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Sunday, October 24, 2021

L'internazionale anti Soros da Erdogan a Meloni

Il caso Kavala riporta in auge il bersaglio preferito della destra planetaria. Complottisti, fascisti, no-euro e novax, tutti contro il finanziere di 91 anni

di Mauro Suttora

HuffPost, 24 ottobre 2021

Essere ancora così odiati a 91 anni è un record mondiale cui George Soros rinuncerebbe volentieri. Perfino Berlusconi a 85 anni comincia a far tenerezza. Invece il finanziere ungherese-americano rimane il punchball preferito della destra planetaria: dai complottisti ai fascisti, dai noeuro ai novax, non c’è personaggio più bersagliato nella subcultura social. Basta la parola: Soros, possibilmente scritto con le due esse in grafia SS.

“Feccia di Soros”: così ora il presidente turco Erdogan definisce il suo oppositore Osman Kavala, in carcere da quattro anni senza processo. Stesso epiteto per gli ambasciatori dei dieci Paesi (i più civili del mondo, tutti gli scandinavi) che hanno osato chiederne la liberazione, ottenendo così la propria espulsione da Istanbul. 

Quanta ingratitudine. Perché “feccia di Soros” Erdogan potrebbe chiamare anche sua figlia, che in un’associazione di Soros fu accolta per uno stage, e perfino se stesso. Nel 2003 infatti lo incontrò cordialmente a Davos, chiedendogli di aiutarlo a entrare nell’Unione europea. E due anni dopo lo ospitò con ogni onore in Turchia.

Il miliardario dal cognome palindromo contraccambiò. Arruolò vari pesi massimi della politica europea per perorare la causa di Istanbul a Bruxelles, fra i quali l’ex premier francese Rocard e la nostra Emma Bonino. Missione fallita, e forse anche per questo il ducetto del Bosforo gli si è rivoltato contro. Ora lo definisce sprezzante “ebreo ungherese”.

Ed è proprio qui il problema. Gigantesco. Perché fino a una dozzina di anni fa soltanto i neonazi osavano brandire la parola ‘ebreo’ come insulto. Poi a re-hitlerizzare il dibattito politico è arrivato un altro beneficiato da Soros: il premier ungherese Viktor Orban, mandato nel 1989 a studiare liberalismo a Oxford a spese dal magnate compaesano. Il quale poi, fiducioso e generoso, una volta caduto il comunismo finanziò il partito allora liberale Fidesz fondato da Orban, e addirittura impiantò proprio a Budapest la più grande università della sua Open Society. Cacciata dall’irriconoscente Orban, che imputò a Soros l’ondata migratoria dei profughi siriani nel 2015.

Open Society, società aperta. È questo il concetto che fa impazzire tutti i fasciocomunisti, da Trump a Putin, da Milosevic (fatto cadere da Soros) a Xi Jinping, da Salvini alla Meloni. Il giovane George lo apprese a Londra dal filosofo Karl Popper, quando approdò alla London School of Economics dopo essere sfuggito a nazisti e comunisti (i ‘liberatori’ che violentarono sua madre). La ‘società aperta’ di Popper rappresenta l’abc del liberalismo, ma anche di mondialismo, cosmopolitismo, umanitarismo: tutte bestie nere delle destre (e di qualche autoritario a sinistra).

Soros è uno speculatore? Certo, come tutti i finanzieri. Ma anche come ciascuno di noi, quando investiamo i nostri risparmi cercando il massimo rendimento. Soros ha affossato la lira nel 1992? Probabilmente. Ma solo uno venuto giù con la piena o un Di Battista possono accusarlo di averlo fatto da solo, e non assieme alle decine di fondi plurimiliardari da New York a Tokyo, da Londra a Shanghai. Perché nessun singolo finanziere possiede la massa critica per attaccare una valuta sovrana: al massimo quelli più bravi e perspicaci iniziano la valanga scommettendo a loro rischio.

Soros ha rischiato, ha vinto (tanto), e poi ha deciso di fare il filantropo. Così, essendo appassionato di politica, ha investito un decimo della propria fortuna finanziando prima i dissidenti antisovietici, poi gli antiproibizionisti sulla droga (ricordo nel 1988 un convegno a Bruxelles della Lia, la Lega italiana antiproibizionista del radicale Marco Taradash), poi i gruppi di base per la democrazia che liberarono Serbia, Georgia e Ucraina dai loro dittatori (le famose rivoluzioni pacifiche arancioni).

Tutte cause meritorie e alla luce del sole, nei bilanci rendicontati della Open Society Foundation, compreso il contributo a +Europa della Bonino. Differentemente dalle tentate tangenti sul petrolio di Putin di qualche faccendiere leghista, o come i finanziamenti di un magnate russo a Ecr, il partito europeo di estrema destra presieduto da Giorgia Meloni.

Chiunque può controllare online sul sito di Soros le sue elargizioni. Le più contestate sono quelle per l’integrazione dei migranti. Attenzione: non per il recupero dei clandestini, le ong specializzate nei salvataggi ricevono già abbondanti microdonazioni da un vasto pubblico. 

Ma una volta arrivati nei nostri Paesi, ogni euro di assistenza fornito da Soros per i richiedenti asilo è un euro risparmiato dall’erario. Quindi dovrebbe essere ben visto a destra.

Niente da fare: i sovranisti imputano a lui e a Kalergi una oscura manovra per ‘sostituire’ la popolazione bianca (ariana?) con genti di altri colori. Da qualche anno è Soros stesso a essere sostituito nelle paranoie cospirazioniste sul web da un altro personaggio, ricco quanto lui, ma appassionato più di vaccini che di democrazia: Bill Gates. Peccato che non sia ebreo.

