola Rackete è innocente. Lei e tutte le ong che hanno fatto sbarcare migranti in Italia.

L’archiviazione dell’accusa di ‘favoreggiamento dell’immigrazione clandestina’ per la 33enne comandante tedesca della nave Sea Watch dimostra che erano invece illegali i decreti con cui nel 2019 il governo Conte 1 chiuse i porti italiani alle navi dei soccorritori.

L’archiviazione di Agrigento rappresenta la vittoria definitiva per la Rackete, che era già stata prosciolta otto mesi fa dall’altra accusa: quella di resistenza a pubblico ufficiale e violenza a nave da guerra, per il presunto speronamento di una motovedetta nel porto di Lampedusa il 29 giugno 1919.

Anche la nave Mare Jonio è stata prosciolta. Gli unici incriminati restano i ragazzi tedeschi della Iuventa, sospettati di aver preso un appuntamento in alto mare con gli scafisti libici nell’estate 2017 per trasbordare i migranti.

Ma la linea dura dei porti chiusi arrivò solo nel 2018-19, con il governo felpastellato. E ora la gip di Agrigento ha deciso che il decreto con cui i ministri Salvini, Trenta e Toninelli pretendevano di non fare sbarcare i cinquanta migranti della Rackete violava la Costituzione. 

Ci aveva già pensato la Cassazione a stabilirlo, quando non convalidò l’arresto della giovane tedesca: non poteva essere considerato ‘luogo sicuro’ la sua piccola nave in balia delle onde, né ‘porto sicuro’ quello di Tripoli dove i gialloverdi pretendevano fossero riportati i disperati.

Anzi, l’inchiesta è andata avanti e il proscioglimento è arrivato solo adesso perché la procura di Agrigento ha esaminato tutti i migranti e ne ha arrestati tre, ex custodi di un campo di prigionia in Libia.

Insomma, i leghisti la smettano di difendere i respingimenti attuati dal loro governo: se Salvini viene assolto perché aveva il diritto di emanare decreti seppur sconclusionati, anche le ong vengono assolte perché avevano il diritto di rispettare le leggi internazionali marittime. 

Quanto ai grillini, sembrano colpiti da una singolare amnesia: Di Maio accusava le ong di essere “taxi del mare” al servizio degli scafisti libici, Conte non batteva ciglio davanti ai diktat dei suoi ministri, ma ora parlano di accoglienza e solidarietà.

Dopodiché, il problema resta. Gli immigrati clandestini si sono moltiplicati per otto rispetto al 2019. Ma smettete di dare la colpa alle navi ong. La persecuzione contro di loro attuata dal governo Conte-Salvini ha funzionato come deterrente: si sono ridotte di molto. Ma il deterrente contro gli scafisti e i mafiosi libici, ai quali si affidano tuttora decine di migliaia di migranti, dev’essere ancora trovato. E non fuori dalle leggi.

Mauro Suttora 

Sunday, December 19, 2021

La libertà di non vaccinarsi non è un diritto civile

I novax si comportano da free-riders: evasori a sbafo. Come i portoghesi che non pagano il biglietto su tram e treni. I quali circolano lo stesso, tanto pagano gli altri

di Mauro Suttora

HuffPost, 19 dicembre 2021

Libertà, libertà. E i libertari che ne pensano, della libertà di vaccinarsi invocata dai novax?

Libertari in Italia significa radicali, Pannella, Bonino. Sono stati loro a ottenere la libertà di divorziare, abortire, obiettare al servizio militare, praticare la fecondazione assistita. Sono sempre loro anche oggi a chiedere, con gli imminenti referendum, libertà di fumare cannabis e di decidere sulla fine della propria vita (eutanasia).

È radicale pure Davide Tutino, il professore di storia e filosofia che a Roma è diventato il primo obiettore di coscienza contro l’obbligo vaccinale a scuola, perdendo lo stipendio. Una disobbedienza civile in piena regola. Lo abbiamo conosciuto giovedì sera a Piazzapulita (La7), dove si è guadagnato i complimenti di tutti per la pacatezza del suo argomentare.

