Showing posts with label gaza. Show all posts
Showing posts with label gaza. Show all posts

Friday, January 26, 2024

Il magnifico gioco d’equilibro della Corte dell’Aja

GENOCIDIO A GAZA?

Non possono esultare né filopalestinesi né fan israeliani. Il procedimento va avanti, ma intanto si chiede a Israele di prendere misure che evitino rischi genocidiari. Sentenza in parte votata anche dal giudice nominato da Netanyahu

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 26 gennaio 2024

È rimasta solo la giudice ugandese Julia Sebutinde a difendere strenuamente Israele al tribunale Onu dell’Aja. La sentenza provvisoria di oggi, che invita lo stato ebraico ad applicare misure per evitare un genocidio a Gaza, è stata infatti approvata perfino dal giudice israeliano Aharon Barak, nelle parti in cui condanna le frasi d’odio pronunciate da alcuni ministri israeliani e auspica maggiore assistenza alla popolazione civile.

La giudice africana Sebutinde è una dei 15 membri permanenti della Corte. A loro si aggiungono come giudici ad hoc solo per questo procedimento i due rappresentanti delle parti in causa: Israele e Sud Africa, il Paese che ha trascinato lo stato ebraico davanti alla giustizia internazionale con la gravissima accusa di genocidio.

“Ignobile, ripugnante”, l’ha bollata il governo di Benjamin Netanyahu. Il quale però oggi ha dovuto incassare la prima decisione del Tribunale: la tesi sudafricana non è priva di fondamento, quindi il processo si farà. Attenzione, però: non per genocidio, ma per “atti” che potrebbero provocarlo.

E in attesa della sentenza, prevista in tempi non brevi, ecco alcune “misure provvisorie” per proteggere i civili di Gaza. Non il cessate il fuoco, come speravano i palestinesi, ma l’impegno da parte israeliana a evitare azioni che colpiscano ulteriormente i civili.

Sentenza pilatesca? L’unica possibile. Il “non luogo a procedere” o il “difetto di competenza” erano infatti irrealistiche speranze israeliane. Certo, finire sotto processo per genocidio è un duro colpo per il popolo che un genocidio lo ha subìto (come armeni, ruandesi, cambogiani), e per lo stato che dal genocidio è nato. Anche la coincidenza dei tempi è uno sfregio: proprio domani si celebra il Giorno della Memoria per ricordare la Shoa.

Tuttavia essere accusati non vuol dire essere condannati, e oggi Israele incassa a proprio favore l’unica decisione precisa del tribunale Onu: l’intimazione ai terroristi di Hamas di liberare gli ostaggi israeliani, senza condizioni.

Più imbarazzante, semmai, è che durante la lunga lettura della pre-sentenza la presidente statunitense della Corte, Joan Donoghue, abbia citato parola per parola alcune frasi particolarmente dure pronunciate non da estremisti di destra come il ministro israeliano Bezalel Smotrich, ma dal presidente d’Israele Isaac Herzog, dal ministro della Difesa Yoav Gallant e da quello degli Esteri Israel Katz. 

Sull’onda dell’emozione per le stragi del 7 ottobre non furono pochi, infatti, i politici israeliani che si lasciarono andare a comprensibili auspici di “eliminazione totale” di Hamas. Che però gli avversari d’Israele, con in prima linea inopinatamente il Sud Africa, hanno avuto buon gioco a equivocare come punizione collettiva verso tutti i civili di Gaza.

Intelligente invece il voto “diviso” dell’87enne giudice israeliano Barak: no alle parti della sentenza che sanzionano direttamente Israele, sì alle altre meno impegnative. Barak, sopravvissuto all’Olocausto nella sua Lituania e rifugiatosi con la famiglia a Roma per due anni prima di emigrare in Israele nel 1947, è un ex presidente della Corte costituzionale israeliana, grande avversario di Netanyahu. Ciononostante il premier lo ha nominato all’Aja.

Male fanno i tifosi palestinesi a esultare per la sentenza odierna, così come sbagliano i fan(atici) proisraeliani a rifiutare ogni giudizio dell’Onu. Nella Corte infatti siedono giudici provenienti da Paesi filoisraeliani come Germania, Giappone, Belgio, Francia, Australia, Usa. E il comportamento della giudice ugandese Sebutinde dimostra che molti di loro, se non tutti, sono dotati di indipendenza intellettuale. Semplicemente, a Israele non conviene autocollocarsi al di sopra delle leggi che regolano la comunità internazionale. Perché evocare il genocidio è oltraggioso, ma contenersi limitando la vendetta può rivelarsi saggio. 

Sunday, December 31, 2023

Per Bob Dylan Israele è il "bullo del quartiere"














di Mauro Suttora

Il premio Nobel compone la canzone 'Neighborhood Bully' dopo l'invasione israeliana del Libano e l'occupazione di Beirut, durante la quale avviene la strage di Sabra e Chatila. Anche allora, come oggi, Israele è criticato dal mondo intero per i suoi metodi violenti e sbrigativi

31 dicembre 2023

"Il bullo del quartiere è solo contro un milione. I suoi nemici dicono che occupa la loro terra, lo sovrastano di numero, lui non ha alcun posto dove scappare". 

Una delle migliori descrizioni di Israele è quella cantata dall'ebreo americano Bob Dylan 40 anni fa, nel 1983. Il premio Nobel compone la canzone 'Neighborhood Bully' dopo l'invasione israeliana del Libano e l'occupazione di Beirut, durante la quale avviene la strage di Sabra e Chatila. Anche allora, come oggi, Israele è criticato dal mondo intero per i suoi metodi violenti e sbrigativi. 

È la prima volta che Dylan torna alla canzone politica dopo 'Hurricane' del 1975. Ma l'autore dei principali inni antimilitaristi e nonviolenti degli anni '60 ora è schierato completamente dalla parte di Israele.

"Il bullo del quartiere vive solo per sopravvivere, viene condannato perché è ancora in vita.

Dicono che non dovrebbe rispondere agli attacchi, che con la sua pelle dura dovrebbe lasciarsi uccidere quando gli sfondano la porta.

È stato cacciato da ogni terra, ha vagato in esilio per il mondo.

Ha visto disperdere la sua famiglia, la sua gente perseguitata e fatta a pezzi, ma è sempre sotto processo per il solo fatto di essere nato.

Ha eliminato la folla che voleva linciarlo, ma dicono che deve scusarsi.

Poi ha distrutto una fabbrica di bombe, le bombe erano per lui, ma avrebbe dovuto sentirsi colpevole.

La sorte gli è avversa, le probabilità che viva secondo le regole che il mondo crea per lui sono minime, perché ha un cappio al collo, un fucile alla schiena, e a qualsiasi fanatico viene concessa licenza di ucciderlo.

