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Wednesday, April 21, 2010

Fallaci: parla Rossella

COME ORGANIZZARE UNA FICTION SULLA GRANDE SCRITTRICE?

Oggi, 21 aprile 2010

«Farei interpretare la Fallaci da Maria Rosaria Omaggio. È incredibile come la voce profonda e roca con cui legge le sue pagine assomigli a quella di Oriana».

Carlo Rossella commenta il progetto di fiction Rai sulla grande scrittrice morta quattro anni fa. Presidente di Medusa film, giornalista e autore tv (Capri), lui l’ha conosciuta bene. Come raccontare la sua vita?

«Con flashback sulle tante e diverse fasi della sua incredibile esistenza, collegati dalla voce narrante della Omaggio. La prima volta che la incontrai, per esempio, nel ’73, fu a colazione da Sabatini a Firenze. Io ero con Pertini, allora presidente della Camera e non ancora della Repubblica, lei col suo uomo Panagulis. C’era stata una manifestazione per i profughi greci, fuggiti dalla dittatura dei colonnelli. E Oriana raccontava a Pertini di quando lei quattordicenne era staffetta partigiana contro i fascisti. Il padre fu catturato e torturato dai nazisti, e lei ci fece uno stupendo discorso ricordando la sua famiglia, lo zio Bruno giornalista, e come crebbe in quell’ambiente fra i libri, respirando i valori che l’avrebbero accompagnata per tutta la vita: cultura, democrazia, libertà».

Negli anni ’60 e ’70 la Fallaci fu un idolo della sinistra, con le sue cronache di guerra dal Vietnam e la Lettera a un bambino mai nato (il proprio). Dopo l’11 settembre 2001, invece, fu assai apprezzata a destra e disprezzata a sinistra.

«In realtà è sempre stata coerente con le proprie idee di anarchica e socialista libertaria. Detestava fascismo e comunismo perché amava la libertà dell’individuo. E ha capito che dopo la strage delle Due Torri il nazismo moderno è incarnato dai terroristi islamici. Ma già vent’anni prima, intervistando Khomeini, definì fascisti gli ayatollah dell’Iran. Lo ricordo perché ero a Teheran. I dirigenti iraniani volevano linciare ogni giornalista italiano dopo quella sua intervista. E noi a rispondere: “Ma l’ha scritta lei, che c’entriamo!”»

Qual era la caratteristica principale della Fallaci?

«La tenacia. Per questo, nel ruolo di lei giovane vedrei un’attrice volitiva. Come la francese Marion Cotillard, che è stata un’egregia Edith Piaf, oppure le italiane Giovanna Mezzogiorno, Laura Chiatti, Cortellesi... O Penelope Cruz, ma non ha il fisico giusto. La Fallaci era una tremenda rompicoglioni. Basta leggere il memorabile articolo che scrisse sull’Europeo sulla sua mancata intervista a Marilyn Monroe, dopo averla inseguita per mari e monti. Anche qui, un ricordo personale. Beirut, estate 1982. Ero lì da settimane per Panorama, a coprire la guerra in Libano. Arriva la Fallaci all’hotel Alexandra, nella parte cristiana di Beirut Est, dove proprio quel giorno un’esplosione aveva mandato in frantumi tutte le finestre. Io avevo ripulito la mia stanza, mentre lei strepitava alla reception perché la sua era ancora piena di vetri. Allora le offro la mia. Poi andiamo a cena con altri giornalisti italiani, Bernardo Valli e Sandro Viola di Repubblica, e lei scopre che conosco Bechir Gemayel, il capo cristiano appena nominato presidente del Libano. “Voglio intervistarlo”, mi ordina subito. Non le passa neanche per la testa che, se fosse stato possibile, lo avrei fatto io per il mio giornale. Vado comunque su a Broumana, al quartier generale falangista, e riesco a parlare con Bechir. Magari, data la fama internazionale di Oriana, avrebbe acconsentito a farsi intervistare da lei. E Gemayel, in effetti, non mi dice di no. “Però”, aggiunge, “ricordo l’intervista della Fallaci a Kissinger. È riuscita a demolirlo. Allora tu sarai la garanzia che non farà lo stesso con me”. Sorride, e mette mano alla pistola. Torno a Beirut. La Fallaci mi aspetta al bar dell’hotel davanti a un doppio Marie Brizard. Naturalmente le dico che l’intervista è impossibile. Lei comincia a urlare, mandandomi a quel paese e dicendomi di tutto».

Rapporti rotti?

