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Thursday, November 30, 2023

La rivincita di Fantozzi. Il governo dà un'arma formidabile ai dipendenti pubblici

Nuova direttiva del ministro Zangrillo: i sottoposti potranno giudicare anonimamente i propri capi. Dal leccapiedi al culodipietra, breve fenomenologia dei travet che ne usufruiranno

di Mauro Suttora

Huffingtonpost.it, 30 novembre 2023
 
Fantozzi, è arrivato il tuo momento. Il ministro Paolo Zangrillo annuncia che verrà introdotta la valutazione per i pubblici dipendenti. Non solo quella dall'alto al basso, dei dirigenti sui loro sottoposti. Anche i dipendenti potranno giudicare i propri capi. Fantastico. I voti saranno anonimi, quindi in ogni reparto scattaranno lamentele, vendette e accuse senza timore di rappresaglia.

Sulla valutazione dei dipendenti sono stati scritti libri interi. Ci sono cattedre universitarie e corsi appositi per i direttori del personale. Oggi si dice hr, human resources, risorse umane. "Com'è umano lei", biascicava il ragionier Fantozzi davanti al suo tremendo capufficio Gianni Agus. In realtà erano disumane le vessazioni cui era sottoposto il personaggio impersonato da Paolo Villaggio. E tutti, prima o poi, ci siamo identificati in lui quando abbiamo dovuto subire le angherie di un capo crudele.

Non è la prima volta che la burocrazia pubblica annuncia pagelle, nella speranza di migliorare le proprie mediocri performances. L'unica cosa sicura, però, rimane lo stipendio misero che arriva a fine mese. Per il resto, asini e geni, pigri e volenterosi rimangono appiattiti in un sistema che garantisce tutti e valorizza pochi. Perché dopo i giudizi, dovrebbero arrivare anche sanzioni per i lavativi e premi per i meritevoli. Ma i soldi sono quello che sono, e oggi un insegnante in Italia guadagna meno di un operaio specializzato. Quindi ci sono poche leve a disposizione dei manager statali per far funzionare la meritocrazia.

Anche nel settore privato, comunque, vigono gli stessi meccanismi psicologici nel rapporto con i dirigenti. Come misurare l'efficienza di un lavoratore? Il leccapiedi fedele spesso è preferito all'eccellente ma critico. E i capi vulnerabili all'adulazione sono manna per i furbi.

I trucchi per apparire bravi sono innumerevoli. Il principale di cui mi sono avvalso, in 40 anni di carriera, è stato quello di arrivare sempre al lavoro un minuto prima del mio capo, e di andarmene un minuto dopo. Col rischio di essere soprannominato 'culo di pietra', riuscivo a infondergli un'impressione di onnipresenza, guadagnandomi fantozzianamente la sua fiducia totale. E qualche aumento.

Ancora più abietta è la categoria degli "spalatori di merda". Quelli disposti a tutto: obbediscono sempre e subito, non sollevano mai obiezioni. I 'problem solver', come Harvey Keitel nel film Pulp Fiction di Quentin Tarantino, sembrano indispensabili. Solo quando se ne vanno ci si accorge che non lo erano. Rapidissimi, privilegiano la quantità sulla qualità. Nessuna creatività, tanta disciplina. Io invece ero definito "cacadubbi", perché osavo analizzare pro e contro di ogni questione. Errore imperdonabile: sul lavoro niente filosofia. "Non sei flessibile, devi essere più duttile", mi disse un direttore. Traduzione: "Cala le mutande".

Infine, ci sono i simpaticoni. Le figure più pericolose, che sicuramente mieteranno voti nelle future valutazioni. Popolari sia fra i dirigenti che fra i subalterni. Promettono sempre, mantengono raramente. Ma chiacchierano tanto e si fanno amare. Il loro luogo ideale sono le "riunioni": paradiso esibizionista per gli arrivisti, purgatorio per noialtri dotati di un po' di dignità, inferno per i timidi. Rischiano giudizi negativi solo dai pari grado, per invidia o gelosia.

Insomma, aboliti i voti alle elementari "per non creare traumi", eccoli ricicciare nei confronti di poveri 50-60enni che speravano solo in un po' di tranquillità, viaggiando in folle verso la pensione. I luoghi di lavoro sono già nidi di vipere, perché trasformarli in Cambogie di finta democrazia come nel film Prova d'orchestra di Federico Fellini?