Non ha veri alleati, deve pagare per tutto, non gli danno niente per amore.

Gli permettono di comprare armi obsolete, ma nessuno combatte anima e corpo al suo fianco.

È circondato da pacifisti, tutti vogliono la pace.

Pregano che cessi lo spargimento di sangue, non farebbero male a una mosca, piangerebbero nel farlo.

Aspettano seduti che il bullo si addormenti.

Ogni impero che l'ha fatto schiavo è scomparso: Egitto, Roma, anche Babilonia.

Ha trasformato la sabbia del deserto in un giardino paradisiaco.

Non va a letto con nessuno, nessuno lo comanda.

I suoi libri più sacri sono calpestati, nessun contratto che ha firmato vale la carta su cui è scritto.

Ha preso le briciole del mondo e le ha tramutate in ricchezza, le malattie in salute.

Qualcuno è in debito con lui? Nessuno, dicono.

Gli piace causare guerre, orgoglio, pregiudizi, superstizioni.

Aspettano il bullo come un cane aspetta il cibo.

Cos'ha fatto per avere così tante cicatrici?

Cambia il corso dei fiumi, inquina la luna e le stelle?

Il bullo del quartiere sta sulla collina, l'orologio si esaurisce.

Il tempo è immobile". 

Wednesday, December 06, 2023

In sessanta giorni, Israele non ne ha azzeccata una





















Il 7 ottobre è stato un dramma, il seguito pure: l’azione militare non è servita a liberare un ostaggio, a catturare un terrorista. Le bombe su Gaza paiono una vendetta furiosa condotta alla cieca. Che fine hanno fatto i leggendari servizi segreti israeliani? Domande sul futuro.

di Mauro Suttora 

Huffingtonpost.it, 6 dicembre 2023

Diciamoci la verità: è in corso un secondo dramma per gli israeliani, dopo la strage del 7 ottobre. In questi due mesi non sono riusciti a liberare un solo ostaggio, a catturare un solo terrorista fra quelli individuati nei video della mattanza, a scoprire il quartier generale di Hamas, che non era sotto l’ospedale Shifa. E neppure a fermare i lanci di razzi palestinesi da Gaza, che costringono ancora centinaia di migliaia di israeliani a nascondersi nei rifugi di giorno e di notte.

Per non parlare del crollo di reputazione provocato dai 15mila palestinesi ammazzati a Gaza: anche togliendo uno zero alla cifra sparata dalla propaganda Hamas, si insinua l'impressione di un disperato replay del “Muoia Sansone con tutti i filistei!” antico tre millenni: una vendetta furiosa condotta abbastanza alla cieca, lontana dall’abituale precisione chirurgica israeliana che minimizzava i “danni collaterali”. 

Per ironia della sorte, i philistin del 2000 a.C. abitavano proprio la zona di Gaza. Oggi le immagini della Striscia rasa al suolo si sovrappongono fatalmente a quelle degli sgozzamenti medievali nei kibbutz, facendole sbiadire.

Insomma, in questi 60 giorni Mossad e Shin Bet hanno continuato a perdere la loro leggendaria aura di servizi segreti più efficienti del mondo: un’ulteriore drammatica sconfitta, dopo quella del 7 ottobre. I loro informatori palestinesi vengono torturati, uccisi e appesi ai lampioni se scoperti o anche solo sospettati da Hamas, Jihad o Hezbollah. La rete di spie arabe non può più garantire l’invincibilità di Israele.

Perciò ora la domanda cruciale è: questo nuovo, inedito senso di insicurezza che gli israeliani provano per la prima volta dal 1948 provocherà un loro indurimento o ammorbidimento? Di solito soltanto i vincitori possono permettersi di essere magnanimi e generosi, mentre gli sconfitti covano frustrazione e voglia di vendetta. Ma la forza può anche trasformarsi in arroganza, mentre una consapevole debolezza spinge a compromessi.

Quindi, prosaicamente: alle prossime elezioni vinceranno i falchi o le colombe, la destra o la sinistra? Israele continuerà a imbottire la Cisgiordania di propri coloni che vaneggiano di Giudea e Samaria, o permetterà sul serio, 30 anni dopo Oslo, uno stato di Palestina indipendente, e quindi non à pois?

Idem per i palestinesi. I massacri di Gaza li renderanno più aggressivi o ragionevoli? Le scene di giubilo bellicoso per la liberazione dei loro prigionieri in cambio degli ostaggi ebrei non promettono bene. I fanatici di Hamas si rafforzeranno, o prevarrà la ragionevolezza di Anp e Fatah?

La banale risposta è: come in ogni conflitto, gli estremisti di entrambe le parti sono i migliori alleati reciproci. Si rinforzano a vicenda, nel convincersi che gli avversari capiscano solo il linguaggio della violenza.

Due mesi di guerra in Israele/Palestina, e quasi due anni in Ucraina. Purtroppo le dinamiche psicologiche collettive sono simili. Senza voler parificare aggressori e aggrediti: i primi restano Putin e Hamas, nonostante le recriminazioni su torti veri o presunti che possono aver subìto in passato Russia e palestinesi, di cui queste due escrescenze cancerose si spacciano rappresentanti e paladini.

Ma il fallimento della troppo annunciata controffensiva ucraina risulta deprimente quanto il disastro israeliano di queste otto settimane. Ci aggrappiamo ancora alla speranza che Vladimir Putin e Hamas si logorino fino a spezzarsi. Ipotizziamo nuovi leader a Gaza, Ramallah, Gerusalemme, Mosca: dotati, se non della lungimiranza di un Nelson Mandela, almeno del realismo dei vari Sadat, Begin, Rabin, Peres, o degli ultimi Sharon e Arafat in versione illuminata.

Il palestinese Marwan Barghouti (lo incontrai 35 anni fa, grande carisma) e l’israeliano Benjamin Gantz sono coetanei, nati a tre giorni e 40 chilometri di distanza nel giugno 1959: riusciranno a vincere anch’essi un Nobel della pace fra qualche anno?

Forse è solo la speranza di un disperato. Ma, come canta l’artista ebreo più famoso al mondo, Bob Dylan: “L’ora più buia è proprio quella prima dell’alba”. 

Thursday, October 26, 2023

Il grillino cannone. Siore e siori, è tornato Di Battista

di Mauro Suttora

Rentrée di Dibba nei talk, stavolta a dire che Israele è pari ai nazisti alle Ardeatine. Ma noi gli vogliamo bene e lo avvertiamo: anche al circo Barnum, dopo i mangiaspade e il nano, l’ultima carta per attrarre il pubblico era la donna cannone

Huffingtonpost.it, 26 ottobre 2023 

Dovrebbe preoccuparsi, il simpatico Alessandro Di Battista. Perché quando al circo Barnum esaurivano il campionario di fenomeni da baraccone, e dopo i mangiafuoco e i mangiaspade non facevano più ridere neanche i gemelli siamesi o il nano imitatore di Napoleone, l’ultima risorsa per attrarre pubblico era la donna cannone.