Mauro Suttora 

Wednesday, June 09, 2021

Lo scandalo dei miliardari Usa esentasse

Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica

di Mauro Suttora

HuffPost, 9 giugno 2021

Non c’è bisogno di essere di sinistra per scandalizzarsi di fronte al clamoroso scoop del sito statunitense ProPublica.

I 25 uomini più ricchi d’America (e del mondo) pagano poche o nessuna tassa sul reddito: Jeff Bezos (Amazon), Mark Zuckerberg (Facebook, Instagram, Whatsapp), Elon Musk (Tesla), Bill Gates (Microsoft), Michael Bloomberg, Rupert Murdoch, George Soros, Warren Buffett e gli altri hanno versato 13 miliardi di irpef federale nel 2014-2018 su un reddito complessivo di 400 miliardi. La loro aliquota, quindi, è poco più del 3%. 

Ma grazie a una sapiente e legale elusione fiscale, alcuni ricchissimi sono addirittura scesi a zero. Come Musk, la seconda persona più ricca del mondo, che nel 2018 non ha pagato neanche un cent. Buffett ha versato lo 0,1% sui 24 miliardi di crescita della propria ricchezza dei cinque anni esaminati: 23 milioni. L’aliquota di Bezos è stata dell′1%, quella di Bloomberg dell′1,3%, per tre anni Soros è riuscito a stare a zero.

Com’è possibile? L’aliquota massima dell’imposta sui redditi negli Usa è del 37%. La famiglia media americana paga il 14% di tasse federali su un reddito di 70mila dollari. Ma i miliardari dichiarano una minima frazione di reddito annuo rispetto al patrimonio (soprattutto azioni) che non può essere tassato finché non è liquidato. E, soprattutto, beneficiano di miliardi in deduzioni: scaricano praticamente tutte le spese, dagli aerei privati ai palazzi e ville, fino alle fondazioni di beneficienza e ai finanziamenti per i musei. Nel 2011, per esempio, la ricchezza di Bezos aumentò di 18 miliardi, ma lui dichiarò un bilancio in rosso, denunciando perdite sugli investimenti. Così riuscì a ottenere perfino 4mila dollari in assegni familiari per i figli.

È evidente che il sistema non può continuare così. Il presidente Biden annuncia una riforma delle leggi fiscali. Ma il sito ProPublica è pessimista: “Non serve aumentare le aliquote massime, se non si disbosca la giungla delle detrazioni e dei trust ai Caraibi”.

Da tempo si sapeva delle astronomiche diseguaglianze che piagano gli Stati Uniti degli ultimi decenni. In confronto ai miliardari di oggi, i Rockefeller, Carnegie e Vanderbilt un secolo fa erano dei poveracci. Nel 2011 Buffett chiese a Obama di pagare più tasse: “Ho guadagnato tre miliardi, mi avete chiesto solo sette milioni”.

Ma solo ora, con i documenti dell’Irs (Internal Revenue Service, la nostra Agenzia delle entrate) pubblicati da ProPublica in barba alla privacy dei ricchissimi, ci sono cifre sconvolgenti a sostanziare denunce generiche.

Particolarmente fastidiosa risulta la pretesa dei Paperoni di spacciarsi pure per filantropi. Il velo sollevato sulla fondazione Gates dal divorzio fra Bill e Melinda comincia a rivelare aspetti deplorevoli.

A New York e nelle altre metropoli americane si è sviluppata una vera e propria industria dei “charity gala”, le feste di fundraising per le buone cause più disparate con cui i ricchi si lavano la coscienza. E con cui aumentano le deduzioni fiscali per guadagnare ancora di più.

Secondo Forbes nei sedici mesi dell’epidemia Covid, mentre centinaia di migliaia di americani morivano e milioni perdevano il lavoro, i miliardari Usa hanno accumulato altri 1.200 miliardi di guadagni. Inconcepibile, per un impero nato 245 anni fa e cresciuto grazie a due parole: libertà, ma anche eguaglianza.

Mauro Suttora 

Friday, March 23, 2018

Chi comanda veramente nei 5 stelle

IL FIGLIO DI CASALEGGIO VANEGGIA SUL WASHINGTON POST, E ORGANIZZA UN GALA ESCLUSIVO SUL ROOFTOP DI UN HOTEL A ROMA, CON VISTA SU SAN PIETRO

di Mauro Suttora

Libero, 21 marzo 2018

«I partiti sono vecchi e moribondi. La politica ha modelli organizzativi obsoleti e diseconomici. La democrazia rappresentativa sta perdendo significato. Quella diretta, resa possibile da internet, dà una nuova centralità ai cittadini e destrutturerà le attuali organizzazioni politiche e sociali».

Altro che ammorbidimento dei grillini. Davide Casaleggio, sulle orme del padre, conferma tutta la carica eversiva del Movimento 5 stelle, e pubblica sul Washington Post un articolo dai toni trionfali e incendiari.

L’unica speranza sono i pentastellati: «Di Maio ha detto: “Non si può fermare il vento con le mani”. Il nostro è un vento inarrestabile che continua a crescere, perché appartiene al futuro».

Passando dalla poesia alla concretezza: «Con il 33% abbiamo raggiunto un successo storico nelle democrazie occidentali. Abbiamo avuto 11 milioni di voti, al costo di 8 centesimi l’uno. Una cifra coperta da micro-donazioni di 19mila cittadini che hanno dato 865mila euro, coprendo tutti i costi della nostra campagna elettorale. Ai partiti tradizionali invece ogni voto è costato fino a cento volte di più: il partito +Europa, per esempio [quello di Emma Bonino, ndr] ha un costo stimato di 7 euro a voto».

