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Friday, September 30, 1988

Parlano i curdi gasati da Saddam

Viaggio nei campi profughi curdi

UN POPOLO SENZA

Non hanno una terra, oggi divisa tra Turchia, Iran, Irak e Siria. Non hanno un leader né un progetto unitario. Per questa antica gente c'è una sola speranza: la guerra altrui

dal nostro inviato speciale Mauro Suttora

Europeo, 30 settembre 1988

Dyarbakir (Turchia). "Il 25 agosto, alle sei del mattino, stavo dormendo. Mio fratello mi ha svegliato all'improvviso gridando 'Scappa Guhdar, scappa, gli aerei dell'Irak stanno arrivando'. Ho avuto solo il tempo di mettermi queste scarpe e di fuggire con lui nel bosco dietro il villaggio. Stavamo a Spendarok, nella valle del fiume Habur, prima della città di Zaku".

Guhdar Muhmad Salih è un bel ragazzino curdo di 12 anni, capelli nerissimi e occhi grandi. Racconta la sua storia nel campo profughi di Dyarbakir, in Turchia, dove da pochi giorni hanno trovato rifugio 12mila donne, uomini, vecchi e bimbi curdi. Si riposano sotto le tende bianche montate dal governo di Ankara in un terreno sulla riva del fiume Tigri. Solo per pochi metri non siamo in Mesopotamia: sull'altra sponda inizia infatti la regione più carica di storia di tutto il mondo, la terra "in mezzo ai fiumi" dove si sono succedute ventisette civiltà. E dove ora succedono le massime inciviltà.

Tigri ed Eufrate nascono qui in Turchia prima di ansimare in mezzo ai deserti siriano e iracheno e gettarsi infine, uniti, nel Golfo Persico. Chissà, forse un antenato di Guhdar, il ragazzino che adesso i soldati iracheni hanno cacciato dalla sua valle, era un fiero sumero e 4.000 anni fa già combatteva per il possesso di questa terra magica, improvvisamente fertile dopo gli aridi altipiani dell'Anatolia e prima delle sabbie arabe.

Ma quattromila anni di storia sembrano aver insegnato poco agli uomini. Proprio nella culla del mondo, poco a sud del monte Ararat dove si incagliò Noè con i suoi tre figli pronti a ricominciare (a vivere e ad ammazzarsi), sta ricominciando un dramma: quello dei profughi. Curdi, questa volta. Un amaro debutto, con una novità: il gas chimico che gli iracheni sono accusati di aver utilizzato per spingerli via dalla loro terra.

Quello di Dyarbakir è il più grande dei sei campi che ospitano i rifugiati curdi in Turchia. Quanti siano nessuno lo sa: dai 50 ai 120mila, a seconda delle cifre ondeggianti fornite di giorno in giorno dai funzionari turchi. È curioso come la gente da queste parti, dopo averli inventati, abbia perso ogni confidenza nei numeri. Così, il tragico destino dei curdi sembra essere quello del silenzio, dell'incredulità, dell'indifferenza internazionale.

L'opinione pubblica è annoiata e disattenta: i profughi non sono per definizione palestinesi o afghani, o al massimo vietnamiti? E poi, Irak e Iran non hanno appena fatto la pace? Cosa vogliono ancora questi curdi dai nasi adunchi che rapiscono i tecnici italiani in Irak e forse hanno perfino ammazzato Olof Palme? Che se ne stiano calmi nelle loro montagne, e ci facciano continuare tranquilli i nostri affari con Baghdad.

"Israele è più democratico dell'Irak", si lamenta Akram Maji, 32 anni, barbuto partigiano da sette, "perché lascia vedere a tutto il mondo cosa succede ai palestinesi. In Irak invece durante una sola giornata possono essere ammazzati anche mille curdi, ma nessuno lo sa, nessuno lo vede in tv, nessuno ci crede. E anche quando lo sanno, i vostri governi tacciono. Nessuno di loro domanda all'Irak: perché uccidete così la vostra gente?"

Sotto la tenda 222, in mezzo al campo profughi di Dyarbakir, mentre Akram parla nel suo incerto inglese, arrivano altri "peshmerga" (partigiani) giovani e anziani. Si tolgono le scarpe da ginnastica che portano incongruamente assieme alle divise verdi e kaki senza gradi, e si siedono silenziosi per terra, sui tappetini, le stuoie, i sacchi a pelo. Fuori il sole batte forte, 35 gradi all'ombra, e i numerosissimi bambini scorrazzano da una tenda all'altra.

Oltre ad Akram, laureato all'università di Bassora (è ingegnere agricolo), parla inglese anche un ex maestro elementare: nel '79 non aveva voluto diventare membro del partito unico iracheno Baas perdendo così il posto di lavoro, e nell'85 è diventato partigiano perché, dopo essersi rifiutato di denunciare un suo fratello guerrigliero, gli iracheni lo avevano cacciato dalla sua casa.