«Neanche per sogno. Ero abituato. Oriana litigava sempre: nei ristoranti con i camerieri, sugli aerei con le hostess, con il presidente dell’Enel per spostare i tralicci troppo vicini alla sua casa toscana...»

E in Libano come finì la questione?

«Imprecando e telefonando a destra e a manca, Oriana cercò di intervistare Arafat. Niente da fare. Allora cambiò obiettivo: Sharon, incolpato della strage di Sabra e Chatila avvenuta pochi giorni prima. E ci riuscì, sdraiandosi letteralmente per strada davanti alla sua auto. Immaginate la scena: lei, signora ultracinquantenne e star internazionale, che blocca l’auto con scorta di Sharon. Il generale israeliano per ripartire dovette darle appuntamento il giorno dopo nel suo ufficio».

Così nacque l’ultima Intervista con la storia pubblicata sull’Europeo. Il cui fotografo, il fedelissimo Gianfranco Moroldo, si vantava di essere stato l’unico uomo capace di schiaffeggiarla.

«Sì, in Vietnam. Stavano salendo su un elicottero americano, e lei per questo cercò di portarlo davanti alla corte marziale. Ma lo rispettava. E qui si apre un altro grande capitolo della vita della Fallaci: gli amori. Che sono stati essenzialmente tre: il capo della France Presse a Saigon, con una storia alla Graham Greene; Alekos Panagulis morto nel ’76 e celebrato nel bestseller Un Uomo dell’80; e infine il misterioso parà protagonista un po’ proustiano di Insciallah dieci anni dopo. Ma il vero e unico compagno di letto di Oriana è stato il successo. Lei adorava il successo. Anche se diceva di lavorare al servizio dei lettori, per fare da mediatrice fra noi e i fatti, in realtà voleva essere la più grande scrittrice del mondo».

Dopo il ’90 altri undici anni di silenzio, fino all’esplosione di La Rabbia e l’Orgoglio.

«Sì, lo scrisse di getto dopo l’11 settembre. E fu un altro capolavoro. Senza dimenticare quelli che riassumono altri due capitoli importanti della sua vita: Se il sole muore, sulle imprese degli astronauti di Cape Kennedy lanciati alla conquista della Luna, e I sette peccati di Hollywood, con le interviste ai grandi attori. Rimase amica della Bergman e della Loren. Quest’ultima cercò inutilmente di convincerla a trasformare qualcuno dei suoi libri in un film. Un’altra amica che la visitava spesso nei lunghi anni della malattia a New York è Isabella Rossellini: gli autori della fiction dovrebbero sentirla».

Lei l’ha ancora frequentata e intervistata da direttore di Panorama otto anni fa. Era sempre intrattabile?

«Perfezionista fino all’ossessione. Controllava tutto, fino alle virgole delle didascalie. Mi spediva a comprarle le sigarette di notte a Manhattan. Era passata dalle Lark alle Nat Sherman, e finché il negozio di queste ultime era vicino a casa sua, all’altezza dell’hotel St. Regis, potevo andarci a piedi. Poi si spostò più giù sulla Quinta Avenue, e mi toccava prendere il taxi».

Insomma, ha sempre trattato anche lei da galoppino, oltre a ad avere insultato mezza Italia: dai politici ai direttori dei suoi giornali, fino agli amministratori delegati della propria casa editrice, la Rizzoli, che dovevano precipitarsi a New York per calmarla.

«La verità è che la Fallaci è stata una delle grandi italiane del secolo scorso. Speravo che la nominassero senatrice a vita. Lei ci avrebbe tenuto, credeva nella repubblica. Chi la interpreterà dovrà leggere parecchio, per introiettare il personaggio. Dovrà essere un’attrice colta. Perché Oriana l’abbiamo conosciuta in tanti. E se la fiction viene male mi arrabbio».

Mauro Suttora

Friday, April 14, 1989

Guerre senza fine: la violenza torna a divampare a Beirut

L’ultima crociata


“Liberare il Libano dai siriani”: è lo slogan di Michel Aoun, premier cristiano della zona est della città. Ma nasconde anche uno dei tanti regolamenti di conti tra opposte fazioni. E intanto nel tiro incrociato finiscono i civili


dall’inviato a Beirut Mauro Suttora


Europeo, 14 aprile 1989

 

“Cosa pensano di noi i cristiani d'Europa?", mi domanda Bassam Kafrouni, 23 anni, sottotenente delle forze libanesi, gli occhi azzurri assetati di solidarietà internazionale. "Assolutamente nulla", gli rispondo sincero, "indifferenza totale. L'unica cosa che si pensa è che forse siete un po' tutti stufi di farvi guerra in Libano dopo 14 anni, no?" I baffetti neri di Bassam si irrigidiscono sulla bocca chiusa. 

