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Wednesday, May 30, 2012

Cassino: ecco chi la sacrificò

IL VERO MOTIVO DELLA BATTAGLIA CHE DISTRUSSE L'ABBAZIA:
Gli alleati volevano tenere i tedeschi lontani dalla Francia. Così assediarono per otto mesi il monastero. Ora un documentario su History svela cosa accadde e perché

di Mauro Suttora

Oggi, 23 maggio 2012

È stata una delle battaglie più lunghe della storia: quasi nove mesi. E fra le più sanguinose: 50 mila soldati alleati morti, 20 mila tedeschi e migliaia di civili italiani. Il primo spaventoso bombardamento angloamericano su Cassino (Frosinone) avvenne appena due giorni dopo l’illusione che con l’armistizio la guerra fosse finita: il 10 settembre 1943. Ma la cittadina e la sovrastante abbazia, fondata da San Benedetto nel 529, furono liberate soltanto il 18 maggio ’44.

Perché ci volle così tanto tempo? Il documentario Cassino, 9 mesi all’inferno, in onda su History (canale 407 di Sky) venerdì 25 maggio alle 21, rivela che la vera strategia alleata non era vincere presto, ma combattere a lungo. Grazie a documenti e testimonianze inedite, il regista Fabio Toncelli ha ricostruito i retroscena politico-militari della campagna anglo-americana in Italia nell’inverno 1943-44, i drammatici errori dei comandi, e le reciproche diffidenze nello schieramento alleato.

Cassino si trovava proprio sulla Linea Gustav che tagliava l’Italia in due fra il Tirreno (foce del Garigliano) e l’Adriatico (all’altezza di Ortona, in provincia di Chieti). Questa linea di fortificazioni era stata costruita dai nazisti dopo il «tradimento» dell’Italia non più fascista, guidata dal maresciallo Pietro Badoglio. Le truppe tedesche la scelsero come fronte di resistenza dopo lo sbarco alleato a Salerno, nel settembre ’43, perché era il punto più stretto della penisola italiana. Ma soprattutto perché l’abbazia di Montecassino controllava da un’altura la principale via d’accesso a Roma, con la statale Casilina.

Sacrificarsi per la Normandia

In attesa dello sbarco in Francia, il compito assegnato agli alleati in Italia era tenere impegnata la macchina bellica nazista, a qualunque costo e il più a lungo possibile. E questo segnò il destino di Cassino.

Dall’attacco a Monte Lungo a quello al fiume Rapido, fino al bombardamento del monastero, fu un susseguirsi di operazioni militari definite dagli stessi protagonisti “suicide”, e spesso basate su presupposti errati.
I documenti d’archivio con le clamorose dichiarazioni del premier britannico Winston Churchill e del generale Dwight Eisenhower, comandante delle truppe statunitensi in Europa, fanno capire le vere finalità della campagna di Cassino. Sono confermate dalle testimonianze dei soldati e dai racconti dei civili, ormai ottantenni.

La linea Gustav a Cassino era imprendibile. Già negli ultimi mesi del ’43 gli alleati avevano capito che, nonostante i bombardamenti, era impossibile sfondare in quella parte del fronte. I tedeschi erano ben piazzati sulle alture, anche se non si erano installati dentro l’abbazia.

Il generale francese Alphonse Juin, che comandava le truppe francesi composte in gran parte da arabi delle colonie (i «marocchini» diventati poi tristemente famosi per la libertà di stupro loro concessa, come mostra il film La Ciociara con Sophia Loren), lanciò quindi i suoi a dicembre in una spedizione di aggiramento all’interno, sulle Mainarde. Riuscirono a creare un varco, ma poi gli alleati non insistettero.

Perché? In realtà, quel che volevano Churchill ed Eisenhower, svanita la speranza di una veloce liberazione dell’Italia, era impegnare il maggior numero possibile di divisioni naziste nella nostra penisola. Obiettivo: distoglierle il più a lungo possibile dal già previsto sbarco in Francia. Indecisi inizialmente fra il Mediterraneo e la Normandia, alla fine gli alleati optarono per quest’ultima.

In quei mesi eroici e convulsi soltanto Churchill aveva capito il vero problema della guerra. Che non era più vincere i tedeschi, ma contenere la futura minaccia sovietica. Il premier britannico avrebbe fatto di tutto per impedire che Stalin si impadronisse di metà Europa, come poi accadde. Di qui le trattative segrete con Benito Mussolini per una pace separata con Salò: se il Duce avesse convinto Adolf Hitler a ritirare le sue truppe dall’Italia, i nazisti le avrebbero inviate sul fronte orientale, rallentando l’avanzata russa. E gli alleati avrebbero potuto egualmente sbarcare in Francia.