Wednesday, October 13, 2010

Angelo Rizzoli

Nel 1970 moriva Angelo Rizzoli, il nostro fondatore. Noi lo ricordiamo così

Orfano di un ciabattino analfabeta, lui stesso poco colto, creò un impero editoriale e cinematografico. Ecco come lo descrivono i suoi giornalisti, dalla Fallaci a Montanelli, da Enzo Biagi a Occhipinti

di Mauro Suttora

Oggi, 4 ottobre 2010

«Non gli ho mai sentito dire una parolaccia, mai visto fare un verso sconcio, e anche quando dava un ordine era delicato: “Abbia l’amabilità di farmi questa cosa”, “Lei dovrebbe essere così gentile da farmi questo”».
Con queste parole, quarant’anni fa, Oriana Fallaci ricordava sull’Europeo il suo editore Angelo Rizzoli appena scomparso a 81 anni.

Così la scrittrice proseguiva la descrizione del fondatore della casa editrice omonima che pubblica anche Oggi e che ora, inglobato il Corriere della Sera, si chiama Rcs: «Quando gli piaceva una donna, le lodava gli occhi. Non diceva “belle gambe” o “bel corpo”, diceva “begli occhi”. Quando si dedicava a lei, la trattava col rispetto e la cautela che si deve a un fiore».

«Nell’atrio del suo moderno stabilimento di via Civitavecchia [oggi via Rizzoli, ndr] viene ancora ostentata come cimelio e blasone la sua prima linotype [del 1909], comprata coi risparmi del salario d’operaio tipografo, mestiere che gli avevano insegnato all’orfanatrofio».

Altri ricordi sono contenuti nel libro celebrativo Angelo Rizzoli 1889-1970: «Raccontava quasi con civetteria della povertà che aveva sofferto da piccolo», ricorda Paolo Occhipinti, direttore storico di Oggi, assunto da Rizzoli nel ’58, e tuttora direttore editoriale del nostro giornale.

«Diceva: “Vivevamo in miseria in una zona molto ricca di Milano. È la cosa peggiore che ci sia, quella di essere poveri in mezzo ai ricchi. A scuola mi trovavo sempre da solo, isolato all’ultimo banco, perché nessuno voleva stare accanto a me. Il giorno più bello della mia vita di bambino fu il 10 febbraio 1895, quando entrai nell’orfanatrofio. Lì finalmente fui felice, perché ero un povero fra i poveri, uguale a tutti gli altri”». «La mamma gli tagliava i capelli e la maestra, supponendo che in quella chioma buffa potessero alloggiare anche animaletti fastidiosi, lo isolava nell’ultimo banco», rivelò poi Enzo Biagi.

Film di Manfredi e Fellini

Rizzoli, figlio di un ciabattino analfabeta morto prima che lui nascesse, non leggeva i libri che pubblicava. «Però aveva per i loro autori un rispetto reverenziale», precisò Montanelli. «L’ultima volta che l’ho visto, a Lacco Ameno d’Ischia, era contento del film che aveva messo in lavorazione con Nino Manfredi regista e interprete [Per grazia ricevuta, del 1971, ndr] e cercò di raccontarmi la trama. La parola non era mai stata il suo forte. Fece un tale garbuglio che alla fine se ne accorse anche lui, e in tono mortificato interpolò: “Scusami sai, io ho fatto la quinta elementare alle serali”. Molti si domandano come abbia fatto quest’uomo incolto a diventare uno dei più grandi impresari di cultura. Della prosa che mandava sotto i torchi non sapeva nulla. Ma sugli uomini che venivano a offrirgliela non prendeva abbagli».

Conferma Occhipinti: «La sua grande qualità era saper scegliere gli uomini. Per intuito aveva detto sì a quel matto di Fellini che gli proponeva La dolce vita, a Edilio Rusconi che gli suggeriva di fare uscire Oggi, settimanale per la famiglia, e agli inventori della Bur, la Biblioteca universale Rizzoli».

«Dicono che prima della Seconda guerra mondiale possedesse già un miliardo di lire», ha scritto Biagi, «e che alla sua morte nel 1970 gli eredi ne hanno trovato in cassa cento. Ma diceva che i quattrini bisogna farseli perdonare. Non fu entusiasta quando il figlio Andrea decise di comperare un aereo: gli pareva troppo. Quando entrava nei casinò, perché gli piaceva giocare, aveva di solito dietro un codazzo. Regalava alla compagnia fiches di centomila lire; i più furbi le infilavano in tasca. Se gli andava male si vergognava: “Ho perso quello che la mia segretaria guadagna in cinque anni”».

«Nel 1954 incontrai Rizzoli a San Felice Circeo», ricorda Giulio Andreotti, «e lui si lamentava della poca comprensibilità del linguaggio politico. Mi offrì la direzione di un giornale divulgativo: nacque così il quindicinale Concretezza, che pubblicò per 22 anni. La sua amicizia con Nenni [capo del Psi,ndr] era nota, ma aveva apprezzato anche me».