Allo stesso modo i talk show hanno dovuto resuscitare l’ex deputato grillino, che è riapparso in tv un anno dopo aver deliziato le platee sull’Ucraina. Il copione è lo stesso, e di sicuro effetto. Si intitola "Sì, però". Allora era “Sì, Putin ha invaso l’Ucraina, però non dobbiamo mandarle armi”, o “però l’occidente ha provocato”. Oggi dice “Sì, Hamas ha compiuto la strage del 7 ottobre, però anche Israele ammazza i bambini”, o “però l’occidente dimentica la Palestina occupata”.

Risultato: il piacione di Roma Nord è diventato istantaneamente l’idolo degli estremisti islamici, si è trasformato in Dibbah d’Arabia. Le sue urla di martedì sera, sottotitolate in arabo e titolate “Finalmente un politico italiano dice la verità”, impazzano sulla rete dal Marocco all’Iraq.

Anche a noi, come a Crozza, piace Dibba. È una miniera inesauribile di bufale e gaffes. Il New York Times lo issò in testa alla classifica mondiale delle panzane dopo che riuscì a dire “Metà Nigeria è in mano ai terroristi di Boko Haram, l’altra metà al virus Ebola” (erano venti villaggi e venti casi in tutto). Il folklore continuò con “in Grecia cittadini disperati s’iniettano il virus dell’Aids per prendere il sussidio”.

Poi certi teppisti francesi che indossavano gilet gialli incendiarono i negozi degli Champs-Élysées, e lui trascinò il collega grillino Luigi Di Maio a Parigi a stringer loro la mano. Quando Di Maio divenne inopinatamente ministro degli Esteri, faticò a spiegare la cosa al presidente Emmanuel Macron. E ora che il povero Di Maio è stato nominato – sempre inopinatamente – inviato Ue nel Golfo, si trova sorpassato dall’ex amico in popolarità presso le masse arabe.

Dibbah ci diverte ogni volta che appare sul piccolo schermo. Lo spettacolo è assicurato, e infatti pare che incassi 2.500 euro a puntata per l’erezione delle audiences. Una volta si proclama “testimone oculare” di un inciucio non perché fosse lì presente, ma perché “ho letto le carte coi miei occhi”. Un’altra scivola sul congiuntivo: “Mi auguro che la Meloni non cedi su Casellati”. Nella foga scambia “soddisfamento” per “soddisfazione”, missili ipersonici per supersonici.

Sul Medio Oriente invece ha studiato. Non gli capiterà mai di confondere il Libano con la Libia, come successe a un sottosegretario agli Esteri 5 stelle. Però l’altra sera, dopo aver dato dell’ex fascista a Italo Bocchino e avere incassato “il fascista ce l’hai in casa, tuo padre”, l’ha sparata grossa: ha equiparato Israele ai nazisti, dicendo che la “rappresaglia su Gaza è come quella delle Fosse Ardeatine: si vuole arrivare a 33 bimbi palestinesi uccisi per ogni bimbo israeliano?”.

A parte il delirante paragone, nessuno lì per lì si è accorto dello svarione contabile: Hitler applicò la vendetta nella misura di uno a dieci: 33 soldati uccisi, 330 (molti ebrei) fucilati. Ma nella confusa matematica dibbiana Bibi Netanyahu risulta peggiore del comandante SS Herbert Kappler.

È probabile che ora Dibbah, sull’onda di questi exploit, venga ripescato anche dai 5 stelle e candidato all’Europarlamento da un Giuseppe Conte in debito d’ossigeno. Così il circo verrà trasmesso in Eurovisione. Titolo in inglese, questa volta: "Freak show".

Friday, May 14, 2021

Israele - Hamas: Onu, il gigante di superpagati che se la prende comoda















Lenta risposta alla crisi di Gaza: riunione domenica, con calma, dove si dirà di far la pace

di Mauro Suttora



HuffPost, 14 maggio 2021 

Con comodo. Per affrontare l’ennesima guerra Israele-palestinese, il consiglio di sicurezza dell’Onu si riunirà “d’urgenza”. Cioè domenica: quando la guerra magari sarà già finita, con centinaia o migliaia di morti.

A che servono le Nazioni Unite? A poco. Forse a nulla, anche se è bello che nel grattacielo di Le Corbusier e Niemeyer a New York si faccia finta che ci sia un ‘governo mondiale’. 

Nessuna delle crisi e guerre degli ultimi decenni è stata risolta dall’Onu: Birmania, Siria, Libia, Somalia. Per non parlare dei bubboni fissi: Iraq, Afghanistan, Kosovo, Bosnia, Palestina. 

Uno stato pirata e assassino, quello dell’Isis, ha potuto prosperare addirittura per quattro anni senza che le Nazioni Unite riuscissero a coordinare la reazione di Russia, Siria e dei poveri curdi, spazzati via dalla Turchia dopo averci liberati dal flagello islamista.

Ma cos’è l’Onu, in realtà? Un gigante gogoliano con 115mila dipendenti e un bilancio annuo astronomico di 17 miliardi, pieno di burocrati pigri, incompetenti e superpagati, posseduti dall’irresistibile tendenza a perpetuare i problemi invece di risolverli.

Intendiamoci, la sua inefficienza non è maggiore di quella di apparati pubblici a qualsiasi livello: statale, regionale, comunale. Solo che i nostri inutili consiglieri di zona ci costano appena qualche gettone di presenza, mentre i funzionari onusiani incassano stipendi anche da 200mila dollari nelle loro comode sedi di Manhattan, Ginevra o Vienna (diverso è il discorso degli inviati sul campo di agenzie come il Pam, Programma alimentare mondiale, fondamentale per alleviare le carestie).

A volte poi i dirigenti Onu non sono inutili, ma dannosi: come quello dell’Oms che ha censurato un rapporto sul covid perché poteva “rovinare i rapporti” col nostro governo.

Ecco, sono i governi nazionali la rovina delle Nazioni Unite (così come dell’Unione europea, peraltro). Quelli di dittature come la Cina che bloccano ogni risoluzione contro regimi loro alleati (Birmania, Corea del Nord). 

Ma anche quelli corrotti di Paesi in via di sviluppo, che mandano a New York ambasciatori inetti, spesso amici o parenti del dittatorello locale, per fare la bella vita con le loro mogli: quella poltrona in alcuni stati è più ambita perfino di quella di ministro degli Esteri o premier.