Allora, queste armi chimiche? Come mai i medici turchi non hanno trovato nessun segno del loro uso su di voi? "La mattina del 25 agosto io ero nel principale campo militare dei peshmerga vicino a Zaku", racconta Akram, "e gli aerei dell' Irak hanno bombardato con armi chimiche. Ce ne siamo accorti subito , perché sono silenziose, non fanno rumore. Il campo era nascosto fra gli alberi, non ci hanno preso. Ma in un villaggio vicino, Tuka, sono morti tutti gli abitanti, e anche gli animali e le galline. La voce delle bombe chimiche è bassa, non c'è sangue. Noi non abbiamo nessuna difesa, nessuna maschera antigas, ho mandato un gruppo dei miei uomini a seppellire le vittime, ma non ce l'hanno fatta: sono ritornati con gli occhi rossi, non riuscivano a respirare".

È la prima volta che venite attaccati chimicamente?
"Sì, per lo meno nella nostra area: sapevamo che gas chimici erano già stati usati dagli iracheni contro gli iraniani e anche contro i curdi nella zona di Suleiman e poi, qualche mese fa, per distruggere completamente Halabja. Quindi ce l'aspettavamo. Quello che invece non prevedevamo era un bombardamento preventivo a tappeto contro tutti i villaggi, contro le donne, i vecchi, i bambini. Pensavamo che avrebbero usato le armi chimiche solo contro di noi, nei punti di resistenza, per farci sloggiare dagli accampamenti militari".

E la tua famiglia, Akram?
"Non sono sposato. La famiglia dei miei genitori è scappata in Iran qualche anno fa. Ma ho dei cugini in Irak, e non so nulla di loro. Ho paura che i militari li ricattino per causa mia".
"Io ho visto la nuvola gialla che i gas tossici formano quando arrivano a terra", dice l'ex maestro elementare. "Le bombe chimiche non esplodono, non fanno schegge, non provocano ferite. Fischiano silenziose e si sentono soltanto con il respiro e l'odore. Ad alcuni dei feriti uscivano acqua e sangue dal naso e dalla bocca, ma sono morti molto in fretta, dopo appena mezz'ora".

E tu, piccolo Guhdar, le bombe chimiche le hai viste?
"La mattina che sono scappato ho visto sei o sette aerei che stavano bombardando il villaggio di Zawik… E nulla più".

Tutti i curdi che incontriamo nel campo di Dyarbakir, sia civili sia peshmerga, sono unanimi: "Gli iracheni ci hanno bombardato con i gas".
Prove, segni concreti, nessuno: solo Behcet Naif, 20 anni, nel villaggio di Barhol (sempre nella valle dell'Habur, fiume che nasce in Turchia e poi finisce nel Tigri in Irak), appena saputo che sono "gazeteji", giornalista, si apre i primi due bottoni della camicia militare e mi chiede di fotografargli il collo: "Con il gas la gola si era tutta gonfiata, mi era diventata rossa anche la pelle fuori".
Adesso, però, non c'è molto da constatare.

Insomma, l'uso dei gas è destinato a rimanere un mistero: che abbiano ragione i Paesi della Lega araba, i quali hanno espresso compatta solidarietà all'Irak? Che abbia ragione l'Irak, che accusa i giornali occidentali di montare una campagna diffamatoria?
Eppure gli Stati Uniti hanno dichiarato di possedere prove certe dell'uso di armi chimiche contro i curdi, e dieci Paesi dell'Onu hanno chiesto di mandare una commissione investigativa in Irak. Rifiutandola, il governo di Baghdad diventa automaticamente poco credibile.

Il primo ministro turco Turgut Ozal è arrivato venerdì 16 settembre in pompa magna a Dyarbakir, per visitare il campo profughi assieme alla moglie Semra. Ne ha approfittato per fare anche un po' di campagna elettorale in vista del referendum del 25 settembre (su un piccolo cambiamento costituzionale) che perderà sicuramente.
Ozal si è spostato in giro per Dyarbakir su un pullman carico di altoparlanti che trasmettevano musica, e con sul tetto una quantità incredibile di agenti in divisa e in borghese col mitra spianato.

Durante la conferenza stampa internazionale di Ozal a Dyarbakir è successo un fatto molto strano, che però spiega varie cose. Anzi, quasi tutto. Il premier turco è stato molto attento a non pronunciare mai due parole: curdi e armi chimiche. Perché?

La parola "curdo" è da sempre tabù in Turchia. Anche qui come in Irak, infatti, c'è una fortissima minoranza curda: dieci milioni di abitanti su 50, concentrati tutti a sud est, nella parte turca del Kurdistan (altra parola proibita in Turchia: un funzionario della Mezzaluna rossa la Croce rossa islamica si è arrabbiato quando gli ho detto che andavo a visitare i profughi in Kurdistan. "Il Kurdistan in Turchia non esiste", mi ha risposto seccato).

