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Sunday, November 07, 2021

Adesso a Renzi infiliamogli anche una videocamera nel bagno






Il Fatto pubblica l'estratto conto del leader di Italia viva, precisando: nulla di illecito. E allora, dov’è la notizia? Ma soprattutto, dov’è lo scandalo? 

di Mauro Suttora

HuffPost, 6 novembre 2021


Adesso vogliamo vedere anche il fascicolo sanitario di Matteo Renzi. Come vanno le sue analisi? Ha pagato i ticket? O li ha addebitati alla sua fondazione Open, il mascalzone?

Benvenuti nell’era della trasparenza totale. Il partito che la propugnava, il grillino, è sparito, come sostiene Di Battista: la nuova gestione Conte ha smesso di urlare ‘onestà‘, i suoi parlamentari non ‘rendicontano’ più i loro stipendi. Ma il guardonismo resiste. Oggi Il Fatto ha pubblicato l’estratto conto dell’ex premier: tutte le entrate percepite dal giugno 2018 al marzo 2020 presso la filiale della sua banca al Senato.

A scanso di querele, il giornale precisa: nulla di illecito. Sono gli incassi di due anni per il nuovo (secondo) lavoro di Renzi, dopo la sua estromissione da palazzo Chigi nel 2017: conferenziere internazionale, da 20 a 50mila euro per ogni discorso. Più i 653mila di Lucio Presta per il famoso documentario su Firenze. Totale, sui due milioni.

Un bel prendere, come diciamo a Milano. Ma tutto dichiarato: il 730 di Renzi del 2020 infatti indica un reddito di un milione, quello precedente 800mila.

E allora, dov’è la notizia? Ma soprattutto, dov’è lo scandalo? Da nessuna parte. Lo precisano perfino gli inquirenti, che però depositando gli atti di una delle ben tre inchieste aperte su Renzi non hanno resistito ad allegare questa succulenta lista della spesa. O della serva, visto che “gli incassi dell’ex premier non sono oggetto di indagine”.

Insomma, eccoci servito un bel buco della serratura dentro cui gli odiatori di Renzi possono soddisfarsi guardando, spiando, sospettando. Bastano i soliti nomi a eccitarci: Arabia Saudita, Benetton, banche. Sì, al senatore piace la dittatura di Riad, un po’ come a Prodi e a tanti altri piace quella di Pechino. La famiglia “assassina del ponte Morandi” (cit. 5 stelle) ha versato 20mila a Renzi, probabilmente per l’ennesimo speech, ma chissà che non sia un altro “rapporto contrattuale fittizio” su cui aprire una quarta inchiesta, dopo quella sul documentario di Presta. 

E le banche, oh, le banche. Peggio: i 147mila euro dalla società di gestione del risparmio Algebris, sicuramente speculativa visti gli ottimi rendimenti sbandierati. Dai, Matteo, confessa: è una tangente, va bene che sei un chiacchierone, ma quanti discorsi avresti fatto per pigliare tutti ’sti soldi?

Non ricordiamo estratti di conti correnti privati pubblicati su Fanfani, Leone, Andreotti, Forlani, Craxi, Berlusconi. Eppure metà Italia detestava anche loro. 

Non vediamo inchieste sulle tante fondazioni che affollano il sottobosco politico, organizzando convegni e viaggi per quasi tutti i parlamentari di destra e sinistra. Possibile che solo quella di Renzi abbia violato la legge sui finanziamenti ai partiti?

Ma soprattutto: com’è che un politico valutato al 2-3% attira tanta strabiliante attenzione? Dicono che sia perché è stato lui a far cadere gli ultimi due governi, e a far installare Draghi. E allora cosa aspettiamo? Infiliamogli pure una videocamera nel bagno.

Mauro Suttora 

Wednesday, March 20, 2019

Faccetta nera, bell'abissina, aspetta e spera che il saudita si avvicina

MENTRE NOI CI PRE/OCCUPIAMO DEI 49 MIGRANTI SULLA NAVE MAR JONIO, NEL MONDO REALE 100MILA GIOVANISSIME SCHIAVE DEL SESSO ETIOPI VENGONO VENDUTE AI SAUDITI COME COLF

di Mauro Suttora

Libero, 20 marzo 2019

Mentre noi ci preoccupiamo dei 49 clandestini sulla nave Mare Jonio, nel mondo reale 100mila giovanissime schiave del sesso etiopi stanno per essere letteralmente vendute all’Arabia Saudita come colf.