Carneficina anche ad Anzio

È nel quadro di queste strategie, e nel timore che i tedeschi riuscissero ad arrivare alla bomba atomica prima degli americani, che si spiega lo stallo di Cassino.

Il generale Mark Clark, comandante delle truppe statunitensi in Italia, mordeva invece il freno. Voleva passare alla storia come il liberatore di Roma, e per questo sbarcò ad Anzio nel gennaio ’44, alle spalle di Cassino. Si era quindi stabilita una testa di ponte a soli 50 km dalla capitale, aggirando ancora un volta la linea Gustav. Niente da fare. Nonostante la via verso Roma fosse libera e raggiungibile in poche ore, le truppe da sbarco alleate preferirono consolidare le loro posizioni. Così i tedeschi ebbero il tempo di riorganizzarsi, di contrattaccare, e fu una carneficina.

Dovettero passare altri quattro mesi fino alla liberazione della capitale, il 4 giugno 1944. Nel frattempo, ci andò di mezzo anche l’abbazia. Che, in quanto territorio neutrale (apparteneva giuridicamente allo Stato della Città del Vaticano), non poteva essere bombardata dagli alleati, i quali detenevano il dominio dell’aria.

Ma i nazisti ne approfittarono: stiparono a pochi metri dalle mura esterne enormi depositi di munizioni. Gli angloamericani sostenevano che erano anche entrati nell’abbazia, e da lì bersagliavano gli assedianti. Non era così, e nella guerra della propaganda i tedeschi nei mesi seguenti usarono le foto dell’abbazia distrutta come esempio di una pretesa «barbarie» degli alleati.

In ogni caso, nel maggio ’44 tutto è pronto per lo sbarco segreto in Normandia. Churchill ed Eisenhower non hanno più bisogno di tenere impegnate le otto divisioni tedesche in Italia, per paura che ripieghino in Francia. Danno quindi il via libera a Clark. E, ancora una volta, la Linea Gustav viene aggirata dai francesi, questa volta sui monti Aurunci.
Mauro Suttora

Wednesday, April 15, 2009

Il cowboy di Castelliri

ANITO E LE SUE MUCCHE, SOLO CONTRO TUTTI

Castelliri (Frosinone), 15 aprile 2009

dal nostro inviato Mauro Suttora

E morto il vitellino appena nato. Mentre Anito De Gasperis era in ospedale, la mucca che lo ha partorito di notte nel bosco non è riuscita a riscaldarlo abbastanza. Il figlio di Anito ha chiamato il veterinario, sono corsi su, lo hanno avvolto in una coperta: troppo tardi, troppo freddo.

Anito è il mandriano di Castelliri (Frosinone) diventato famoso dopo le sue due apparizioni su Striscia la notizia: i tremila compaesani lo odiano perché le sue mucche invadono i loro terreni, rovinandoli. «L’anno scorso le tue uàcc mi song mangiat tutt il granone!», gli ha urlato in faccia una donna.

Anito, che si chiama così in omaggio alla focosa Anita moglie di Garibaldi, ha fatto onore al suo nome e non si è tirato indietro durante le risse televisive: «Parli con la faccia o con il c…?», ha apostrofato il sindaco omonimo Sandro De Gasperis («Parente? No, per carità»). Un altro paesano si è beccato un «’mbecill», un altro «’mbrugliunn», finché una donna lo ha minacciato agitandogli la mano a due centimetri dal viso: «Ca tong ‘na pizza, mannaggia!»

Spettacolari baruffe ciociare finite su Youtube e Facebook, aizzate da Capitan Ventosa: quel tizio di Striscia che va in giro a vendicare soprusi con lo sturacessi in testa. Alla fine però Anito, circondato da decine di paesani infuriati, viene spinto, cade, batte la testa, sviene e finisce all’ospedale di Sora.

Lo incontriamo quando torna a casa, pochi giorni dopo: nulla di grave. Intanto, però, il vitello è morto. A parte la tristezza per quegli occhioni sbarrati del cadavere in cortile, è un danno anche economico: «I vitelli me li pagano 2.500 euro se li porto al mattatoio, se invece li macello io valgono cinquemila», spiega. E attacca il sindaco: «Tutta colpa sua. Sono dieci anni che mi perseguita, aizza tutti contro di me. Ha fatto venire Striscia e non sa che mi ha fatto un favore, perché prima l’avevo chiamata io tre-quattro volte, ma non mi avevano risposto».