Casaleggio jr riprende i toni millenaristici e definitivi del padre: «Sulla nostra piattaforma Rousseau tutti i cittadini possono proporre e votare le leggi online. E non ci fermeremo qui. Già adesso scegliamo i nostri parlamentari sulla Rete, e non nelle stanze piene di fumo dei vecchi partiti. Ma puntiamo a un milione di iscritti. Applicheremo una certificazione decentralizzata su ogni votazione online. E fonderemo la Rousseau Open Academy per selezionare candidati di altissima qualità».

Sogni? Vaneggiamenti? Sicuramente il figlio di Casaleggio con questo articolo-programma pubblicato grazie al World Post del Berggruen Institute (finanziato da Nicolas Berggruen, uno speculatore Usa eccentrico tipo Soros) dimostra ancora una volta di non essere un «semplice attivista» di «supporto tecnico», come si autodefinisce con finta modestia.

E la conferma c’è stata l’altra sera, quando i parlamentari grillini hanno fatto a gara per essere invitati al gala romano della sua fondazione privata, ospitato sul rooftop dell’hotel Atlantic, con splendida vista su San Pietro.

I fortunati invitati (pagando 300 euro di iscrizione e 60 la cena) sono quelli che contano. Chi non c’era, non conta niente. «Formichine», direbbe Casaleggio junior. 

La nomenklatura grillina è fatta a strati. Iscriversi al Movimento non costa nulla, quindi vale nulla. Il cuore del potere vero sta nelle fondazioni Casaleggio e Rousseau. E lì non si può essere eletti, ma solo scelti, in barba a ogni democrazia diretta o indiretta.

«Nessun conflitto d’interesse: questa è un’iniziativa culturale», ha assicurato Davide, annunciando per il 7 aprile la seconda puntata del meeting di Ivrea in memoria del padre, inaugurato l’anno scorso. 

Fra gli invitati al gala c’era Alberto Bonisoli, direttore della Naba (Nuova accademia di belle arti) di Milano. Trombato al voto del 4 marzo, a causa dello scarso risultato ottenuto dal M5s in città (17%), ma già nominato ministro della Cultura nel futuribile governo grillino. 
E fra i non politici spiccava il presenzialista Arturo Artom, assiduo dei salotti della Milano bene.

Intanto, la sindaca 5 stelle di Roma Virginia Raggi annuncia un grande risultato: dopo due anni è riuscita ad abbassare la tassa rifiuti. Dello 0,7%.
Mauro Suttora


Sunday, September 03, 2017

Intervista a Maurizio Turco

Intervista di Mauro Suttora a Maurizio Turco (Radio radicale, 70 minuti)

Intervista pubblicata dal quotidiano Libero il 3 settembre 2017:

I RADICALI CONTRO LA BONINO: STA CON MONTI E SOROS

Quando fate la pace?
"Mai".
Maurizio Turco, presidente del partito radicale, chiude la porta in faccia a Emma Bonino. Che è come se la nazionale di nuoto italiana facesse a meno di Federica Pellegrini. Ma lui non si preoccupa: "Tanti giocatori famosi hanno lasciato la loro squadra. Lei se n'è andata, fa altro".
Perché avete litigato?
"Nessun litigio. Ci siamo riuniti in congresso un anno fa, dentro al carcere di Rebibbia. Lei e altri non sono venuti. Pazienza".
Ma fate le stesse battaglie: giustizia, carceri, migranti, Europa, eutanasia, droga legale.
"Abbiamo agende diverse, a volte concorrenti".
Su che?
"Sulla giustizia siamo gli unici a fare qualcosa. Con gli avvocati delle camere penali raccogliamo firme per la separazione delle carriere dei magistrati. Radicali italiani [la sigla dei boniniani di Riccardo Magi, ndr] invece si sono stufati".
Rimanete tutti europeisti.
"Noi vogliamo gli Stati Uniti d'Europa".
Anche la Bonino.
"Il federalismo del suo progetto Forza Europa è molto annacquato".
Vi dà noia che sia vicina a Mario Monti?
"Le lotte si definiscono anche per gli interlocutori che si scelgono".
Pure loro vogliono più Europa.
"Sì, ma per esempio gli eserciti nazionali vanno chiusi domani, perché sono inutili. Invece loro parlano di 'federazione leggera'".
Siete massimalisti.
"No, realisti. I burocrati di Bruxelles riescono solo a farla odiare, l'Europa".
Che però ci ha garantito 70 anni di pace.
"Ecco un altro slogan triste, minimalista".
Accusate la Bonino di stare con Soros.
"È diventata dirigente della sua fondazione".
E allora?
"Non ne sapevamo nulla".
Ma Soros è da sempre vicino ai radicali. Ha finanziato la vostra Lega antiproibizionista.
"Centomila euro 25 anni fa. Li accetterei ancora. Ma i soldi devono andare a lotte che interessano a noi, non viceversa".
Anche Soros voleva esportare la democrazia.
"Però spieghi se le sue speculazioni sono compatibili con lo stato di diritto".
Non ha commesso reati.
"Ma ha scommesso sulle carestie. È giusto?"
I radicali di Roma hanno raccolto le firme per un referendum sull'Atac.
"Solo consultivo".
È quel che passa il convento.
"I referendum sono uno strumento bruciato".
Detto da un radicale, è una notizia.
"Guardate la fine che ha fatto quello sull'acqua pubblica del 2011".
E allora perché ne avete proposti altri dodici nel 2013?
"Appunto".
Una delle vostre divergenze. E Grillo? I radicali lamentano la "censura del regime", ma lui con la rete è arrivato al 25%.
"Il regime sceglie i propri oppositori".
Grillo è antisistema quanto voi.
"È un prodotto dei comizi che gli faceva fare Santoro".
Poi però si è sviluppato online.
"E allora perché vanno sempre in tv? Di Maio è in Rai anche di notte".
Ormai sono il terzo partito.
"E fanno monologhi in tv. Senza contraddittorio, senza avversari. E ricattano pure: 'Altrimenti non veniamo'.
Molto antisistema".
Prendono i voti antipartiti che erano vostri.
"Antipartiti i grillini? Ma se vogliono introdurre il vincolo di mandato, sottomettendo i parlamentari ai partiti".
Sono per la democrazia diretta.
"E intanto espellono i dissenzienti".
Nel partito radicale l'espulsione non esiste.
"Siamo libertari. Si sta assieme per un anno, chi ci sta ci sta. Poi di nuovo a congresso".
Spadaccia e Bandinelli, radicali da 60 anni, vi chiedono dibattiti sula vostra Radio.
"Ci sono già stati al congresso scorso. Li riapriremo al prossimo, nel 2019".
Sono radicali prestigiosi.
"Prestigiosissimi. Ma non possiamo portarci dietro vecchi rancori. Spadaccia lasciò il partito radicale un quarto di secolo fa".
Ora vi tende la mano, si è reiscritto.
"Bene. Lo aspettiamo alle nostre iniziative. Se non raccogliamo 3.000 iscritti entro dicembre chiudiamo. Siamo a 1.600".
Vi presenterete alle politiche?
"No. Dal 1989 il partito radicale è transpartito, non partecipiamo alle elezioni italiane".
Ma lo fate sotto altri nomi.
"Mai come radicali".
Un anno fa sì, alle comunali di Milano e Roma. Un disastro, nessun eletto.
"Lo decisero in quattro in due giorni".
I boniniani.
"Non personalizziamo".
Per questo avete litigato.
"Nessun litigio. Strade diverse. Buona fortuna".  