L’incredibile notizia arriva da Addis Abeba, dove ora è addirittura lo stesso governo etiope a organizzare il traffico di carne umana. Nell’ottobre 2013, dopo le innumerevoli denunce di violenza sessuale, torture e altri abusi da parte di domestiche di tutto il mondo nei Paesi del Golfo, l’Etiopia aveva proibito l’emigrazione delle sue giovani donne in Arabia Saudita, Libano, Kuwait, Qatar ed Emirati.

Particolarmente richieste dagli sceicchi sono le belle abissine dal corpo snello, tratti fini e alteri, zigomi alti. Ma le violenze colpiscono chiunque: filippine, cingalesi, indonesiane. A decine cercano di scappare, vengono picchiate se si ribellano, si suicidano. Anche le Filippine hanno vietato l’emigrazione per un periodo, dopo che una loro colf fu trovata morta nel freezer del suo datore di lavoro. Ma, naturalmente i traffici clandestini sono proseguiti.

L’Etiopia si trova proprio davanti all’Arabia Saudita. Per arrivarci, le migranti raggiungono di nascosto Gibuti e da lì attraversano il mar Rosso. Prima che scoppiasse la guerra in Yemen passavano da lì. E ora che Etiopia e la rivierasca Eritrea hanno fatto pace, ecco aprirsi una nuova rotta per il traffico. 
Gli etiopi che lavorano regolarmente in Arabia Saudita sono mezzo milione, ma i clandestini arrivano al doppio. E sono particolarmente ricattabili.

“Le collaboratrici domestiche vengono sfruttate dalle loro famiglie”, denuncia Mulatu Legesse, che cura i traumi delle etiopi tornate a casa, “devono lavorare anche 13-16 ore al giorno, subiscono il sequestro del passaporto e a volte anche del telefonino, vengono pagate poco o nulla, e se osano protestare viene loro perfino impedito di spedire i soldi a casa”. Poche dicono di essere state stuprate, per la vergogna e perché perderebbero ogni dignità sociale.

L’Etiopia, nonostante il pil che aumenta del 9% annuo grazie agli investimenti dei nuovi colonialisti cinesi, è uno dei Paesi più poveri d’Africa. Con i suoi 106 milioni di abitanti è il secondo più popoloso del continente dopo la Nigeria. In campagna ogni donna fa ancora quattro figli. Quindi i quattro miliardi annui in euro di rimesse degli emigrati sono preziosi.

Così, passata la bufera del blocco di sei anni fa, i governi etiope e saudita hanno firmato un accordo. Le ricche famiglie saudite potranno assumere legalmente giovani colf, tramite 340 agenzie. Stipendio mensile: 1000 ryal (235 euro). Che è tanto, rispetto al salario medio etiope di 30 euro al mese.

Non solo: l’Etiopia garantisce che le sue aspiranti colf frequentino, prima di partire, un corso di uno-tre mesi di economia domestica (pulire, lavare, stirare) e di arabo. “Devono avere la licenza media inferiore, l’assicurazione e un certificato di abilitazione”, dice Assefa Yrgalem, portavoce del ministero del Lavoro ad Addis Abeba.

Dopodiché, partirà un primo stock di 100mila sedicenni. Protette, dicono, da una nuova legge etiope contro gli abusi. Che non si capisce come possa essere applicata in un Paese straniero.

L’Arabia Saudita ha appena dimostrato quanto rispetti i diritti umani con il caso di Jamal Khashoggi, il dissidente ammazzato e squartato nel consolato di Istanbul. Certo, esattamente come in Italia, i fautori dell’accordo che in pratica legalizza la schiavitù femminile dicono che l’alternativa è ancora peggio: centinaia di clandestini annegati nel mar Rosso in questi anni di divieto all’emigrazione.

“Ma qualsiasi cosa è meglio che andare a farsi sfruttare dai sauditi”, dice Serkalem, che partì 25enne per undici anni di lavoro a Riad. Derubata di tutti i risparmi, ora è tornata a casa, e vende sapone e verdura al mercato di Addis Abeba.
Mauro Suttora

Friday, February 17, 2006

Intervista a Turki

A NEW YORK LA PRIMA DEL PRINCIPE AMBASCIATORE, MAESTRO D’AMBIGUITA’ SAUDITA

Il Foglio, giovedi 16 febbraio 2006, pag.3

New York. “Una cattiva stabilità è meglio di un buon caos”: è tutto concentrato in questa frase, il realismo scettico del principe Turki Al-Feisal. Il quale, fresco di nomina come ambasciatore saudita a Washington, ha scelto per la sua prima uscita pubblica il Council on Foreign Relations. Si è presentato come un vecchio amico degli Stati Uniti, anzi “uno di noi”, visto che ha compiuto quasi tutti gli studi in America negli anni Sessanta: quattro anni di liceo nel New Jersey, poi altri quattro alla Georgetown university. Il 16 febbraio festeggia 61 anni, e con la sua pronuncia impeccabile adula i presenti: “Sono tornato nel vostro grande Paese per imparare ancora e completare la mia educazione...”