In questa Italia da Far West dove per risolvere le liti fra cowboys e agricoltori si va in tv, Anito ci espone le sue ragioni: «Castelliri ha 1.200 ettari di bosco comunale, in montagna. Qui è Lazio, ma fino al 1860 c’erano i Borboni, non il Papa. Da sempre gli abitanti possono pascolare e raccogliere legna e funghi nella foresta. Io mi limito a esercitare il diritto di pascolo pagando regolarmente la “fida” al Comune, e rispettando gli usi civici».

La accusano di spadroneggiare con il suo bestiame, di rovinare gli ulivi nei campi altrui.
Anito s’infervora: «Sono loro a occupare abusivamente ettari ed ettari di terre civiche, senza che nessuno si preoccupi di reintegrarle nel demanio collettivo! Venite, venite su e vi faccio vedere».

Ci inerpichiamo per i monti Simbruini sotto la pioggia, sulla jeep. Metà delle sue 80 mucche e 40 vitelli stanno in un avvallamento del bosco in una situazione penosa: il recinto è pieno di fango, dove affondano per metà le zampe degli animali.

Perché non le tiene riparate sotto un capannone? Basta questa domanda a dare la stura a un fiume in piena: «E quello che chiedo da sempre al sindaco, ma dice che per costruire ci vogliono trentamila metri quadri di terreno…» E poi via a forza di Pua (Piani urbanistici attuativi), contributi comunitari, diffide, regolamenti e verifiche demaniali.

In questi dieci anni Anito è diventato espertissimo di leggi, ci mostra documenti dell’800 e mappe con tutte le particelle del territorio di Castelliri. «Mi hanno denunciato ottanta volte per pascolo abusivo: mai condannato. Tre uomini incappucciati mi hanno aggredito: venti punti in testa. Pochi giorni fa il tribunale di Sora ha annullato una multa di 50 mila euro della guardia di finanza, e così ha sbloccato i contributi europei». Che sono ? «Sessantamila euro l’anno, 500 a capo. Però me ne hanno fatti spendere centomila in avvocati, ho solo debiti».

Saliamo ancora per la foresta, dall’altra parte c’è l’Abruzzo. Arriviamo a un altipiano dove stanno pascolando le altre mucche, ecco una staccionata di legno lungo la provinciale per Sora: «L’avevo fatta per proteggerle dalle auto, ma il sindaco me l’ha demolita a metà. Invece i proprietari di un mobilificio hanno potuto mettere questa cancellata di ferro».

Il terreno non è loro? «Le terre demaniali non si possono vendere né prendere per usucapione, sono di tutti. Si possono dare in concessione, ma solo ai residenti del comune».

Il figlio maggiore di Anito, Danilo, è tornato da Torino, dove si sta laureando in ingegneria meccanica, per aiutare suo fratello Sergio, 21 anni, che lavora alla Fiat di Cassino, a tenere le mucche mentre il padre era in ospedale. Ora le spinge giù verso il recinto, a fine giornata. «Tutte vacche marchigiane di razza: non fanno latte, ma la carne è pregiata».

Insomma, Anito, di quanti ettari ha bisogno? «Quattrocento». Un po’ tanti: un terzo del bosco demaniale di Castelliri. «Ma ogni mucca per pascolare ha bisogno di un ettaro di prato, oppure di quattro ettari di bosco». E non può dargli fieno? «No, perché la carne me la pagano cinque euro al chilo, e il fieno costa sei». Ma le mucche non rovinano il sottobosco, mangiando tutti i germogli? «No, quelle sono le capre. Le mucche sono ghiotte di erbacce e trifoglio, disboscano e fanno bene agli alberi».

Ci sono altri allevatori nella zona? «Sì, nei comuni vicini: Sora, Veroli. A Castelliri sono l’unico. Ma col sindaco di prima non avevo problemi».

Come nella canzone di Georges Brassens La cattiva reputazione, Anito in paese non ha amici. Non gli resta che sperare nel prossimo sindaco, che verrà eletto fra due mesi. Quello attuale deve lasciare, dopo dieci anni.

Intanto, per risolvere il caso del cowboy di Castelliri, a Frosinone si è riunito d’urgenza in prefettura il Comitato provinciale per la sicurezza. Presente l’intero gotha delle autorità: prefetto, viceprefetti, procuratore capo, questore, comandanti provinciali di carabinieri, guardia di finanza, forestale e guardie provinciali, direttore dell’Asl, responsabile del servizio veterinario…
La guerra di Anito contro tutti continua.

Mauro Suttora