Sono stato quattro anni corrispondente a New York, giornalista accreditato al Palazzo di Vetro. Ne ho viste di tutti i colori, da Powell che giurava sull’atomica di Saddam ai diplomatici Onu che parcheggiano ovunque in divieto di sosta perché la loro immunità li esenta dalle multe

Ma è nel Terzo mondo che le Nazioni Unite combinano i guai peggiori. Tiziano Terzani si scagliò contro le tangenti della missione in Cambogia. E negli interventi di peacekeeping e nation building bisogna pregare che i caschi blu non rimangano coinvolti in traffici sessuali, o non si voltino dall’altra parte come nelle stragi di Srebrenica e Ruanda.

Perché in realtà la maggioranza del personale Onu lavora nelle numerose sedi in giro per il mondo: Ginevra (con i palazzi in stile anni Venti della sfortunata Società delle Nazioni), Vienna (Aiea, e l’Ufficio antidroga che vorrebbe comicamente estirpare i papaveri afghani), Roma (Fao), Parigi (Unesco), l’Aia (Corte internazionale di giustizia), Nairobi (Unep, United Nations Environmental program).

Ogni problema ha la sua bella agenzia Onu, cosicché a Santo Domingo c’è l’Instraw (Institute for training and advancement of women), a Berna l’Upu (Unione postale universale), a Londra l’Imo (International Maritime Organization) e a Montreal l’Icao (International Civil Aviation Organization).


Tutte queste simpatiche organizzazioni, prima della pandemia, passavano il tempo soprattutto apparecchiando conferenze leggendarie per spreco di risorse: si è sviluppata una vera e propria microeconomia dei congressi Onu, occasioni di svago e turismo per funzionari governativi di mezzo mondo.

E’ normale che i dirigenti pubblici, anche quelli internazionali, pensino soprattutto alla conservazione del proprio posto di lavoro. All’Unesco, dove i costi fissi di struttura per alcuni programmi raggiungevano l′80% del bilancio, i dipendenti si misero in sciopero della fame contro il nuovo segretario che voleva tagliare gli sprechi.


Ma i più abili, visto che stiamo parlando di Palestina, sono i dirigenti dell’Unrwa (United Nations Relief and Work Agency), l’Agenzia che da ben 72 anni assiste i profughi palestinesi. Erano poche centinaia di migliaia nel 1948, oggi sono oltre cinque milioni. 

Quasi contemporaneamente al loro esodo, nel 1947 anche 300 mila profughi istriani e dalmati (fra i quali mio padre) dovettero abbandonare le proprie terre alla Jugoslavia. Gli esuli italiani affollarono i campi dei rifugiati per qualche mese, al massimo pochissimi anni, e poi trovarono casa e lavoro, oppure emigrarono. Senza alcuna assistenza Onu. 

Quattro generazioni dopo, invece, i palestinesi sono sempre lì, moltiplicati e coccolati con l’assegno giornaliero delle Nazioni Unite. Tutta l’economia della striscia di Gaza è mantenuta in piedi dall’Agenzia per i profughi, che è diventata il maggior datore di lavoro per i palestinesi (ha 30mila dipendenti).

Cosicché domenica, quando con calma si riunirà il Consiglio di sicurezza, come sempre l’Onu farà finta che i suoi 50 eterni campi profughi non siano caduti in mano da decenni a Hamas ed Hezbollah, che predicano la distruzione di Israele, e inviterà entrambe le parti a deporre le armi. Salomonicamente. Anzi no: Salomone era ebreo, quindi innominabile come Israele sulle cartine geografiche arabe.

Mauro Suttora 

Wednesday, August 27, 2014

Gaza: vero e falso

di Mauro Suttora

Oggi, 20 agosto 2014

Le propagande contrapposte di Israele e Palestina usano argomenti a effetto. Verifichiamone alcuni.

1) «Lo statuto di Hamas vuole la distruzione di Israele». Vero. Ma al voto del 2006 questa parte venne tolta. I suoi capi hanno detto che riconoscerebbero Israele a determinate condizioni (ritorno dei profughi, capitale palestinese a Gerusalemme Est). In ogni caso, anche Al Fatah voleva distruggere Israele. Il che non impedì al suo leader, Yasser Arafat, di firmare gli accordi di Oslo (1993) che prevedono due popoli in due Stati.
  
2) «Missili e tunnel palestinesi minacciano Israele». Falso. I razzi sono poco più di scaldabagni sgangherati che hanno provocato in tutto tre morti. Vengono neutralizzati dallo scudo aereo israeliano. E anche le uscite dei tunnel sono facilmente scopribili dall’avanzatissima tecnologia di Tel Aviv.

3) «Genocidio: Israele ha ucciso 500 bambini». Falso. I «bambini» sono minorenni, quindi anche bellicosi 17enni caduti con le armi in pugno o morti perché non sgomberati da zone che gli israeliani avvertivano con anticipo di voler bombardare.

4) «Gaza è bloccata da Israele». Falso. Gaza confina anche con l’Egitto, Stato «fratello arabo», il quale potrebbe permettere il transito.

5) «I palestinesi capiscono e rispettano solo il linguaggio della forza». Falso. Israele si è accordata con tutti i suoi vicini: Egitto, Giordania e, di fatto, perfino con la Siria degli Assad. 
Quanto ai palestinesi, Abu Mazen e la Cisgiordania rispettano gli accordi di Oslo e vorrebbero reciprocità da Israele.

6) «Il muro e le colonie ebraiche impediscono la pace». Falso. Il muro ha eliminato gli attacchi suicidi. E le colonie potrebbero sopravvivere se nascesse un clima di fiducia reciproca.
Mauro Suttora

Wednesday, January 28, 2009

parla Ari Folman

VALZER CON HAMAS

«Le guerre non servono a niente, neanche questa di Gaza», dice il regista israeliano di Valzer con Bashir, film antimilitarista candidato all'Oscar

Oggi, 28 gennaio 2008

di Mauro Suttora

«Le guerre non servono mai a niente: non c'è alcuna gloria nelle armi, non si diventa eroi. Niente di buono può avvenire in una guerra. Anche questa di Gaza è stata inutile. A quando la prossima? Quanto durerà la tregua?»

Ari Folman, 45 anni, israeliano, è il regista del film d'animazione Valzer con Bashir. Probabilmente fra un mese vincerà il premio Oscar per il migliore film straniero, che molti in Italia speravano andasse al nostro Gomorra tratto dal libro di Roberto Saviano. Ma in fondo sono entrambi film «nonviolenti»: denunciano l'assurdità della violenza, mostrandola.

Valzer con Bashir ha già vinto il Golden Globe, il premio più prestigioso dopo l'Oscar. E ha trionfato all'ultimo festival di Cannes. Racconta la prima guerra del Libano, quella del 1982, in cui combattè anche il diciottenne Folman. Gli israeliani invasero Beirut, ne cacciarono i guerriglieri palestinesi dell'Olp, e non mossero un dito quando i cristiani maroniti libanesi sterminarono tremila palestinesi (fra cui molte donne e bambini) nei campi profughi di Sabra e Chatila.