Mauro Suttora


Friday, May 20, 2016

Pannella/Bonino: un amore finito male

DOPO LA MORTE DI MARCO, EMMA FA PACE. TROPPO TARDI

di Mauro Suttora

Libero, 20 maggio 2016

Lui ha fatto politica per 70 anni: prima tessera da quindicenne (liberale) nel 1945. Lei esordì 40 anni fa, con un aborto e un arresto. Lui si portava appresso 120 chili (se non digiunava) per 190 cm. di altezza. Lei ne pesa 50 per un metro e 60. Agli antipodi anche la parlantina: barocco e fluviale lui, concreta e concisa lei.

Apostoli della democrazia diretta, dal 1974 hanno raccolto 67 milioni di firme per 122 referendum. Ne hanno vinti 35: divorzio, aborto, finanziamento pubblico ai partiti, obiezione di coscienza alla naja, voto ai 18enni, caccia, chiusura manicomi e centrali nucleari…

Marco Pannella ed Emma Bonino: dall’alto del proprio due per cento hanno cambiato la storia d’Italia dal 1970 a oggi. Sono il contrario di Beppe Grillo, loro imitatore: senza voti (e dal 2013 senza deputati) contano molto, mentre i grillini hanno tanti voti ma contano poco.

Formavano una coppia inossidabile. In tanti avevano cercato di separarli. Nel 1999, dopo il successo della lista Bonino alle europee (secondo partito col 12% al nord), Silvio Berlusconi definì Emma «protesi di Pannella».

Ma lei fino all'estate scorsa era rimasta fedele all’uomo che la fece entrare in Parlamento a 28 anni, con gli zoccoli da femminista. Uniti perfino dai tumori: entrambi ai polmoni, più una metastasi al fegato per Marco.

Fegatoso era stato l’attacco di lui a lei: «Non viene più alle riunioni di partito, non sappiamo che faccia». In realtà la Bonino è di nuovo attiva, superato il cancro con la chemio. Solo che, andando per i 70, si è stufata delle mattane del suo mentore.

Pannella negli ultimi 15 anni ha «adottato» un giovane radicale, Matteo Angioli, con cui ha convissuto in un rapporto socratico-platonico. Lo ha promosso all’interno del partito, fra mugugni vari. E ha rivelato che Bonino si è opposta alla pubblicazione di un loro epistolario.

Gelosia? Pannella è bisessuale: «Ho amato molto quattro uomini, ho avuto figli da due donne», ha confessato. Fra Marco ed Emma non c’è mai stato nulla di sentimentale. Quindi non è stato l’amore ad allontanarli, ma la politica.

Negli ultimi due anni Pannella si era fissato con «il diritto alla conoscenza e la transizione dei Paesi occidentali verso lo stato di diritto». Ha fatto organizzare al suo Matteo e all'ex ministro finiamo degli Esteri Giulio Terzi (predecessore della Bonino alla Farnesina) convegni sull’astruso tema, invitando a Bruxelles, a Roma e a Ginevra (la scorsa settimana) politici e ambasciatori stranieri.

«Emma non si era mai sottratta alle iniziative più strampalate di Marco», commenta Roberto Cicciomessere, già suo compagno e segretario radicale. Ma da un anno non collaborava più. Per lei ormai Pannella era zavorra. Da vent’anni vola nei sondaggi è stata due volte ministro, commissaria Ue (Pannella nel '94 la impose a Berlusconi che stava per mandare a Bruxelles Napolitano). Prima del tumore era perfino fra i favoriti per il Quirinale, al posto di Mattarella (apprezzata anche dai grillini).

