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Monday, November 15, 2021

Maria Grazia Cutuli, smettete di chiamarla giovane collega



Moriva vent'anni fa, ammazzata in Afghanistan. Fino a due anni prima era solo una precaria, fra sostituzioni di maternità e contratti a termine

di Mauro Suttora

HuffPost, 15 novembre 2021

Adesso Maria Grazia Cutuli è una via di Milano, fra Lambrate e l'Ortica. Fu ammazzata in Afghanistan vent'anni fa, il 19 novembre 2001. Due suoi assassini sono stati condannati nel 2018 in Italia a 24 anni. Erano in carcere a Kabul, chissà se quest'estate i talebani li hanno liberati. 

Speriamo che nel ventennale della sua morte i giornalisti italiani non la definiscano ancora «giovane collega»: non si è più giovani a 39 anni. Quanto alla «collega», anche lì ci andrei cauto: fino a due anni prima Maria Grazia era solo una precaria, fra sostituzioni di maternità e contratti a termine.

Proprio come tutti i «martiri» della corporazione che, ha notato sarcastico il Guardian inglese, ha bisogno di «eroi» per giustificare le proprie sudditanze e frustrazioni. Giancarlo Siani, ucciso nell’85 dai camorristi, era un abusivo del Mattino di Napoli; Ilaria Alpi non era assunta dal Tg3. 

E Antonio Russo, assassinato nel 2000 in Georgia? Dimenticato perché cronista di Radio radicale, denuncia il Guardian. Eppure Russo fu l’unico giornalista al mondo che nel 1999 rimase a Pristina sfidando le deportazioni e le stragi serbe in Kosovo, ricevette premi per questo. Poi però si era intestardito a occuparsi di argomenti «a perdere» come la Cecenia, massacrata dai russi.

Con la Cutuli fu ucciso Julio Fuentes. Lo conobbi quando era a Milano come corrispondente del quotidiano spagnolo El Mundo e stava con Maria Grazia. Lui sì che potè fare il suo mestiere da «giovane». Perché, come succede nei media di tutto il pianeta tranne l’Italia, in Spagna i reporter hanno 20-30 anni. Si comincia così, andando in giro con curiosità ed energia: è il primo gradino del cursus honorum, anche poco pagato. Poi, una volta quarantenni, messa su pancetta e famiglia, ci si fissa in redazione, si incassa l’aumento e si diventa writer, editors, capiredattori, «culi di pietra».

Da noi invece accade il contrario: la nomina a inviato speciale arriva verso i 40-50 anni, cioè proprio quando la disponibilità a «consumare la suola delle scarpe» diminuisce. È capitato a Ettore Mo, il migliore di tutti, e anche alla Cutuli nominata inviata «sul campo». Santo.

Risultato: ogni volta che sono andato per guerre ho incontrato due tipi di giornalisti. C’erano gli americani, inglesi, francesi, tedeschi, spagnoli, che partivano all’alba e tornavano in albergo impolverati solo verso sera, per trasmettere i loro servizi. Poi c’era il gruppetto degli italiani, distinti e simpatici cinquantenni che distillavano preziose analisi geopolitiche ai bordi piscina, sorseggiando cocktail e controllando ogni tanto le agenzie per vedere se era successo qualcosa.

Non li biasimavo: alla loro età sarebbe stato crudele spingerli fuori, nel fango, fra le pietre, non parliamo di sacchi a pelo, i reumatismi. Uno dei più brillanti di loro, stanziato per un mese nel 1990 all’Intercontinental di Amman durante la prima guerra del Golfo, aspettando inutilmente il visto per Bagdad, riuscì a farsi confezionare due completi su misura da un sarto giordano, a spese del giornale.