È Pasquetta. Sono le due del pomeriggio. Stiamo attraversando piazza dei Martiri. Era il centro di Beirut: negozi, uffici, ristoranti e sfavillanti night club. Adesso di colorato è rimasto solo lo scheletro di una grande pubblicità luminosa: orologi Orient. Tutto il resto sono solo palazzi abbandonati. Diroccati, bruciacchiati, forati soprattutto. Basta con il cedro: il nuovo simbolo del Libano anni Ottanta è il foro del proiettile. Sventagliate di mitra o colpi di fucile di cecchini isolati. E poi i buchi più grandi: quelli di bazooka, obici, cannoni. Dei missili. Non c’è casa a Beirut, anche nei quartieri residenziali più chic, che non esibisca qualche foro sui muri.

"Sono come le cuvées", scherza il fotografo Karim Daher. "Si possono riconoscere le annate. Queste sono le tracce dei combattimenti del '76 , queste dell'82 , queste dell'86… I più esperti riescono perfino a distinguere i buchi fatti dai vari eserciti: siriani, israeliani, palestinesi, falangisti, sciiti…” 


Pasqua a Beirut. La guerra del Libano compie 14 anni. Fu una scaramuccia fra i palestinesi e la scorta del presidente cristiano ad accendere la miccia, nell'aprile 1975. In quegli stessi giorni i nordvietnamiti conquistavano Saigon. Beirut invece era la "Parigi del Medio Oriente": la città più ricca, elegante e cosmopolita del Mediterraneo. Nessuno poteva immaginare che il Libano proprio in quel momento stesse ereditando dal Vietnam l'orrendo ruolo di guerra più lunga ed estenuante del secolo.

Da allora, nell'unica democrazia del mondo arabo sono morti in 120 mila. Calcolando che il Libano ha appena tre milioni di abitanti, in proporzione sarebbe come se in Italia una guerra facesse due milioni e mezzo di vittime. E la mattanza continua. 

In marzo a Beirut è scoppiata la terza guerra del 1989. Quest'anno il ritmo è infernale: ogni mese una nuova guerra. In gennaio c’è stato il conflitto fra sciiti prosiriani del partito Amal, "Speranza" in arabo, e quelli pro iraniani di Hezbollah, il "partito di Dio". In febbraio, a san Valentino, un rapido ma sanguinoso regolamento di conti in campo cristiano: le forze libanesi del falangista Samir Geagea contro l'esercito regolare libanese del generale Michel Aoun. Il quale poi, arrivata la primavera, ha lanciato l'ultima, temeraria sfida: "Comincia la guerra di liberazione, via gli invasori siriani dal Libano". 


Ci sono 30mila soldati siriani attualmente in Libano. Occupano i due terzi del paese: la valle della Bekaa, il nord, tutto il sud tranne la striscia dei filo israeliani e quella dell'Onu. E Beirut ovest, quella prevalentemente musulmana. Ai libanesi cristiani rimangono solo 1.500 chilometri quadrati, una striscia costiera lunga una cinquantina di chilometri e larga 30 che si stende da Beirut est su verso il nord. Niente di più. 

Da sette mesi, ormai, il paese non è più unito. Neanche formalmente. Alla scadenza del mandato del presidente Amin Gemayel, infatti, si sono formati due governi. A Beirut est c’è quello guidato dal capo dell'esercito Aoun. L'altro, a Beirut ovest e nel Libano occupato dalla Siria, è presieduto dall'ex premier musulmano Selim Hoss. I libanesi cristiani però sottolineano che la guerra d’indipendenza è rivolta solo ed esclusivamente contro gli invasori siriani . E che non si può quindi parlare di "guerra civile fra libanesi". Nessuna accusa di collaborazionismo sfugge mai contro Hoss, gli sciiti, i sunniti o i drusi. 

Fatto sta che i cannoni di Beirut est stanno bombardando le case dei civili a Beirut ovest, e viceversa.


Anche i pretesti, naturalmente, sono simmetrici ed equivalenti. "Colpiamo solo le postazioni siriane. Sono loro, per proteggersi, che si mettono in mezzo ai civili", dice il generale Aoun. "Colpiamo solo obiettivi strategici come la sede presidenziale dove Aoun si è installato illegalmente", si giustificano dall'altra parte. Anzi, a Beirut ovest nessuno si giustifica, perché ufficialmente nessuno spara . Però, chissà come, ogni giorno dalle quattro del pomeriggio alle due di notte anche da lì piovono bombe. 