Da piemontese leale e disciplinata, non ha mai polemizzato pubblicamente con Pannella. Versa ancora al partito radicale 2.500 euro al mese. «Ma se ne sta coi suoi amici del jet set», brontolava Marco: dalle sorelle Fendi a George Soros, che appoggiano la decennale battaglia della Bonino contro le mutilazioni genitali femminili.

A rimanere mutilati nell'ultimo anno sono stati i radicali: «Per noi Emma era la mamma e Marco il papà», geme l’ex deputato Marcello Crivellini. 

Ultimo strappo: le liste radicali alle comunali del 5 giugno. I boniniani Marco Cappato e Riccardo Magi si presentano a Milano e a Roma. I pannelliani Maurizio Turco e Sergio D'Elia non sono d'accordo. Ormai le due correnti litigano.

Emma non ha mai voluto vedere Marco durante gli ultimi mesi, nella mansarda in via Panetteria dove tutta Italia è andata in pellegrinaggio, da Renzi a Berlusconi. Ieri ha commentato commossa a Radio radicale la sua scomparsa: «Pannella ci ha insegnato molto, mancherà anche ai suoi avversari. È stato amato, ma non ha mai avuto riconoscimenti adeguati». 

Insomma, anche i monumenti divorziano. E figurarsi se non poteva farlo la strana coppia che ha regalato la legge sul divorzio all'Italia.
Mauro Suttora

Wednesday, August 12, 2015

Coppie in crisi: Pannella e Bonino

EMMA E MARCO, CHE BOTTE

«Non sei più radicale», accusa lui. «Ma se do al partito 2.500 euro al mese», risponde lei. Ecco i veri motivi della lite che divide i massimi libertari italiani

di Mauro Suttora

Oggi, 5 agosto 2015

Lui fa politica da 70 anni: prima tessera da quindicenne (liberale) nel 1945. Lei esordì 40 anni fa, con un aborto e un arresto. Lui si porta appresso 120 chili (se non digiuna) per 190 cm. di altezza. Lei ne pesa 50 per un metro e 60. Agli antipodi anche la parlantina: barocco e fluviale lui, concreta e concisa lei.

Apostoli della democrazia diretta, dal 1974 hanno raccolto 67 milioni di firme per 122 referendum. Ne hanno vinti 35: divorzio, aborto, soldi ai partiti, obiezione di coscienza alla naja, voto ai 18enni, caccia, chiusura manicomi e centrali nucleari…

Marco Pannella ed Emma Bonino: dall’alto del proprio due per cento hanno cambiato la storia d’Italia dal 1970 a oggi. Sono il contrario di Beppe Grillo, loro imitatore: senza voti (e ora neanche deputati) contano moltissimo, mentre i grillini hanno tanti voti ma contano pochissimo.

Formavano una coppia inossidabile. In tanti avevano cercato di separarli. Nel 1999, dopo il successo della lista Bonino alle europee (secondo partito in molte zone del nord), Silvio Berlusconi definì Emma «protesi di Pannella».

Ma lei è rimasta fedele all’uomo che la fece entrare in Parlamento a 28 anni, con gli zoccoli da femminista. Uniti ora perfino dai tumori: entrambi ai polmoni, più una metastasi al fegato per Marco.

Fegatoso è sembrato l’attacco di lui a lei su Radio radicale: «Non viene più alle riunioni di partito, non sappiamo che faccia». In realtà la Bonino è di nuovo attiva, superato il cancro con la chemio. Solo che, andando per i 70, si è stufata delle mattane del suo mentore.

Rapporto platonico con un giovane

Pannella negli ultimi 15 anni ha «adottato» un giovane radicale, Matteo Angioli, con cui ha convissuto in un rapporto socratico-platonico. Lo promuove all’interno del partito, fra mugugni vari. E ha rivelato che Bonino si è opposta alla pubblicazione di un loro epistolario.

Gelosia? Pannella è bisessuale: «Ho amato molto quattro uomini, ho avuto figli da due donne», ha confessato. Fra Marco ed Emma non c’è mai stato nulla di sentimentale. Quindi non è l’amore ad allontanarli, ma la politica.

Ora Pannella si è fissato con «la transizione dei Paesi occidentali e arabi verso lo stato di diritto». Fa organizzare al suo Matteo convegni sull’astruso tema, invitando a Bruxelles e a Roma (la scorsa settimana) politici stranieri.

«Emma non si era mai sottratta alle iniziative più strampalate di Marco», commenta Roberto Cicciomessere, già suo compagno e segretario radicale. Adesso invece non collabora più. Per lei ormai Pannella è zavorra. Da vent’anni vola nei sondaggi, è stata due volte ministro, commissaria Ue. Prima del tumore era fra i favoriti per il Quirinale (apprezzata anche dai grillino).

Da piemontese leale e disciplinata, non polemizza e versa ancora al partito radicale 2.500 euro al mese. «Ma se ne sta coi suoi amici del jet set», brontola Pannella: dalle Fendi a Soros, che appoggiano la battaglia della Bonino contro le mutilazioni genitali femminili.

A rimanere mutilati questa volta sono i radicali: «Per noi Emma era la mamma e Marco il papà», geme l’ex deputato Marcello Crivellini. Anche i monumenti divorziano.
Mauro Suttora

Thursday, July 07, 2011

Le tre agenzie che controllano il mondo

dall'inviato a New York Mauro Suttora

Oggi, 29 giugno 2011

A tradurle letteralmente, hanno nomi ridicoli. Perché Moody in inglese significa «squilibrato mentale», Fitch «puzzola», e lo Standard Poor è un «poveraccio cronico», senza speranza di miglioramento. Invece le tre agenzie di «rating» (valutazione del credito) tengono in pugno il mondo intero: in cinque secondi possono cambiare il destino di centinaia di milioni di persone. Italiani compresi: se bocciano il nostro debito pubblico ci condannano alla bancarotta, come la Grecia. O l’Argentina nel 2001.