Ma Pannella cosa direbbe sui vaccini, se non fosse scomparso cinque anni fa? Tutino ha riesumato l’unica occasione in cui si espresse sull’argomento: un convegno radicale nel 1995 a Genova sulla proposta di obbligo vaccinale per i bambini (attuato nel 2017 dalla ministra Lorenzin). Ascoltati i relatori, fra cui un giovane professor Bassetti e il pioniere novax Gianpaolo Vanoli, Pannella disse che era scettico sul ruolo dello stato come “tutore della salute pubblica”. Ovvio per un libertario, ma lontano dalle fiammeggianti intemerate di un Ivan Illich o Michel Foucault.

Difficile comunque ricorrere all’ipse dixit, data la differenza del contesto: un quarto di secolo fa non c’era l’attuale emergenza planetaria. Cosicché oggi i radicali sono, come tutti, schierati in stragrande maggioranza per vaccini e greenpass. 

Tuttavia, il dilemma obbligo/libertà sui vaccini interpella inevitabilmente i libertari. Perché l’intromissione dello stato è evidente. Finché si sperava nell’immunità di gregge, non c’erano problemi: lo spazio per un 10-20% di refrattari era garantito. Ma le varianti hanno cambiato il gioco, e con omicron nessuno più sembra preoccuparsi di salvaguardare neanche una microscopica minoranza di obiettori al vaccino.

Dura da accettare per i radicali, abituati a opporsi alle solidarietà nazionali in nome delle emergenze, dal terrorismo in poi. “Né con questo stato, né con le br”, disse Sciascia (prima dell’omicidio Moro).

E oggi? “Né vax, né novax?” Impossibile, per il partito illuminista di Luca Coscioni, della libertà e fiducia nella scienza, della ricerca sulle cellule staminali, contro gli opposti oscurantismi: “No Vatican, no Taliban”, fu lo slogan pannelliano nel 2005, era pre-Bergoglio.   

E allora? A indirizzare i libertari, ecco l’abc dell’etica laica: l’imperativo categorico di Kant. Ovvero: ogni tua azione sia valida come legge universale.

Quindi coloro che non si vaccinano, come l’ottimo Tutino, immaginino un mondo in cui tutti seguano il loro esempio. È un comportamento replicabile? No. Perché tutti possono divorziare, abortire, far figli in vitro, fumarsi una canna o ricorrere all’eutanasia senza danneggiare gli altri. Non vaccinarsi invece danneggia: seppur in misura minima, se si crede agli scetticismi novax. Quindi la libertà di non vaccinarsi non è un diritto civile.

Insomma, i novax possono esistere solo in quanto rimangono al 5%. Se fossero di più avremmo 50 milioni di morti, non 5. Certo, il vaccino fa entrare lo stato nella nostra vita. Peggio, per un libertario: nel nostro corpo. Ma, anche ammettendo che le immunizzazioni possano essere rischiose o inutili, i novax si comportano da free-riders: evasori a sbafo. Come i portoghesi che non pagano il biglietto su tram e treni. I quali circolano lo stesso, tanto pagano gli altri. 

Questa si chiama irresponsabilità. E fa a pugni con il principio di legalità, ovvero lo stato di diritto. Che è la base della nostra convivenza civile. Ma anche la stella polare di tutti i libertari che praticano la disobbedienza civile. Perché Gandhi e Luther King si appellavano proprio alla legge e alla certezza del diritto, non a una generica ‘libertà’ populista e ribellista. Sulle orme di Antigone, denunciavano ingiustizie e discriminazioni. E pagavano scrupolosamente con arresti e carcere il prezzo delle proprie azioni dirette nonviolente, che violavano leggi da loro considerate sbagliate. Come hanno sempre fatto Pannella e i radicali. E oggi anche Tutino, seppure per una causa fallace.