Mauro Suttora

Thursday, October 30, 2003

Il più elegante a Manhattan...

INAUGURAZIONE AL GUGGENHEIM

Flaminia Lubin per Dagospia

30 ottobre 2003

Il Guggenheim Museum di New York rende omaggio a Federico Fellini a dieci anni dalla sua morte con una retrospettiva inedita, completa dei tanti lavori del grande maestro, magistralmente curata dal boss della cultura italiana in America, il professor Antonio Monda. All'inaugurazione della mostra, la stampa italiana che vuole contare c'era tutta. Pochi i reporters stranieri, ben presenti invece al grande party organizzato dal museo.

Partecipi i vari gruppi Rai, tra cui Vincenzo Mollica, caro amico di Fellini, e anche lui tra gli organizzatori dell'evento. Maurizio Molinari della Stampa ad un certo punto e' corso via. Probabilmente ad occuparsi di economia..... americana naturalmente. Pupi Avati a capo della Fondazione Fellini e' stato dolce quando ha sbagliato termine in inglese e ha detto "Sostengo questo monster" (intendeva sostengo questa mostra che in inglese si dice exhibition e non monster).

Alain Elkann faceva le veci del ministro Urbani, i Della Valle sono stati gli sponsor dell'evento. Mauro Suttora, dei giornali Rizzoli, era in assoluto l'uomo piu' elegante, non in onore della retrospettiva credo, ma del gran gala da Cipriani sulla moda dove si sarebbe recato al calar del sole.

Tuesday, January 29, 2002

intervista ad Andrea De Carlo

Incredibile: un anarchico di successo

di Mauro Suttora

dal trimestrale Libertaria, 1/2002

"L'Afghanistan dei talebani bastardi o qualche altro cavolo di paese fanatico e integralista (...), dove le donne sono schiavizzate e tenute nascoste e per le strade e nei luoghi pubblici e dappertutto vedi solo maschi. (...) Sarebbe bene che anche lì lo sapessero, con tutte le loro barbe e le loro voci gutturali e le loro manifestazioni grottesche di mascolinità, che gli uomini non sono più così indispensabili per la continuazione della specie: basterebbe una buona scorta di seme congelato, si potrebbe fare a meno degli uomini per sempre. E forse non serve nemmeno più quello."

Andrea De Carlo aveva scritto queste righe (a pagina 123 del suo ultimo romanzo Pura vita, pubblicato lo scorso ottobre) prima dell'attacco alle Torri di Manhattan. Ma, nonostante l'estrema attualità di queste sue frasi, lo scrittore milanese non ha partecipato al chiacchiericcio massmediatico sulla guerra. Quasi unico fra i suoi colleghi, visto che praticamente tutti (da Oriana Fallaci a Dacia Maraini, da Tiziano Terzani ad Antonio Tabucchi, da Alessandro Baricco ad Andrea Camilleri) hanno voluto dire la loro sui terroristi islamici.

Il giorno delle Twin Towers

È da anni che De Carlo fugge i giornalisti, l'attualità, la notorietà. Da tempo niente televisione, e rare interviste distillate soltanto in occasione dell'uscita dei suoi libri. Non per supponenza o misantropia, ma semplicemente perché "gli scrittori che prendono posizioni politiche rischiano di apparire patetici", ci dice. "Comunichiamo già attraverso i nostri libri, per il resto il nostro margine di influenza è assai ridotto. L'11 settembre stavo andando alla Mondadori per discutere i dettagli dell'uscita del mio libro, e ho acceso la radio della macchina. Uno speaker stava parlando di due aerei schiantati sulle Twin Towers di New York. Ho pensato che fosse uno scherzo, come quello di Orson Welles sui marziani. Però questa volta la concitazione sembrava troppo autentica: avrebbero dovuto essere più bravi di Orson Welles".

Ma sulla guerra, cosa pensi?

"Mi è piaciuto quello che ha detto Richard Gere al concerto del Madison Square Garden: "Convertiamo la nostra rabbia in energia positiva". Ma l'hanno fischiato. D'istinto, come prima reazione anch'io sarei salito su un piccolo aereo per andare a bombardare Osama bin Laden. Poi però si riflette, anche sulle colpe precedenti degli Stati Uniti e dell'Occidente in generale. Ho vissuto a lungo in America, sono affezionatissimo agli Usa, ma ho trovato l'intervento della Fallaci molto fuori dalle righe. La sua visione dell'Islam straccione rimasto a mille anni fa è riduttiva, sghangherata, miope".