Ce ne siamo accorti pochi giorni fa, quando è bastata la voce di un «downgrading» (abbassamento del voto) per le nostre banche a farle crollare in Borsa del 10 per cento. Poi si sono parzialmente riprese, però l’episodio è stato drammatico. Ma chi sono questi misteriosi giudici che ci danno i voti, e che ci governano forse più dei politici che eleggiamo?

Per capirlo siamo andati a New York, nella punta sud di Manhattan, dove le tre agenzie hanno le loro sedi centrali. E abbiamo scoperto che sono vicine di casa: i palazzi di Standard&Poor’s (S&P) e Fitch stanno a poche decine di metri l’uno dall’altro, mentre Moody’s è 500 metri più in là, a Ground Zero.

«I ragazzi di Moody’s vengono qui a mangiare in pausa pranzo», ci dice un barista di Greenwich Street, che porta verso il Village omonimo. «Ma naturalmente non i big brass, i pezzi grossi: quelli si fanno portare il cibo direttamente su nelle loro suite dal catering».

Ha un nome inquietante, l’edificio dove Moody’s occupa vari piani (i suoi dipendenti nel mondo sono 4.500, e fatturano ben due miliardi di dollari): World Trade Center 7. Sì, questo è uno dei cinque grattacieli più bassi che attorniavano le Torri Gemelle. Scampato al disastro, ora di fronte c’è il cantiere della nuova Freedom Tower, che però arranca a ritmi italiani: non sarà pronta per il decennale dell’11 settembre. La verità è che pochi vogliono tornare a lavorare qui, e gli uffici restano invenduti.

Parliamo con un cordiale impiegato 35enne di Moody’s, che però non può darci il nome: «È vietato parlare con esterni del nostro lavoro, soprattutto con giornalisti. Trattiamo affari delicati da miliardi di dollari: quando una multinazionale emette obbligazioni, il loro valore dipende dal nostro giudizio. I fondi che le acquistano si fidano solo di noi».

Fanno bene? Il maggiore azionista di Moody’s è, con il 33 per cento, l’80enne Warren Buffett: il miliardario più ricco d’America assieme a Bill Gates (Microsoft) e all’altro leggendario speculatore, George Soros. La sua holding Berkshire Hathaway per decenni ha garantito ai soci guadagni siderali del 10-20% annuo, reggendo bene anche alla crisi del 2008. Un bel conflitto d’interessi: chi garantisce gli altri fondi che le preziose informazioni di Moody’s non vengano spifferate in anteprima al suo padrone?

È su questo che puntano i concorrenti S&P e Fitch per aumentare le proprie quote di mercato (oggi rispettivamente al 40 e 16%,contro il 39 di Moody’s). Oltre a cercare di sottrarre all’avversario gli analisti migliori. Che non sono le formichine come il nostro simpatico interlocutore, il quale non ha problemi a dirci il suo stipendio: «Non mi lamento, prendo 100 mila dollari l’anno. Ma ai piani alti si va sui milioni. Gente che arriva in limousine dai loro attici nell’Upper East Side con vista su Central Park».

Andiamo a vedere la concorrenza. Superiamo la stretta Wall Street e arriviamo in un altro luogo ben conosciuto dai turisti: l’imbarcadero del ferry per Staten Island e la Statua della Libertà. I palazzi di S&P e Fitch sono qui di fronte. «Ma probabilmente i responsabili del desk italiano stanno a Londra o Francoforte, nelle nostre filiali europee», ci dice un altro anonimo. Insomma, impossibile vedere in faccia chi fa salire e scendere il valore dei nostri risparmi.

«Ma non chiamateci pescecani. Anzi, siamo proprio noi a difendere i pensionati che hanno investito nei fondi previdenziali. Dicendo loro se si possono fidare dei titoli pubblici dei vari Paesi, o delle azioni delle società private».

Insomma, nessun complotto? «Non è colpa nostra se l’Italia ha il terzo maggiore debito del mondo, dopo Giappone e Usa. È come prendersela con un prof che dà un brutto voto se lo studente è svogliato, o con il termometro per la febbre».

Vero. Ma è anche vero che tutte le agenzie di rating (a proposito: il fondatore di Fitch nel 1913 non era socio di Abercrombie) sono statunitensi. E che agli americani non piace che l’euro minacci il dollaro come valuta di riferimento mondiale. Per questo la piccola procura di Trani sta indagando i tre analisti Moody’s che seguono l’Italia. Reati ipotizzati: aggiotaggio e divulgazione di notizie false che turbano il mercato finanziario. Davide contro Golia.

Mauro Suttora

Tuesday, May 11, 2010

Crisi in Grecia

VERSO UN DOPPIO EURO?

Oggi, 3 maggio 2010

di Mauro Suttora

1) Cos’è successo alla Grecia?
Il governo greco negli ultimi anni ha speso molto più di quel che ha incassato con le tasse. Quindi, senza il maxiprestito da 110 miliardi di euro (di cui sedici dall’Italia) concesso dall’Unione europea il 2 maggio, sarebbe fallito. Non avrebbe avuto più i soldi per pagare i creditori alla scadenza dei suoi titoli di stato fra due settimane.
«Se fanno porcherie anche gli stati, come i privati, possono fallire», spiega Lorenzo Marconi, autore con Marco Fratini del libro Vaffankrisi! (Rizzoli).
«Ma agli altri Paesi europei una bancarotta della Grecia non conviene», precisa Massimo Gaggi, editorialista del Corriere della Sera da New York e autore di La Valanga, dalla crisi alla recessione globale (Laterza), «perché costerebbe più del suo salvataggio. Anche gli Stati Uniti sono preoccupati, perché sarebbe il primo fallimento di un Paese Ocse, cioè di economia avanzata. E l’“effetto domino” renderebbe più costoso anche il rimborso del debito americano, che nei prossimi anni aumenterà a livelli spaventosi».