Parla a braccio, il principe, sciolto e disinvolto come nessun altro dignitario saudita: “A dicembre, quando ho presentato le mie credenziali a Condi Rice, le ho ripetuto la frase che Churchill rivolse a Roosevelt, quando questi si imbattè in lui nudo per un corridoio mentre era ospite alla Casa Bianca: ‘Un premier britannico non ha nulla da nascondere all’America’. Ecco, io penso che anche i rapporti fra Stati Uniti e Arabia Saudita debbano essere aperti al massimo. Perchè non ci lega solo un rapporto petrolio/sicurezza: in questi decenni centinaia di migliaia di sauditi sono approdati in America per studiare, curarsi, fare affari. E gli affari li abbiamo conclusi con mutua soddisfazione”.

Il principe tuttavia sa bene che una buona metà dell’establishment statunitense guarda con sospetto all’Arabia Saudita, ai suoi finanziamenti alle madrasse di tutto l’Islam, all’ambiguità di parte della famiglia reale, e alla mancanza di libertà che continua a caratterizzare Riad: “Nonostante quel che leggete sul New York Times o sul Wall Street Journal, stiamo procedendo con le riforme politiche: fra tre anni voteranno anche le donne, che già oggi da noi si laureano più dei maschi. Quanto alle accuse al wahabismo, i nostri preti hanno condannato gli attentati suicidi ben prima dell’11 settembre. E noi musulmani siamo rimasti sorpresi quanto voi occidentali per la cultura di morte propalata da un culto islamico assolutamente minoritario. Perchè non è vero, come qualcuno crede in Occidente, che dietro ogni moschea c’è un giovane kamikaze pronto a farsi saltare in aria. Ogni religione ha avuto nella storia le sue sette di fanatici pronti a sacrificarsi. Ma il Corano proibisce l’uccisione di civili innocenti.”

L’Egitto rinvia di due anni le elezioni locali temendo un successo dei Fratelli Musulmani dopo l’exploit di Hamas in Palestina. Cosa chiede Riad ad Hamas? “Di mantenere tutti gli impegni assunti dall’Autorità palestinese, e quindi di riconoscere il processo di Oslo, da cui è nata proprio quell’Autorità. Di accettare il piano di pace arabo, con la soluzione dei due stati. E di rispettare la Road map”. Turki non parla esplicitamente di rinuncia al terrorismo nè di riconoscimento di Israele (che peraltro non è riconosciuto neppure dall’Arabia Saudita), ma dà questi due punti come inclusi nei precedenti.

Il principe Turki è stato capo dei servizi segreti esteri di Riad per un quarto di secolo, dal '77 all’11 settembre, quando venne prudentemente spedito a Londra come ambasciatore. E’ l’uomo di governo che più di ogni altro conosce Osama bin Laden, avendolo finanziato, incoraggiato e incontrato personalmente cinque volte. «Ma l’ultima fu nel ‘90, dopo la vittoria contro i sovietici in Afghanistan, quando lui e i suoi reduci tornati in Arabia mi proposero di mandarli a combattere nello Yemen del Sud, contro il governo allora comunista. Dopo il mio rifiuto lo persi di vista, venne arrestato varie volte, poi tornò in Afghanistan, e nel ‘93 dal Sudan cominciò la sua guerra contro noi sauditi. Lo privammo della cittadinanza, gli sequestrammo i beni, la sua famiglia lo sconfessò, e nel ‘95 il primo attentato di Al Qaeda colpì proprio l’Arabia Saudita, con la morte degli undici soldati americani. Oggi in Iraq gli estremisti sfruttano l’insofferenza per le truppe straniere, ma mi sembra che la stragrande maggioranza della popolazione voglia andare avanti, guardando al futuro”.

L’unico argomento su cui il principe non parla è l’Iran: “Abbiamo in corso delicate trattative”. Sulla possibilità che i cristiani possano praticare liberamente la propria religione in Arabia Saudita, dice che in privato dovrebbero essere liberi di farlo. E lancia una curiosa proposta: “Noi islamici riconosciamo tutti i vostri libri sacri, Bibbia e Vangelo. Perchè, reciprocamente, voi non accettate anche il Corano?”

Mauro Suttora