«Sono passati quasi trent'anni, ma oggi a Gaza siamo daccapo», ci dice Folman, al telefono dagli Stati Uniti.

«L'unica differenza è che allora noi israeliani peccammo per "omissione", perché non fermammo le bande cristiane. Mentre ora abbiamo combattuto direttamente. Ma è sempre guerra. Con tutti i suoi falsi miti: il coraggio, il fascino dei "duri", l'illusione del "quando ci vuole ci vuole". Lo slogan ufficiale di questa nostra guerra è "enough is enough"...»

Che in Italiano si può tradurre «ne abbiamo abbastanza», mister Folman. I suoi compatrioti erano stufi di fare da bersaglio per i missili dei terroristi di Hamas, lanciati da Gaza. Non condivide la loro esasperazione?

«Certo. Ma la gente si divide fra quelli che cercano di affermare le proprie ragioni con la violenza, e quelli che usano altri mezzi. Purtroppo oggi nella mia regione - Israele, Palestina, Medio Oriente - la maggioranza delle persone ha fiducia nella violenza. E i violenti trovano sempre una giustificazione per le loro azioni: la politica, la religione, la razza, i confini, la sicurezza...»

Insomma, lei è un antimilitarista integrale. Ma la guerra contro Hitler? E quelle degli israeliani che si difendevano dagli attacchi di tutti i Paesi arabi?

«Non ho visto nessuna guerra, dopo il 1945, che non potesse essere evitata. E dopo quella dei Sei giorni nel 1967, anche dalle mie parti non è stato fatto abbastanza per prevenire i conflitti».

Ma i governi israeliano e palestinese sono in perenne trattativa.

«Guardi, due anni fa stavo finendo di montare il mio film. Era l'estate 2006 e scoppiò la seconda guerra in Libano, fra Israele ed Hezbollah. Pensai: "Peccato che il film non sia pronto, uscirebbe proprio al momento giusto". Poi mi consolai pensando che sarebbe rimasto sempre attuale. Avrei voluto sbagliarmi, invece ho avuto ragione».

Nel suo film appare Ariel Sharon: nell'82 era il generale che comandava gli israeliani. Fu condannato per avere permesso la strage di Sabra e Chatila. Però vent'anni dopo, da premier, ha costretto i coloni israeliani a ritirarsi da Gaza. I politici cambiano e si cambiano, lei non vede speranza?

«I politici giocano alla guerra contando i morti con freddezza, come in una partita a scacchi. Da una parte e dall'altra, per loro lanciare missili o bombardare è facile. Non hanno pietà per la sofferenza, non rispettano la vita umana, sono privi di morale. La mia canzone preferita è Signori della guerra di Bob Dylan. Volevo metterla nel film, ma era superfluo. Dice: «Voi, politici, fabbricanti e commercianti d'armi, preparate i grilletti che altri premeranno. Vi nascondete dietro a pareti e scrivanie, non siete voi a sparare. Ma vi vedo attraverso le vostre maschere...»

Perché lei non si rifiutò di combattere, nell'82?

«Per tutti i diciottenni israeliani è normale diventare soldati. Tre anni di servizio militare. E poi richiami ogni anno anche in tempo di pace. In Israele la gente si divide in due: quelli che hanno combattuto, e quelli che non lo hanno fatto. Se sei un buon cittadino lo fai, è automatico. Per questo il mio film è stato accolto così bene dall'establishment: perché in fondo sono uno di loro».

Beh, se al governo ci fosse stata la destra di Benjamin Netaniahu invece del centrosinistra di Tzipi Livni e dei laburisti, forse qualche problema lo avrebbe avuto.

«Quando si tratta dell’esercito non c’è molta differenza fra destra e sinistra, in Israele. Eppure le istituzioni non solo non mi hanno ostacolato, ma hanno pagato per mandare il film in giro per il mondo, candidandomi all'Oscar. In fondo, però, il mio non è un film politico: mostro soltanto la prospettiva e lo straniamento del singolo soldato israeliano. E metto in chiaro che la responsabilità diretta del massacro di Sabra e Chatila non è nostra, ma dei cristiani maroniti che volevano vendicare l'assassinio del loro candidato presidente Bashir Gemayel. Di qui il titolo».

Israele e Palestina riusciranno a convivere in pace, un giorno?

«Certo. Tutti lo sanno che prima o poi accadrà. Lo vuole la grande maggioranza della gente, da entrambe le parti. Perché tutti alla fine vogliono vivere tranquilli, guadagnare bene, pagare meno tasse e farsi una vacanza all’estero. Non vogliono vivere militarizzati».

Ma è da sessant’anni che dura, questo conflitto.

«Cioè niente, per i tempi della storia. Io ho realizzato il mio film con produttori tedeschi. Eppure tutta la mia famiglia è stata sterminata nell’Olocausto. Unici sopravvissuti: i miei genitori. Sono stato al festival del cinema di Sarajevo. Solo tredici anni fa si massacravano. Ora vivono in pace. Si può fare».

Mauro Suttora

Wednesday, February 07, 2001

I coloni israeliani a Gaza

I COLONI ISRAELIANI A GAZA

di Mauro Suttora

Il Foglio, 7 febbraio 2001

Gaza. Se non stesse lì, ma appena cinque chilometri più a Est, o quindici a Nord, sarebbe un posto bellissimo: una location ideale per un qualsiasi club Mediterranée o Valtur. Invece, è l’inferno dentro all’inferno. Nezarim, infatti, è uno dei 140 insediamenti ebraici in territorio palestinese, e sopravvive soltanto perché è sorvegliato giorno e notte da blindati e carri armati dell’esercito d’Israele.

Morire per Nezarim? È quello che si chiedono gli israeliani dopo il voto. Nezarim è una «goccia» di tre chilometri quadri in riva al Mediterraneo, ficcata proprio in mezzo alla striscia di Gaza. Fino al 1984 era una base militare. Poi, dopo la restituzione del Sinai all’Egitto, ci arrivarono i coloni religiosi sfrattati dai kibbutz che avevano impiantato nella penisola desertica. Oggi sono in 170: lavorano come insegnanti, fanno gli agricoltori, hanno una cava di ghiaia. Coltivano mango, vite, patate dolci e pomodori. Ma vivono assediati dal nemico. 

Ai professori e agli altri pendolari che lavorano in Israele tocca infatti passare ogni giorno per sei chilometri di strada in territorio palestinese, che da quattro mesi sono diventati un incubo. Devono attraversare l’unica superstrada che collega la striscia di Gaza da Nord a Sud, e lì stazionano le autoblindo israeliane. Ma ad ogni metro potrebbe partire l’attacco improvviso, con le pietre e i proiettili.