Ne hanno fatto le spese soprattutto i quartieri residenziali attorno al palazzo del presidente Aoun, a Baabda. Ma anche piazza Sassine, nel cuore del quartiere cristiano di Achrafie, zona considerata sicurissima, ha ricevuto la sua dose di obici da 155 a 240 millimetri che hanno perforato i muri dei condomini, entrando ed esplodendo in piena notte nelle camere da letto. Il risultato finale è sempre lo stesso, da 14 anni: per ogni soldato morto, da una parte o dall'altra, venti sono i civili innocenti ammazzati.


L'immoralità delle guerre moderne, bomba atomica o no, è contenuta tutta in questo semplice ma tragico rapporto di proporzione: uno a venti. Fino alla prima guerra mondiale erano soprattutto i soldati a morire in battaglia. Adesso invece i militari sparano e i civili muoiono. In Libano è successo tante di quelle volte: a Tall El Zatar nel '76 i soldati siriani massacrarono donne e bimbi palestinesi perché nei sotterranei del campo profughi i fedayn avevano nascosto i loro carri armati; lo stesso fecero i falangisti a Sabra e Chatila nell'82; o gli sciiti nel campo di Bourj El Barainj nell'87; o i palestinesi filosiriani di Abu Mussa contro altri palestinesi nell'estate ' 88 . Eccetera.

Ma almeno questi nomi di stragi rimarranno in qualche modo nella storia degli orrori libanesi. Chi si ricorderà, invece, dei signori Tanios Dumit, Elias Dumit o Suad Kassaifi, tre delle vittime dei bombardamenti di questa Pasquetta '89, colpiti solo perché la loro casa era troppo vicina al palazzo presidenziale di Baabda?

A Beirut non ci sono più giornalisti. Sette anni fa erano in duemila ad affollare gli alberghi; oggi siamo in tre ad aggirarci nell'atrio vuoto dell'hotel Alexandre. Peccato, generale libanese Michel Aoun, la tua guerra di liberazione contro gli invasori siriani non interessa il mondo: eppure l'hai sparata grossa venerdì santo, quando hai dichiarato: "Se per liberare il Libano Beirut dovrà essere distrutta, che lo sia: è già stata ricostruita otto volte nella sua storia, la ricostruiremo ancora".

E il giorno dopo hai rischiato grosso: mentre ti intervistava un giornalista di Zurigo, nel tuo studio sotterraneo, è caduta una pioggia di obici sul palazzo di Baabda, dove lo scorso settembre l'ultimo presidente Amin Gemayel ti nominò presidente del Consiglio solo tre minuti prima che gli scadesse il mandato, dopo averti odiato per anni. Il tassista del giornalista zurighese, che aspettava nel parcheggio, si è preso le schegge. Ma tu, presidente, saresti morto se fossi stato alla tua scrivania normale: un missile si è piantato proprio in mezzo alla sedia.


"Nous tiendrons jusqu'au bout", grida durante la messa di Pasqua una donna dal fondo della chiesa cattolica di Nostra Signora dell'Assunzione. "Resisteremo fino in fondo": se lo giurano in molti, fra il milione di cristiani assediati nell'enclave libanese. Di mattina i bombardamenti cessano, e così a Pasqua a Beirut est tutte le chiese erano piene zeppe. In quella di Nostra Signora dell'Assunzione vengo coinvolto in una scena incredibile assieme al fotografo francese Alain Nogués, fondatore dell’agenzia Sygma. È in corso la messa, in arabo. Diciamo al sacrestano che alla fine vorremmo parlare con il prete. Ma questi, avvertito immediatamente della presenza di due giornalisti europei, ci convoca sull'altare in piena messa. Ci bisbiglia in francese: "Dopo la predica dirò qualcosa su di voi". Lo farà, rivolto ai fedeli: "Fratelli, sono fra noi due rappresentanti dell'opinione pubblica cristiana europea. Che Dio li illumini e possa far descrivere loro la nostra situazione e la nostra continua lotta in difesa della cristianità”.

Alé, abili e arruolati sul campo, mille anni dopo la partenza della prima crociata contro gli infedeli! Ma è esattamente questo il clima in cui vivono centinaia di migliaia di cristiani libanesi oggi. E non capiscono perche', invece di aiutarli a cacciare via i siriani dal Libano, il presidente francese Francois Mitterrand abbia accolto proprio durante la settimana santa il ministro degli Esteri siriano a Parigi. E si sia addirittura impegnato a incontrare presto il presidente della Siria Hafez Assad.