Nel suo libro De Carlo attacca il governo Berlusconi per la repressione a Genova: "Siamo un Paese finto libero dove alla prima manifestazione di strada la polizia può assumere comportamenti sudamericani e massacrare di botte e torturare per giorni la gente che ha arrestato".

Nel 1984 scrisse Macno, la storia profetica di un dittatore sudamericano arrivato al potere grazie al controllo delle tv. Pensava già a Silvio Berlusconi?

"No. E nel 1994, quando si buttò in politica, pensai che lo faceva per salvarsi la pelle nella bufera di Tangentopoli, ma anche perché era animato da uno spirito autenticamente liberista: il classico imprenditore un po' naïf che vuole ridurre il peso dello Stato, rinnovarne la macchina. Incontravo persone impensabili che gli davano credito, in quei primi giorni. Oggi invece ha perso smalto e ingenuità, mi sembra ossessionato da manie di persecuzione, fisicamente sofferente, affondato in modo irrimediabile in un conflitto di interessi da cui avrebbe anche potuto scegliere di tirarsi fuori. Si è alleato con forze terribilmente reazionarie legate a una concezione vecchia dello Stato, provinciali e chiuse, ostili all'Europa. Alleanza nazionale, per esempio, o la Lega Nord".

Favolosi quegli anni... con Fellini

Negli anni Ottanta hai lavorato con Federico Fellini. Il grande regista detestava Berlusconi.

"Sì, ma soprattutto perché le televisioni commerciali della Fininvest interrompevano con gli spot i suoi film, distruggendo così il cinema. Quella di Fellini era una condanna estetica, più che politica. Girò Ginger & Fred, il film che attaccava Berlusconi, nel famoso studio 5 di Cinecittà, cercando di riprodurre la volgarità bestiale e il clima di idiozia che emanano le sue televisioni. Ebbene, qualche anno dopo per ironia della sorte capitò proprio a me di essere invitato in quegli studi, a una trasmissione tv di quelle becere con la mortadella, tipo Gianfranco Funari. Pensavo fosse una visione: era esattamente quello che aveva prefigurato Fellini".

Perché rifiuti la televisione?

"Per fortuna non ne ho bisogno, i miei libri si vendono anche senza questo tipo avvilente di autopromozione. Negli ultimi anni sono stato solo da Mtv, e un paio di volte da Bernard Pivot, quello di Apostrophes e Bouillon de culture in Francia. Invece in Italia c'è la strana idea che gli scrittori siano degli ammazza-audience, e allora per sfuggire alla loro presunta noiosità li si riduce a macchiette o a piazzisti di se stessi. Anche di recente mi hanno invitato a Quelli che il calcio, per esempio, ma non avevo proprio voglia di ridurmi a fare il comico nella curva di uno stadio..."

Sonore stroncature

Non è un mistero che De Carlo non sia amato da tutta la critica italiana. Anche il suo ultimo libro ha rimediato due sonore stroncature sul Corriere della Sera e su Sette. I soloni della sinistra marxista non gli perdonano la sua presunta "leggerezza", che in realtà è soltanto libertà allo stato assoluto: i personaggi dei suoi dodici libri sono tutti degli anticonformisti libertari che mettono in questione l'ordine costituito. Così lo accusano di "ribellismo adolescenziale", rilievo grottesco per uno scrittore che ormai è arrivato ai cinquant'anni. Risultato di tanto livore da parte della nomenklatura culturale: i suoi romanzi si vendono come il pane, soprattutto fra i giovani.

"Ma quando sono andato al festival di Mantova mi sono accorto che i miei lettori coprono uno spettro amplissimo, dai 14 agli 80 anni, uomini e donne".

Si rinnova un po' con De Carlo l'astio che ha circondato un altro scrittore di grande successo commerciale: Carlo Cassola, bollato addirittura come "Liala". La verità è che entrambi sono rimasti estranei alle camarille e alle mafiette del piccolo (e misero) mondo letterario italiano, zeppo di scrittori frustrati ridotti a fare i giornalisti, i critici letterari o i professori perché i loro libri non vendono.

Cassola, accusato di non essere abbastanza "impegnato", negli anni Settanta divenne invece il più politico di tutti gli scrittori italiani, fondando con molti anarchici la Ldu (Lega per il disarmo unilaterale) e assumendo posizioni antimilitariste.

De Carlo ha scritto la sua tesi di laurea sulle comunità anarchiche in Spagna: "Mi interessava la storia dell'anarchia e quella degli esperimenti comunitari in varie parti del mondo. In più mi sembrava che la guerra civile spagnola fosse quasi sempre rappresentata dal punto di vista dei comunisti, che nei confronti degli anarchici avevano avuto colpe terribili".