Per rendere sicure le strade che conducono gli insediamenti, a Gaza come in Cisgiordania, i soldati non hanno esitato a far tabula rasa: hanno abbattuto tutti gli alberi e le case circostanti, dalle quali potrebbero partire gli agguati. Risultato: gli israeliani, un tempo famosi per piantare alberi (la forestazione era diventata quasi una religione civile), ora li sradicano. Secondo il Centro palestinese per i diritti umani, sono ben 400 gli ettari di campi coltivati con alberi da frutta rasati a zero accanto alle strade, da quando è scoppiata la seconda intifada.

L’ultimo piano di pace Clinton, abortito in gennaio, prevedeva il ritiro da tutti gli insediamenti ebraici a Gaza. In Cisgiordania, invece, gli israeliani speravano di poterne salvare parecchi. Ma adesso, con la vittoria di Ariel Sharon, i 200 mila coloni si sentono al sicuro. La destra, infatti, è disposta a tutto per difendere gli insediamenti. Anche quelli situati nelle posizioni meno difendibili, come Nezarim. 

Ma, paradossalmente, ora è proprio l’esercito ad avanzare le perplessità più solide contro l’abbarbicarsi a oltranza nelle enclaves in territorio palestinese. La domanda, assai concreta, è: «Quanto ci costa, in termini di soldi e di vite umane, assecondare l’orgoglio messianico e spesso fanatico dei coloni?»

In realtà, la situazione degli insediamenti in Palestina è assai diversificata fra loro. A Gaza, per esempio, ce ne sono di tre tipi. All’estremo nord i tre villaggi di Dugit, Alei Sinai e Nissanit sono in continuità territoriale con Israele. I coloni, quasi mille, hanno a disposizione una dozzina di chilometri quadri con tanto di stabilimento balneare (la spiaggia di Shikma, tranquilla e affollata di ombrelloni fino all’estate scorsa), un porticciolo per le barche da pesca, un allevamento di ostriche. 

Si raggiunge facilmente la città israeliana di Ashkelon, i pendolari vanno e vengono liberamente. Non sarà difficile praticare uno scambio territoriale: questi dodici chilometri quadri a Israele in cambio di una superficie analoga ai palestinesi, magari per farci scorrere quella famosa strada-corridoio fra Gaza e la Cisgiordania che gli uomini di Yasser Arafat reclamano dal ‘93.

Ci sono poi i quasi trenta chilometri quadri di Gush Katif, all’estremo Sud della striscia di Gaza, proprio al confine con l’Egitto. Qui vivono seimila coloni suddivisi in una dozzina di paesi, due stazioni balneari, un villaggio turistico, una pista d’aeroporto, decine di ettari di serre che esportano primizie in Israele, a Cipro e (clandestinamente) perfino nelle capitali arabe. 

L’insalata di Gush Katif è famosa in tutta Israele perché è garantita l’assenza di vermi, grazie a sapienti incroci genetici. I fiori vengono spediti in tutta Europa, soprattutto in Olanda. Un allevamento modello in mezzo alle dune del deserto ricava tonnellate di latte da un centinaio di mucche, anche queste trasportate ogni mattina a Tel Aviv in autobotte (e di nascosto anche al Cairo). Nel capoluogo, Neve Dekalim, ci sono asili, scuole elementari e medie, licei, due sinagoghe (una sefardita, l’altra aschenazita), officine industriali.
 
I coloni di Gush Katif, che dal 1970 a oggi hanno trasformato il deserto in una specie di Beverly Hills con palme, prati all’inglese e villette in stile Lego, hanno subìto duri colpi dall’intifada-bis, con tanto di attentati agli autobus, bombe, agguati e vendette. Da ottobre i pendolari palestinesi sono stati licenziati, e per sostituire la manodopera arrivano in turni da una settimana studenti da altri insediamenti in zone più tranquille. 

È il caso delle sedicenni Netta Dahari, che viene da Hadera (vicino a Netanya), Avital Moscovich e Leah Meller, provenienti da Ramat Golan: «Ci ospitano nei cottage del villaggio turistico che d’inverno è chiuso, ma per andare a lavorare nelle serre dobbiamo usare gli autoblindo dell’esercito».

A poche decine di metri, dall’altra parte di un muro di cemento, ci sono infatti i campi profughi palestinesi di Khan Yunis e Rafah. Da lì arrivano periodicamente sassi e pallottole, e sarebbe perfino strano che ciò non accadesse. È troppo stridente, infatti, la differenza fra il tenore di vita californiano di questi insediamenti e la povertà da terzo mondo dei palestinesi che li circondano. Ma almeno l’insediamento di Gush Katif possiede una stazza territoriale tale che per i soldati è relativamente semplice difenderlo.

Diverso e disperato è invece il futuro per il terzo tipo di colonie ebraiche che punteggiano il martoriato territorio palestinese di Gaza: le «gocce» come Nezarim, appunto, e altri isolatissimi microinsediamenti come Kefar Darom (200 membri) e Morag (100). Questi sembrano veramente «un insulto al buon senso e alla giustizia», come ha scritto il corrispondente del Corriere della Sera da Gerusalemme, Guido Olimpio, due settimane fa. 

Per arrivare a Kefar Darom, per esempio, i soldati israeliani hanno dovuto subire l’umiliazione di dividere in due con un muro di cemento vari chilometri dell’unica autostrada di Gaza: una carreggiata agli israeliani, l’altra ai palestinesi. È un apartheid insensato e onerosissimo: perfino Arafat, ogni volta che deve prendere l’aereo, è costretto a passare attraverso queste forche caudine per raggiungere il suo aeroporto. Per di più, gli israeliani bloccano la circolazione civile durante giorni interi come rappresaglia dopo ogni attacco palestinese. 

Quindi la striscia di Gaza, lunga neanche 50 chilometri, risulta divisa ulteriormente in tre compartimenti stagni che non possono comunicare tra loro: lavoratori impediti dal tornare a casa la sera e costretti a dormire da amici, ambulanze bloccate, perfino i convogli dell’Agenzia per i rifugiati dell’Onu non possono circolare. Sarebbe come se venisse bloccato tutto il traffico fra Milano e Monza, o fra Roma e Fiumicino.

I coloni, tuttavia, sono riusciti in questi ultimi mesi a togliersi di dosso la nomea di provocatori, perlomeno agli occhi di fette consistenti dell’opinione pubblica israeliana. Il punto di svolta è stata l’imponente manifestazione dell’8 gennaio a Gerusalemme, organizzata dall’ex dissidente russo Nathan Sharanski (anni di gulag comunista sulle spalle). 

Con i loro canti e balli e la loro solidarietà tranquilla e gioiosa, i coloni accorsi in massa hanno incantato perfino alcune fasce della sinistra, che vedono in loro gli eredi dello spirito socialista e pionieristico dei kibbutz. Così oggi, nella nuova Israele di Sharon, i coloni hanno smesso di essere un problema da risolvere, e qualcuno li considera una bandiera da sventolare.