 

Esattamente come i Pieds Noirs algerini trent'anni fa, i cristiani di Beirut, tutti arabi ma francofoni, considerano la Francia la loro protettrice e madrepatria. Anche gli armeni cilici di Antelias, sulla strada verso il porto di Junie, discutono e commentano i bombardamenti che non li hanno fatti dormire la notte precedente. Sotto la cipria, profonde occhiaie: siamo andati nei rifugi, ci siamo addormentati solo verso le tre, si lamentano le mamme.

A ogni incrocio di Beirut est c’è un altarino alla Madonna. Ogni due incroci, un murale con il ritratto del vecchio Pierre Gemayel. Ogni tre, quello del figlio Bechir, il leader della falange fatto saltare in aria poco dopo essere stato eletto presidente nell'82. Il fratello Amin, che ne ha preso il posto ed è sopravvissuto per sei anni, invece non è più popolare: "Troppi compromessi con i siriani", gli rimproverano. 

Anche Amin, assieme ad altri sei ex presidenti e primi ministri del Libano (la costituzione lasciata nel '43 dai francesi stabilisce che i presidenti siano cristiani e i primi ministri musulmani), è volato a Tunisi la scorsa settimana per i negoziati condotti, in nome della Lega Araba, dall'ambasciatore del Kuwait in Siria. Ma diversi cristiani accusano l'ultimo dei Gemayel di essersi arricchito illecitamente durante la presidenza. E poi ormai vive a Parigi, ha chiesto il divorzio dalla moglie, convive con un'amante… e i maroniti storcono il naso.


Riuscirà il generale Aoun a diventare il nuovo eroe nazionale dei cristiani del Libano? Sta facendo del suo meglio. A nord dell'enclave il territorio controllato dal cristiano Suleiman Frangie, ottuagenario ex presidente, è sotto dominio siriano. Anche Pierre Hobeika, capo dei falangisti fino al 1986 e tristemente famoso per la strage di Sabra e Chatila, è passato con Damasco. Ma, a parte questi due "Giuda", il fronte cristiano ha ritrovato la sua compattezza contro la Siria. I due risultati più concreti degli scontri intercristiani di febbraio sono stati il ritorno del controllo dell'intero porto di Beirut nelle mani dell'esercito regolare, quindi dello Stato, e la chiusura del quotidiano Le Reveil. Era l'organo delle forze libanesi (falangisti più i liberali di Eddy Chamoun più i Guardiani del Cedro) e ha sospeso le pubblicazioni per un motivo molto semplice: l'edificio dove veniva stampato è passato sotto il controllo fisico dell'esercito.

Una disavventura simile, del resto, è toccata anche al principale quotidiano libanese scritto in francese, L'Orient Le Jour: ha la redazione a Beirut est, ma la tipografia all'ovest. Così, per essere venduto anche nell'enclave cristiana, viene spedito via telefax ogni notte.


Ma le Forze libanesi continuano a essere un potentissimo stato nello stato , nel Libano cristiano. Il traghetto che collega di notte Cipro al Libano (unico modo di arrivare a Beirut se l'aeroporto è chiuso) è di loro proprietà. Appena salito a bordo, sabato santo, mi sono accorto che il potere anche nel Libano cristiano è diviso in due: accanto al funzionario statale che controllava i passaporti c'era quello delle Forze Libanesi. 

Il traghetto viene spesso bombardato da drusi e siriani quando arriva al porto di Junie, 15 km a nord di Beirut, ma rimane l'unico contatto dell'enclave cristiana col mondo esterno. Infatti i siriani dal 20 marzo hanno bloccato tutti i passaggi fra Beirut est ed ovest. La linea verde, il confine fra le due Beirut, con quella specie di muro di Berlino improvvisato fatto di container che ostruiscono ogni via di accesso tranne i pochi passaggi ufficiali, è anch'essa spartita, dalla parte cristiana, fra esercito e miliziani delle Forze Libanesi. Queste ultime controllano la parte nord, vicina al mare. E qui, da 40 giorni ininterrottamente è stazionato il sottotenente Kafrouni. La milizia gli dà tutto: mangiare, dormire, vestiti e 200 dollari al mese. "Mi bastano, perchè non sono sposato". "Sei fidanzato?". "Sì". " E lei è contenta che non ritorni a casa da 40 giorni?". “È normale, è la guerra". " È più brutta questa guerra contro i siriani o quella del mese scorso contro l'esercito regolare?". "Con l'esercito c'è stato solo un piccolo problema. Con i siriani il problema è molto più profondo".