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Monday, November 01, 2021

Clima: Greta, il frigo di Rita Pavone e un altro bla bla bla



Cinesi, russi e indiani cominciano a conoscere il benessere e non si adeguano. Che fare: dichiarargli guerra? 

Mauro Suttora



HuffPost, 1 novembre 2021

Successo o fallimento di Draghi? Il ‘suo’ vertice G20 di Roma ha deciso che per frenare il riscaldamento globale gli stati dovranno pareggiare le emissioni di anidride carbonica “entro o vicino alla metà del secolo”.

Cade la data del 2050, cui restano impegnate solo Europa e Usa. Cina e Russia promettono 2060, l’India non indica obiettivi.

Il solito “blablabla”, come accusa Greta Thunberg? “Speranze disattese”, ammette il segretario Onu Antonio Guterres. “Abbiamo fatto passi avanti”, si accontenta il presidente Usa Joe Biden.

Come sempre, la verità sta nel mezzo: “Dobbiamo capire le ragioni dei Paesi emergenti”, ha spiegato Draghi. Fornendo un esempio concreto: “La Cina produce metà dell’acciaio mondiale con centrali a carbone, la transizione ecologica non è facile”.

Soprattutto, non è facile convincere la Cina a ridurre le sue emissioni, che rappresentano il 30% del totale mondiale. L’intera Unione europea, per dire, è solo all′8%. Inutile, quindi, abbassare i nostri gas serra se nel resto del mondo si continua a inquinare. Usa, Russia e India sono responsabili per il 26%.

“Ci vuole equilibrio fra gli interessi dei fornitori e dei consumatori di risorse energetiche”, avverte la vecchia volpe Sergei Lavrov, ministro degli Esteri russo. Tradotto: Mosca basa il proprio benessere sull’export di petrolio e gas, le energie rinnovabili la danneggiano. Quindi solare ed eolico possono aspettare. Intanto, vi aumentiamo le bollette del gas.

Quanto all’India, il suo miliardo e 400 milioni di abitanti sono il triplo degli europei, ma consumano e inquinano meno di noi. Colpevoli o virtuosi?

Nella sua autobiografia scritta con Emilio Targia, Rita Pavone ricorda che il primo frigo in famiglia arrivò nel 1962. Anche Gianni Morandi ha appena raccontato a Maurizio Costanzo che fino a quella data a Monghidoro avevano solo la ghiacciaia.

Ecco, cari Greta e principe Carlo. Cosa diciamo ai miliardi di cinesi, indiani e africani che non hanno ancora il frigo in casa? Che per la salvezza del pianeta devono rinunciare a questo ‘lusso’? E anche all’auto, e all’aria condizionata?

Europa e Usa trent’anni fa hanno trovato conveniente far lavorare i cinesi al posto nostro. Abbiamo delocalizzato, quindi ora in Cina si produce per noi. E si inquina, proprio come a Sesto San Giovanni mezzo secolo fa. Il nostro pil, invece, si basa su attività ad alto valore aggiunto, ‘pulite’, leggere, sostenibili, a bassa impronta ecologica: finanza, turismo, arte, moda, enogastronomia.

Insomma, facciamo i ricchi con le emissioni degli altri. Che miracolo doveva quindi compiere Draghi, per “avere successo” al vertice? Minacciar guerra a Cina, Russia e India?

La verità è che siamo tutti sulla stessa barca. Anzi, sulle stesse gigantesche navi portacontainer in fila negli oceani e a Suez per portarci tutte le merci made in China (con emissioni incorporate) che allietano la nostra vita. Paghiamo un frullatore 30 euro invece dei 100 che ci costerebbe se fosse prodotto qui, a chilometro zero.

I cinesi sono i novax del cambiamento climatico: basta un 20% di refrattari al vaccino, o alla riduzione dei gas serra, per impedire al resto del mondo di raggiungere il risultato auspicato. Il nostro auspicio è quindi che Greta e il principe Carlo organizzino la prossima manifestazione verde non a Glasgow, ma a Pechino.

E magari ricominciamo tutti a parlare di sovrappopolazione, principale causa delle emissioni antropiche.

Mauro Suttora

Monday, November 02, 2009

Radio radicale

Libero, 31 ottobre 2009

di Mauro Suttora

«Cari radicali, se vi sciogliete da stronzi diventate cacarella». Questo rispose un ascoltatore di Radio radicale un quarto di secolo fa, quando per la prima volta l’emittente bussò a soldi pubblici (e privati) per sopravvivere. Con uno slogan colpevolizzante: «O ci scegli o ci sciogli». E libertà di microfono per tutti: nacque «Radio parolaccia». Come tutte le invenzioni di Marco Pannella, diventò fenomeno sociologico studiato nelle università.

Da allora il geniale accattonaggio si ripete a scadenze fisse. Ogni tre anni scade la convenzione da dieci milioni annui per trasmettere le sedute parlamentari. Ogni volta il governo di turno li cancella, soprattutto se i radicali in quel momento sono all’opposizione. Poi scatta la raccolta di firme, aderiscono quasi tutti, nomi prestigiosi, editoriali sul Corsera. E il contributo è ripristinato.

Anch’io sono uno dei 400 mila fruitori abituali della radio. La ascolto dal ’79, quando trasmetteva musica rock negli stacchi. Poi Pannella impose musica classica «in segno di lutto per le vittime della fame nel mondo». Poi solo musica sacra. Infine solo requiem: quello di Mozart.

Ho divorziato anche perché mia moglie non sopportava le voci di Taradash e Bordin ogni mattina, nella rassegna stampa. E s’innervosiva quando, tornando in auto dai weekend la domenica, le imponevo i duetti di due ore Pannella/Bordin (soprannominati per le scatarrate «duo bronchenolo» dagli amici, e «duo enfisema» dagli iettatori).

Massimo Bordin, 58 anni, direttore della radio da quasi vent’anni (il più longevo fra tutte le testate nazionali, più di Fede), ha 500 fans nel gruppo Facebook «Senza la voce di Bordin non è mattina». Ma notevoli sono anche anche la rassegna stampa estera di David Carretta alle sette del mattino, il programma «Media e dintorni» di Emilio Targia la domenica alle otto e trenta, le notizie dai Balcani di Roberto Spagnoli, dall’America di Lorenzo Rendi, dall’Asia di Claudio Landi. Una miniera di notizie è la rubrica sulle commissioni parlamentari di Roberta Jannuzzi e Federico Punzi.

Detto questo, non capisco perché i 59 milioni e mezzo di italiani che non sentono Radio radicale debbano pagarla per noialtri 400 mila. Se la metà degli ascoltatori abituali desse 50 euro all’anno, ecco trovati i dieci milioni e abolita la tassa. Si chiama «autofinanziamento»: attività in cui i radicali erano maestri, prima di soccombere pure loro all’assistenzialismo parastatale cui si abbevera metà Italia.

Radio radicale, fra l’altro, è anfibia: riceve anche quattro milioni annui come organo di partito. Quindi i suoi programmi sono in gran parte «servizio pubblico», ma Pannella può prendere la parola quando vuole. E la prende spesso e a lungo. Le preziose rassegne stampa vengono cancellate da noiose riunioni interne dei radicali. E, com’è giusto, l’organo di partito fa propaganda di partito. Ovvero «contro il regime», come urla Pannella da mezzo secolo. Lo stesso regime presso il quale, tuttavia, lui stesso è costretto a mendicare ogni tre anni. Diminuendo la propria credibilità «antiregime».