Gli insediamenti nel deserto di Samaria e Giudea hanno almeno una giustificazione storica, perché coprono a pois il territorio di quello che tremila anni fa era il regno di Davide. Ma le mini-enclaves ebraiche dentro a Gaza saranno difficili da difendere perfino per Sharon, che quando era ministro della Difesa e poi dei Lavori pubblici ne favorì la costruzione. In ogni caso, dalle poche centinaia di metri di Nezarim, oltre che da quelle del monte del Tempio a Gerusalemme, dipende la pace in Medio Oriente.
Mauro Suttora  

Wednesday, January 17, 2001

"In questo deserto non c'erano arabi, non glielo daremo mai!"























I nostri inviati sono andati nel Medio Oriente insanguinato per scoprire come vivono i coloni israeliani assediati dall’Intifada palestinese


di Mauro Suttora

foto di Gianni Gelmi


Neve Dekalim è una striscia di dieci chilometri in mezzo a un territorio nemico. “Non abbiamo portato via la terra a nessuno, qui c’era solo sabbia, noi abbiamo creato un ‘paradiso’ e non ce ne andremo”, dicono gli abitanti. “Siamo in mezzo alla guerra, ma ci siamo abituati”


Oggi, 17 gennaio 2001


Israele è un striscia di 300 chilometri circondata da arabi. Gaza è una striscia di 40 chilometri in mezzo agli israeliani. E a sua volta Neve Dekalim, come in un gioco di matrioske, è una striscia di dieci chilometri ficcata fra i palestinesi di Gaza.

Siamo quindi venuti qui, proprio nell’epicentro della guerra infinita fra Israele e Palestina che si trascina da più di mezzo secolo, per capire le ragioni degli uni e degli altri. Neve Dekalim infatti, secondo gli accordi di pace discussi in questi giorni, dovrebbe sparire. Ma i 7mila coloni ebrei che ci lavorano da trent’anni ovviamente non sono d’accordo. E preferiscono vivere nel terrore quotidiano di essere attaccati dal milione di palestinesi di Gaza che li assediano, piuttosto che andarsene.


Arriviamo ad Ashkelon, ultima città israeliana prima di Gaza, e cerchiamo di salire sull’autobus numero 36, l’unico che porta a Neve Dekalim. Ha doppi vetri blindati antiproiettile e una grata di ferro sul parabrezza per proteggersi dalle pietre dell’Intifada. Ma la corriera è piena di soldati e soldatesse di leva diciottenni che tornano dalle licenze: non c’è più posto, neanche in piedi.

In Israele il servizio militare dura tre anni per i maschi, due per le femmine, e non può essere rinviato per motivi di studio. È impressionante vedere tutti questi ragazzi in tuta mimetica verde girare col mitra in spalla, ma anche preoccupante constatare come chiunque possa lasciare qualcosa nel bagagliaio del bus, senza controlli.


Il bus successivo della linea 36 parte solo dopo due ore, e allora cerchiamo un taxi. Ma i tassisti ci avvertono subito: “Fino a Neve Dekalim non andiamo, ci fermiamo alla frontiera di Kissufim. Per gli ultimi dieci chilometri dovete arrangiarvi, perché lì i palestinesi tirano pietre. E anche peggio: una settimana fa ci hanno lasciato la pelle due soldati israeliani di pattuglia”.


Accettiamo lo stesso, e arriviamo alla frontiera fra campi color verde smeraldo che ci sorprendono, perché qui siamo molto a sud, al confine con l’Egitto, quasi nel deserto del Sinai. Il tassista è un ebreo i cui genitori lasciarono la Libia nel 1948, dopo la prima guerra fra Israele e i Paesi arabi. Al confine con la striscia di Gaza telefoniamo all’insediamento di Neve Dekalim. Dror Vanunu, un 25enne che è una specie di assessore, promette di venire a prenderci con la sua auto.


Al posto di blocco ci sono cavalli di frisia, filo spinato, trincee, pezzi di muro di cemento armato prefabbricato e chiodi sull’asfalto. Due giovani coloni ebrei fanno autostop verso Israele sotto il sole. C’è un grande parcheggio di auto: molte appartengono a coloni che fanno ‘car sharing’ (pendolari che usano la stessa macchina, o che non vogliono rischiare di farsi distruggere la propria dai sassi palestinesi).

Qui fino al 1967 (guerra dei Sei giorni di Moshe Dayan) passava la frontiera fra Israele ed Egitto. Poi c’è stata l’occupazione israeliana. Dal 1993, con gli accordi di Oslo fra Yasser Arafat e Yitzhak Rabin, Gaza è diventata palestinese.

Ma i soldati israeliani mantengono il controllo delle strade che portano a 140 insediamenti ebraici, sia qui che in Cisgiordania: sono quasi 200mila i coloni israeliani che vivono in territorio palestinese, e sono aumentati di oltre 50mila dal ’93 in poi.


Arriva Vanunu, un simpatico ragazzo laureato in storia del Medio oriente, che sulla nuca porta il tipico ‘centrino’ degli ebrei ortodossi. Con lui attraversiamo i dieci chilometri della ‘linea di fuoco’. La cosiddetta ‘seconda Intifada’ da tre mesi ormai sconvolge queste strade e ha causato quasi 400 morti, in grande maggioranza palestinesi.

“I nostri soldati hanno dovuto tagliare tutti gli alberi lungo la strada per evitare agguati ad auto e bus. Possiamo passare solo con due auto per volta”. E un muro di cemento separa per tre km le due corsie della principale autostrada di Gaza, che la attraversa da nord a sud: apartheid automobilistico, di qua gli israeliani, di là i palestinesi. Vicino alla strada sorgono i silos di una grande fabbrica di farina: “I palestinesi costruiscono apposta edifici alti vicino ai nostri insediamenti per potersi sparare”, si lamenta Vanunu.


Entriamo nel territorio dell’insediamento, che si estende per più di venti kmq fino al mar Mediterraneo: “Qui nel 1970 non vivevano arabi, c’era solo sabbia”, assicura Vanunu, “quindi non abbiamo portato via niente a nessuno”. Oggi tutto il terreno è ricoperto da serre, campi coltivati e addirittura prati all’inglese. Sembra di stare in California, oppure in un golf club.

Arriviamo nella cooperativa agricola di Gush Katif, e Vanunu ci mostra orgoglioso un allevamento modello di 300 mucche: “Ciascuna fa 8mila litri all’anno, più di quelle olandesi”. Il direttore dell’allevamento Beni Ginsberg sta seguendo la mungitura su una rotonda dove le vacche girano automaticamente, per poi tornare nelle stalle all’aperto: “Produciamo quasi quattro milioni di litri all’anno, che mandiamo ogni giorno a Gerusalemme in autobotte”.