2) Di chi è la colpa?
«Dei politici greci, che hanno addirittura falsificato i dati di bilancio», dice Fratini. Quelli del governo di centrodestra sconfitto alle ultime elezioni, secondo i quali il deficit del 2009 sarebbe stato di poco superiore ai limiti imposti dal tratto di Maastricht, tre per cento sul Pil, mentre era del tredici. «Ma c’è anche una responsabilità da parte delle autorità monetarie europee, che hanno fatto finta di niente mentre la tempesta si stava avvicinando. Per attrarre finanziatori, infatti, i bot greci hanno dovuto offrire interessi del sei per cento, mentre in tutti gli altri Paesi, Italia compresa, data la bassa inflazione gli interessi sono quasi inesistenti. Tutti sapevano che la bolla prima o poi sarebbe scoppiata.

3) Cosa rischia l’Italia?
L’Italia ha lo stesso livello di debito pubblico della Grecia rispetto al Pil: 115 per cento. «Però è un debito meno preoccupante non solo di quello greco», dice Gaggi, «ma anche di quello della Spagna, che è di appena il 53%, per tre ragioni. Primo: gran parte dei nostri titoli di stato sono in mano a noi stessi, contrariamente a quelli di altri Paesi. I titoli del debito degli Usa, per esempio, sono stati comprati da Cina o Paesi arabi, e questo li rende più vulnerabili. Secondo: l’Italia ha già riformato le pensioni, il che rende più gestibili i bilanci pubblici dei prossimi anni. Terzo: l’Italia non ha dovuto salvare le proprie banche, come invece hanno fatto Usa, Gran Bretagna e Germania. Anche con la Grecia, le nostre banche sono esposte per appena quatto miliardi, contro gli ottanta delle banche tedesche e francesi».

4) Cosa rischiano le nostre tasche?
«Se possediamo obbligazioni di stato greche, ma anche spagnole o portoghesi, e le vendiamo ora, subiremo delle perdite», avverte Marconi. «Se invece le teniamo, è una scommessa. Se ci sarà un default, finiranno come i bond argentini: carta straccia. Ma questo rischio attualmente è ben remunerato: anche il sei per cento. E la Grecia, per ora, è stata salvata».

5) Come si può risolvere questa crisi?
«Secondo la cancelliera Angela Merkel e l’80 per cento dei tedeschi bisogna punire chi ha sbagliato, e quindi far fallire la Grecia», risponde Gaggi. «Ma questa strada si è dimostrata impercorribile, perché poi sarebbe stata la volta del Portogallo, della Spagna, dell’Irlanda, con un effetto a catena dagli esiti catastrofici. Anche la banche Bear Sterns e Lehman Brothers erano state fatte fallire. Ma questo non aveva bloccato la crisi, anzi». Quindi, soldi alla Grecia in cambio di tagli e risparmi.

6) Che fare per evitare altre crisi simili in futuro?
«Deve entrare in campo la politica», dice Lorenzo Fontana, eurodeputato della Lega Nord. «Noi passiamo per euroscettici, ma questa crisi dimostra che se l’Europa si basa solo sull’economia, rimarrà una creatura artificiale. Ci vuole rigore sui conti pubblici, a cominciare dall’Italia che ha il terzo debito statale più alto al mondo dopo Usa e Giappone. L’euro, così com’è stato impostato dieci anni fa, dev’essere rivisto. Occorrono strumenti per imporre disciplina fiscale agli stati, e dentro gli stati alle regioni»

7) I tedeschi che non volevano salvare i greci sono egoisti?
«No, le regole vanno rispettate», dice Fontana, «ci vuole responsabilità. E se ora hanno accettato di finanziare la Grecia, non si pensi che lo fanno per generosità. La Germania vuole salvaguardare i quaranta miliardi di crediti delle proprie banche verso la Grecia».

8) Cosa succederà all’euro?
«Non è un mistero che molti in Germania ipotizzino un euro a due velocità», spiega Fontana: «Uno per i Paesi nordici più competitivi, e un Euro 2 per i Paesi mediterranei, che possa attuare delle svalutazioni competitive. Io vengo da verona, e ricordo che grazie alla svalutazione della lira del ‘92 l’export del Nordest verso Germania e Usa decollò, portando grande ricchezza».
Oggi, se non fosse costretta nell’euro, la Grecia potrebbe svalutare aiutando le sue esportazioni e attraendo turisti. «Ma per un’Europa a due velocità ci vorrebbe un altro trattato», frena Gaggi, «e questo attualmente non è ipotizzabile».

9) È vero che alcuni grandi speculatori americani si sono accordati per attaccare l’euro?
«I giornali hanno addirittura riportato la data di una sera di febbraio in cui a New York George Soros e altri gestori di hedge fund avrebbero cenato e concordato un attacco simultaneo all’euro», dice Marconi. «Ma prendersela con gli speculatori è come criticare il leone perché attacca la gazzella ferita invece di inseguire quelle veloci e imprendibili. Le economie sane non soffrono le speculazioni».