Mauro Suttora 

Monday, December 13, 2021

Che nausea i patrioti che hanno bisogno di confini in cui rinchiudersi


 

Perché quando Giorgia Meloni parla di un patriota al Quirinale mi assale un lieve stato di malessere

di Mauro Suttora

13 dicembre 2021
 

La statua di Giuseppe Mazzini nel Central Park di New York sta a 300 metri da Strawberry Fields, il memorial di John Lennon. Ci passavo davanti ogni mattina, per andare al lavoro alla Rizzoli sulla 57esima Strada. Non mi sono mai sentito più patriota e orgoglioso di essere italiano, ammirandola. E anche di fronte alla statua di Dante, poco più in là verso Columbus Circle, e a quella di Garibaldi a Washington Square. Facevo lavare ogni anno la bandiera tricolore che sventolava davanti alla mia finestra alla Rizzoli.

Però resto un fan di Lennon e del suo inno, “Imagine there’s no countries”: immagina che non ci siano Paesi. Sono peggio che europeista: mondialista. Anzi cosmopolita, cittadino del cosmo.

Quindi Giorgia Meloni non mi voterebbe presidente della Repubblica. Vorrei chiederle: nel 1944 chi erano i suoi tanto amati ‘patrioti’? I repubblichini o i partigiani?

“Il patriottismo è l’ultimo rifugio delle canaglie”, disse Samuel Jackson nel ’700. “Quando gli stati si fanno chiamare patria, si preparano a uccidere”, ha ribadito lo svizzero Dürrenmatt, chiudendo la questione. Aggiungerei: quando i sovranisti parlano di patriottismo, si rivelano fascisti. Perché la patria ha bisogno di frontiere, e di soldati per difenderle. O espanderle, come ora minacciano di fare Putin in Ucraina dopo la Crimea, e la Cina con Taiwan.

Sono affascinato dall’argomento. Nel mio libro ‘Confini’ (ed. Neri Pozza) mi consolo: constato che fortunatamente gli attuali neonazionalisti hanno abbandonato l’insalubre tendenza a volerli spostare in avanti, provocando guerre per secoli. Si limitano a proclamare recuperi di sovranità e identità, ma all’interno degli stati esistenti. Isolazionismo, non aggressione. Frontiere con trincee e muri per proteggersi, non per attaccare.

Ma allora, perché quando la pittoresca Giorgia parla di patrioti mi assale un lieve senso di nausea? Forse perché noto ancora la fiamma fascista nel simbolo dei suoi Fratelli. E ricordo la libreria Orion, qui a Milano in via Plinio, dove negli anni ’80 i ‘camerati del terzo millennio’ avevano come loro principale avversario non più il comunismo o le democrazie giudoplutomassoniche, ma il mondialismo. E all’Onu, alla pace universale e a un mondo senza confini contrapponevano una loro buffa paccottiglia subculturale fatta di Hobbit, leggende medievali, Atreju, esoterismo.

Erano contemporaneamente in retroguardia e all’avanguardia, perché negli anni ’90 anche gli estremisti di sinistra, orbati del comunismo, li raggiunsero nella polemica contro la globalizzazione (Seattle, Genova). I no global dei centri sociali si irritavano quando li avvertivo di questa primogenitura fascista sulle loro idee, ma che ci posso fare se Marx invece era globalissimo, e i compagni lavoratori sono sempre stati internazionalisti?

Ora abito in una via dedicata ad Augusto Anfossi, patriota morto nelle 5 giornate. Qui attorno tante vie di patrioti morti giovanissimi: Emilio Morosini (a 19 anni), Enrico Dandolo (22), Goffredo Mameli (21). Eroi che ammiro. Ma il “siam pronti alla morte” dell’inno è una frase necrofila poco in sintonia con la generazione Erasmus che abbatte le frontiere grazie ai low cost, e anche alla mia che scorrazzava per tutta Europa in autostop e treni Transalpino.

“Morire per delle idee? Sì, ma di morte lenta”, cantavano beffardi Brassens e De Andrè. Alla faccia degli ottimi patrioti mazziniani e delle nostalgie ducesche di Giorgia. Che ieri, sventurata, ha detto pure “Siamo dalla parte giusta della Storia”. Aiuto.

Mauro Suttora