Poi c’è la seconda meraviglia: uno sterminato vivaio con milioni di fiori e piante in serra: “Il 60 per cento delle piante d’Israele viene da qui ed esportiamo fiori in tutto il mondo, ma soprattutto in Olanda”, dice Amazia Yehiely, 37 anni, uno dei capi delle settanta famiglie che lavorano nelle serre. “Selezioniamo geneticamente le piante. Prendiamo le cinquemila migliori e le incrociamo, per ottenere la foglia perfetta”.

Pare che, in effetti, l’insalata di Gush Katif sia apprezzata dappertutto in Israele, in quanto assolutamente priva di vermi.

Fino a ottobre lavoravano qui anche molti palestinesi, ma dopo l’attentato a un bus di bambini in cui è morto un insegnante i rapporti si sono interrotti: Israele ha bloccato tutte le frontiere ai palestinesi. Niente più lavoro per decine di migliaia di frontalieri, quindi. Alla mancanza di manodopera i coloni cercano di sopperire con operai thailandesi, e con giovani volontari ebrei che vengono a lavorare in turni settimanali.


Proprio negli spartani bungalow dove sono ospitati questi ragazzi ci porta Vanunu: mangeremo e dormiremo con loro, in quello che fino alla scorsa estate si chiamava ‘Palm Beach’ ed era un affollato villaggio turistico in riva al mare. Ora è protetto dai soldati che lo hanno circondato di filo spinato e sorvegliano la spiaggia con postazioni ogni cento metri. C’è infatti il timore di incursioni notturne da parte di commando palestinesi. Di fronte ai nostri bungalow sta un accampamento di beduini, con le loro tende e cammelli: “Loro sono tranquilli, si trovano bene con noi”, spiega Vanunu,”anche perché sanno che sotto i palestinesi starebbero peggio”.


Due chilometri più avanti c’è il villaggio vero e proprio di Neve Dekalim (traduzione: posto delle palme) che è formato da casette bianche tipo Lego con tetti di tegole arancioni. All’entrata a sinistra c’è una scuola elementare per 700 alunni con uno zoo (“Ogni bimbo ha il suo animale”), a destra il benzinaio. Ci sono poi un centro commerciale con negozi e supermercato, due sinagoghe nuovissime (una di rito sefardita, l’altra askenazita), un centro culturale, un centro religioso ortodosso, una scuola media, due licei (maschile e femminile) e ben sette asili nido e materne.

I coloni, infatti, figliano in quantità: ci sono famiglie con sei e anche dieci rampolli. Il nostro cicerone Vanunu ha già due figli dalla moglie 23enne Keren, professoressa di liceo fuori dall’insediamento, nel paese di Netivot, in Israele. Molti dei coloni sono professionisti (medici, avvocati, scienziati) che lavorano in Israele: quindi il flusso sulla ‘strada del terrore’ è continuo.


La professoressa Ronit Balaban insegna informatica nella scuola media del villaggio, ma poche settimane fa durante la lezione una pallottola palestinese ha spaccato la finestra dell’aula e si è conficcata sotto la sua cattedra. Così le hanno messo dei sacchetti di sabbia davanti ai vetri, e adesso le sembra di stare veramente in trincea. “Durante gli scontri si sentono gli spari”, dice, e aggiunge ironica: “Trovo una certa difficoltà a ottenere l’attenzione dei ragazzi con i proiettili che fischiano…”


La signora Balaban insegna part-time, perché aiuta il marito nella floricoltura: due mesi fa erano alla Fiera di Milano per l’esposizione Gardenia, ora parteciperanno alla Fiera di Essen in Germania. Viaggiano parecchio: quando diedero ad Arafat il Nobel per la pace, loro si spinsero fino a Oslo per fischiarlo personalmente. “La Bibbia parla della Terra promessa come ‘terra di latte e miele’, e noi stiamo lavorando per realizzare il sogno”, dice Vanunu.


Ma, domandiamo, vi rendete conto che siete circondati da palestinesi in un territorio che da sette anni è stato assegnato a loro, e che quindi prima o poi dovrete andarvene?

“In realtà abbiamo una lista d’attesa di 78mila persone che vogliono venire a vivere negli insediamenti”, risponde lui, “da noi sono appena arrivate 15 famiglie dalla Francia. Quanto alla sensazione di stare in un ghetto, beh, sa… essendo ebrei, ci siamo abbastanza abituati. E poi, se ci pensa, è tutta Israele a essere circondata e perennemente insicura, non solo noi. I palestinesi hanno sempre sparato sui bambini e sui bus scolastici”.


A Neve Dekalim invece il bersaglio sono le volontarie sedicenni costrette ad andare al lavoro in un blindato dell’esercito. Questi insediamenti sono sicuramente una provocazione permanente nei confronti dei palestinesi, e anche un ostacolo per il ‘processo di pace’. 

Ma mangiando e parlando a cena con questi ragazzi, ci accorgiamo che lo spirito eroico e pionieristico dei kibbutz di sinistra oggi sopravvive soprattutto qui, fra i coloni che votano a destra (per il generale Ariel Sharon, favorito alle elezioni del 6 febbraio contro l’attuale premier socialista Ehud Barak). Loro, i nazionalisti ebrei, stanno felici in prima linea e costringono l’esercito israeliano a sforzi e spese immense per difenderli.

La loro testardaggine garantisce tensioni e guerre anche per il prossimo mezzo secolo. Non sarebbe più facile e ragionevole spostare tutto (mucche da latte, serre modello, prati perfetti e villette linde) solo dieci chilometri più a est, in Israele?


“Possiamo anche farlo”, concede Vanunu, “ma poi chi ci garantisce che i palestinesi non ci chiederanno qualcos’altro? Perché sui loro libri di scuola, pagati anche dall’Italia, il nome ‘Israele’ è ancora cancellato dalle carte geografiche? Come possiamo fidarci, di fronte a episodi simili? Avete visto la felicità dei giovani palestinesi con le mani lorde del sangue del giovane israeliano linciato a Ramallah?”


Dall’altra parte dei muri di cemento che fanno da fragile frontiera per questi coloni ebrei ci sono i campi profughi di Gaza, Khan Yuinis, Rafah. Vere e proprie bidonvilles dove i fondamentalisti islamici arruolano facilmente giovani esaltati pronti a farsi martirizzare. A pochi metri di distanza, così, si toccano fisicamente la disperazione del Terzo mondo e la supertecnologia degli israeliani. L’assurdo labirinto delle enclaves ebraiche è una spina insopportabile nel fianco dei palestinesi. La prossima settimana andremo a sentire anche le loro ragioni.

Mauro Suttora

1 - continua