10) Sarà almeno più conveniente andare in Grecia in vacanza quest’estate?
«Se Atene potesse uscire dall’euro e svalutare, sì», risponde Marconi, «ma con la moneta unica i prezzi diminuiranno al massimo del dieci per cento. Sarà meglio per i turisti americani venire in Europa, con l’euro sotto quota 1,30 invece che a 1,50. Disperati come sono, i greci dovranno abbassare un po’ i prezzi, ma non più di tanto. Piuttosto, si prevede un drastico calo di arrivi dei 2,3 milioni di tedeschi, perché la crisi colpisce anche lì. E non verranno rimpiazzati dal milione di italiani che ogni estate vanno in Grecia».

Mauro Suttora

Friday, January 04, 2002

Emma, fastidiosa farfalla dell'utopia

Fa nascere il Tribunale internazionale Onu dell'Aia contro la volontà degli Stati Uniti

di Mauro Suttora
Il Foglio, 4 gennaio 2002

Roma. Sta per nascere il Tribunale penale internazionale dell’Onu. Nella sede di «Non c’è pace senza giustizia», l’associazione radicale che da quasi dieci anni si batte per crearlo, Antonella Dentamaro è ottimista: «Ancora poche settimane. Occorrono le ratifiche di 60 Stati, e siamo già a 47. I parlamenti di Portogallo, Slovenia ed Estonia hanno appena votato, devono solo depositare la ratifica. Così il 17 luglio 2002, quarto anniversario del trattato di Roma che ha istituito la Corte, potremo finalmente festeggiare la Giornata della giustizia internazionale».

Porta parecchie firme italiane, il primo tentativo nella storia di far giudicare i crimini di guerra e i genocidi da un tribunale indipendente, non nato «ad hoc» come quelli sulla ex Jugoslavia e il Ruanda, né creato dai vincitori come Norimberga. 

Giovanni Conso ha presieduto la conferenza di Roma che nel 1998 ha scritto lo statuto, Antonio Cassese è stato il primo presidente del Tribunale per l'ex Jugoslavia dal 1993 al '97, Fausto Pocar ne è attualmente giudice. 

Ma soprattutto Emma Bonino gira per il mondo a propagandare l’idea: due mesi fa era in Cambogia, in Thailandia e poi nelle Filippine, un mese fa a Praga con 15 Paesi dell’Est europeo, ora è in Egitto, e il 25 gennaio ad Amsterdam ci sarà un’altra conferenza con Robert Badinter, l’indimenticato «garde des sceaux» di François Mitterrand. 
 
Il principale nemico del Tribunale internazionale permanente si chiama Jesse Helms: un vecchio senatore repubblicano americano che considera la Bonino una fastidiosa farfalla dell’utopia. Il 7 dicembre 2001 è riuscito a far approvare dal Senato Usa a larghissima maggioranza (78-21) una legge che non solo nega qualsiasi aiuto militare a tutti i Paesi che osano ratificare la Corte, ma arriva addirittura a permettere al presidente Usa di «usare ogni mezzo» (cioè la forza) per liberare soldati americani che vengano arrestati dal Tribunale. Per questo la sua legge è stata sarcasticamente battezzata «Hague invasion Act», legge per l’invasione dell’Aia, la città che sarà sede anche della nuova Corte.

Gli Stati Uniti non vogliono che i propri militari possano essere accusati di crimini di guerra durante gli interventi all’estero. Per questo Clinton ha firmato il trattato di Roma solo un anno fa, e la ratifica sembra impossibile. 

Tuttavia il 20 dicembre è avvenuto un colpo di scena: Camera e Senato Usa riuniti hanno bocciato la legge di Helms, rifiutando di inserirla nel bilancio 2002. Poi si vedrà. 

Alla fine, insomma, ha prevalso la posizione aperturista del senatore democratico del Connecticut Christopher Dodd, grande avversario di Helms. E le più di mille Organizzazioni non governative che fanno lobbying a Washington per il Tribunale, da Amnesty a Human Rights Watch, dall’Open Society Institute di George Soros al Partito radicale transnazionale, hanno festeggiato: «È una vittoria importante, perché gli Usa non possono minare la validità di questa istituzione multilaterale proprio mentre chiedono aiuto a tutto il mondo nella lotta contro il terrorismo», dichiara William Pace del Cicc (Coalition for the International criminal court).

Negli Stati Uniti quindi il dibattito è più che mai aperto. Da una parte c’è la consapevolezza orgogliosa di essere l’unica superpotenza mondiale, con annessi oneri e onori. Ma l'isolazionismo americano, che si tramuta in unilateralismo a contatto con le complicate faccende del mondo, si stinge infine in pragmatica ricerca del consenso. 

Per dirla concretamente: certe patate calde gli Usa non hanno voglia di pelarsele da soli. Ecco quindi la Fondazione Ford finanziare la lobby pro-Tribunale internazionale, già innaffiata da contributi (pubblici) di tutti i governi scandinavi, di Germania, Canada e Italia, e perfino dai britannici, i migliori alleati dell’America imperiale. I quali non temono di irritare Washington negando l’estradizione ai terroristi islamici, se rischiano la pena di morte.

Quanto ai fautori della Corte, essi si rendono conto che la collaborazione degli Usa, unici gendarmi mondiali, è indispensabile. Si lavora quindi sui cavilli giuridici, limando per esempio il concetto di «intenzionalità»: i tanto discussi «danni collaterali» non saranno punibili se le vittime civili non vengono colpite intenzionalmente. Come in Bosnia, Serbia e Afghanistan, appunto. Solo bombardamenti indiscriminati tipo Dresda e Hiroshima verranno sanzionati.
Mauro Suttora