Ankara considera i propri curdi una grave minaccia per lo stato fondato da Kemal Ataturk nel 1920. Dappertutto a Dyarbakir, capoluogo di questa nazione fantasma, sono dipinti in caratteri giganti i proclami del defunto padre della patria: "Dalla Tracia a Dyarbakir, da Istanbul a Van, siamo tutti turchi".
Così, per non pronunciare la parola maledetta, Ozal definisce oggi i profughi curdi come cittadini iracheni.

Quanto all'altra parola chiave, i gas chimici, Ozal ha graziosamente evitato di menzionarli per non rovinare i rapporti con l'Irak. Rapporti ottimi: nei primi cinque mesi del 1988 l'export della Turchia verso l'Irak è aumentato del 154 per cento rispetto allo stesso periodo dell'anno scorso, raggiungendo la cifra record di 773 milioni di dollari (più di mille miliardi di lire), e che anche le importazioni sono raddoppiate.

Durante gli otto anni della guerra Iran-Irak la Turchia è riuscita a mantenersi equidistante fra i due contendenti, e anche i rapporti con Teheran sono buoni. Ma, sempre per andare sul concreto, l'export turco verso l'Iran nei primi cinque mesi di quest'anno è stato di appena 164 milioni di dollari.

Insomma, la Turchia ha molti più interessi in Irak che in Iran. Nessuna meraviglia, quindi, per l'estrema cautela di Ozal. Cautela peraltro ricambiata dai profughi curdi, ai quali dei curdi che vivono in Turchia, Siria e Iran non importa niente. Perlomeno, questo è quanto risponde diplomaticamente Akram Qun quando gli chiedo cosa pensa del Pkk, il Partito dei lavoratori curdi che si batte per l'indipendenza dei curdi di Turchia (soprattutto assassinando centinaia di connazionali accusati di collaborazionismo con il governo di Ankara): "Non so cosa dire, questi non sono problemi che ci riguardano, sulla Turchia non so nulla. Noi vogliamo solo l'autonomia del Kurdistan iracheno nell'Irak".

Sì, autonomia e basta: questi terribili peshmerga, coraggiosi guerrieri che furono gli unici a sconfiggere i mongoli, si battono in realtà per un obiettivo moderato: "Non chiediamo l'indipendenza, non vogliamo uno stato del Kurdistan libero. Vogliamo solo una vera autonomia da Baghdad, pur restando nell'Irak".

Questa è la posizione ufficiale del Pdk, il Partito democratico curdo al quale appartengono quasi tutti i profughi del campo di Dyarbakir. Il capo del Pdk è Masud Barzani e sta in Iran. L'altro partito dei curdi iracheni è il Puk , Unione patriottica curda, guidato da Jalal Talabani, che si appoggia alla Siria.

Contrariamente ai palestinesi, che sovente si ammazzano fra loro, i rapporti fra le due organizzazioni curde sembrano essere abbastanza buoni. Ma sarà molto difficile per entrambe far accettare il concetto di "autonomia" a Baghdad. L'unica autonomia che i curdi iracheni erano riusciti a conquistarsi negli ultimi anni era quella concessa dal vuoto della guerra Iran-Irak: "Tutto l'esercito era mobilitato contro Khomeini", spiega Akram, "e così noi al nord, a Mosul, Kirkuk e Zaku, eravamo riusciti a liberare gran parte del territorio. I soldati di Saddam riuscivano a controllare soltanto le strade principali e le città".

Ma quella che i partigiani curdi chiamano con orgoglio la loro freedom area si è sciolta come neve al sole nel giro di un mese quando Saddam Hussein, dopo la tregua con l'Iran, ha potuto traslocare il proprio esercito da est a nord. Con due risultati: riprendere il controllo del Kurdistan e dar qualcosa da fare ai 600mila militari per i quali è difficile trovare un lavoro civile dopo otto anni di guerra.

"Ma Hussein è forte solo perché i vostri paesi gli spediscono armi", accusa Akram. E qui c'è una sorpresa. Gli chiediamo se per caso il suo gruppo abbia preso qualche ostaggio occidentale in Irak. "Ma certo", sorride tranquillo Akram, "una volta, verso l'83-'84, abbiamo avuto come 'ospite' anche un italiano".
È il signor Antonio Chiaverini, il quale se adesso vuole rivedere i suoi carcerieri può andarli a trovare nel campo di Dyarbakir. Dove adesso le parti si sono capovolte, perché Akram e i suoi sono praticamente prigionieri del governo turco: nessuno può uscire dal campo, nessuno, tranne i giornalisti, può entrarci, e ai curdi non è permesso neanche comunicare fra loro da un campo all'altro.

Insomma , per ora più campi di concentramento che campi profughi. E i 500 mila abitanti di Dyarbakir, tutti curdi anche loro, tranne i poliziotti, i militari e i funzionari del governo, possono osservare i loro connazionali solo da lontano, col binocolo, dagli antichi spalti in basalto della città.
Mauro Suttora