L'inquietudine contro il potere

Hai mai fatto attività politica, allora? E oggi, pensi che un cittadino normale, non politico di professione, abbia spazi per un impegno politico in Italia?

"Nel 1968, anche se ero molto giovane, avevo capito subito che le mie simpatie erano per gli anarchici, e che invece detestavo i gruppi neostalinisti o neoleninisti che si erano impadroniti del movimento con la pretesa di "guidarlo". Ho raccontato le mie sensazioni a proposito in Due di due. Oggi non vedo molti spazi di impegno. Ma un cittadino normale può sempre esprimere le sue convinzioni attraverso il suo lavoro e la sua vita privata, naturalmente".

Insomma, De Carlo non ama l'impegno diretto. Ma nei suoi libri riesce a distruggere con metodicità tutti i pilastri del potere: dalla famiglia alla scuola, dalla coppia al lavoro fisso, dalle istituzioni (politiche e culturali) al denaro. I suoi personaggi comunicano un'inquietudine esistenziale che alla fine risulta più devastante di un pamphlet politico. Se è lecito un paragone, in lui c'è molto Albert Camus e poco Jean-Paul Sartre. L'unica volta che De Carlo ha preso una posizione politica diretta è stato per denunciare le ruberie del Psi a Milano dieci anni fa, nel libro Due di due.

Ti pesa il non far parte di una "parrocchia precisa"?

"No, anche se è molto comodo trovarsi una collocazione giusta: si viene ripagati in termini di consenso e di protezione. Però sono favori da ripagare: facendo parte del gruppo, mobilitandoti ogni volta che il partito chiama. I miei primi due libri, Treno di panna e Uccelli da gabbia e da voliera, ebbero un grande successo di critica, perfino preoccupante nella sua uniformità. Macno invece fu bistrattato, però vendette molto. Da allora, il successo di pubblico mi ha messo al riparo dalla vulnerabilità che invece può danneggiare molti scrittori".

In totale, De Carlo sta raggiungendo i due milioni di copie vendute. Il penultimo libro uscito nel 1999, Nel momento, è arrivato a 350 mila copie. E anche Pura vita si è installato immediatamente al secondo posto in classifica, superato solo da Andrea Camilleri. Oltre che best seller, inoltre, i suoi sono anche long seller: i lettori che lo scoprono tramite i suoi ultimi libri vanno poi a comprarsi anche i primi, che quindi continuano a vendere. E gli permettono di essere uno dei pochi romanzieri italiani che riescono a vivere del proprio lavoro, senza dover pietire collaborazioni ai giornali, sceneggiature ai produttori di film o marchette televisive.

Molti dei suoi aficionados di oggi non erano ancora nati ai tempi del suo debutto, vent'anni fa. E oggi intrecciano con De Carlo un dialogo diretto attraverso il suo sito internet (www.andreadecarlo.net). Per l'intellighenzia di sinistra De Carlo ha l'imperdonabile colpa di essere riuscito a tratteggiare magistralmente, tramite l'odioso Polidori, protagonista di Tecniche di seduzione, la figura dell'intellettuale fintamente engagé, ma in realtà colluso con il potere e dalla vita privata schifosetta: sfruttatore di giovani "negri" sottopagati che gli scrivono libri poi firmati da lui, e ricattatore sessuale di belle studentesse universitarie. In quello stesso libro per pagine e pagine De Carlo ha messo alla berlina i redattori del settimanale Panorama.

Un altro violento attacco al sistema di potere buroculturale italiano il romanziere lo ha sferrato qualche anno fa in un convegno al Salone del libro di Parigi: "Non è vero che l'Italia di Tangentopoli sia rimasta vittima di un piccolo gruppo di criminali", ha sostenuto, "perché in realtà milioni di persone ne furono direttamente complici. Il nostro paese è stato stuprato e distrutto per quarant'anni senza che si manifestasse una vera opposizione politica. Il trasformismo italiano ha delle capacità incredibili, e i nostri connazionali si distinguono per una viltà ignobile. L'opposizione è stata sedicentemente rappresentata dal Pci, ma gli intellettuali italiani sono omertosi. Anche se non sono direttamente responsabili dello sfacelo, sono conniventi".

È chiaro che con discorsi simili non si ricevono critiche favorevoli sui giornali del gruppo Espresso-Repubblica, non si viene invitati ai festival dell'Unità, non si vincono premi letterari, né si diventa cocchi del regime.

Mauro Suttora