Un altro, al quale l’allora mio direttore Vittorio Feltri aveva chiesto una copia di un qualsiasi giornale iracheno, per tradurlo e allegarlo al settimanale Europeo, gli rispose che non si trovavano più. Appena atterrato ad Amman feci fermare il taxi al primo incrocio, comprai da uno strillone un quotidiano stampato a Bagdad e lo spedii a Milano. «Ma qui, nell’edicola interna dell’hotel, non li vendono più», mi spiegò il grande inviato speciale, «e fuori è pericoloso uscire, da quando gli arabi hanno picchiato Lilli Gruber».

Un’altra particolarità italiana sono i posti da corrispondente estero. Siamo gli unici al mondo a non farli ruotare ogni tre anni, come capitò anche a Fuentes. La loro principale funzione, da noi, è accogliere ex direttori o caporedattori trombati, possibilmente ignari della lingua locale.

Ecco, anche di queste buffe cose parlavamo con Maria Grazia. Dei giovani giornalisti italiani costretti a marcire per anni di fronte a un computer mentre i loro coetanei dei media esteri raccontano il mondo, magari in classe economica, in bus, in treno, in alberghi non a 5 stelle, magari senza autista privato, scorta militare e traduttore al seguito. Magari in bici, come Beppe Severgnini a Pechino nel 1989 prima della strage di piazza Tian an men. E i loro colleghi «anziani» intanto facevano colazione con ambasciatori e collezione di note spese, telefonavano a mogli, amanti, e scacciavano la noia con un bicchierino o due.

Ultimamente le cose sono migliorate: a turno, ogni tanto, con cautela, anche i giovani vengono spediti fuori dalle redazioni, a prendere un po’ d’aria. A scoprire com’è fatta la realtà. «Ma ormai c’è la rete», obiettano i direttori, molti dei quali non si sono mai spinti (professionalmente) oltre Milano e Roma. Fanno bene: si diventa direttori così in Italia, mica cercando notizie a Peshawar o a Cinisello Balsamo. Anche perché, scriveva il collega Benjamin Franklin, «le notizie sono solo quelle che dispiacciono a qualcuno. Tutto il resto è pubblicità». La Cutuli lo aveva capito, e per questo era considerata una rompicazzo tremenda. Altro che «giovane collega», valorosa postuma.

Mauro Suttora

Saturday, August 28, 2021

Capo di un’Europa veramente unita: questo si merita Mario Draghi

di Mauro Suttora

HuffPost, 28 agosto 2021

Ci rendiamo conto che mai, nella storia d'Italia, abbiamo avuto un leader di così grande prestigio mondiale?

Da due settimane Mario Draghi, dopo il disastro Afghanistan, si è attivato per organizzare a Roma un vertice dei G20, i Paesi che rappresentano l'80% del pil mondiale e il 60% degli abitanti.

Sembra logico che giganti come Cina, Russia, India, Brasile, Sudafrica o Arabia Saudita vengano coinvolti per trovare una strategia comune verso talebani e Isis.

Draghi non si è montato la testa: spetta a lui 'convocare' il mondo intero, perché quest'anno la presidenza a rotazione dei G20 tocca all'Italia; e perché comunque il vertice dei capi di stato è già previsto per il 30 ottobre. Si tratta soltanto di anticiparlo di un mese, a settembre.

Ma egualmente il turbinio di telefonate e incontri in cui si è lanciato il nostro premier risulterebbe velleitario, se egli non godesse di un prestigio planetario pressoché unanime. Forse l'unico che gli serba rancore è il turco Erdogan, da lui definito "dittatore".

Il suo principale estimatore è Biden: quando gli hanno chiesto cosa gli avrebbe detto durante il loro primo incontro, ha risposto: "A Draghi non si parla, a Draghi si chiede consiglio e lo si ascolta".

Il presidente Usa conosce bene superMario, perché i suoi otto anni da vice di Obama hanno coinciso con quelli di Draghi al vertice della Banca centrale europea.

Anche Boris Johnson si è lanciato nell'usuale complimento durante il G7 di Giugno in Cornovaglia: "A Draghi è bastata una frase per salvare l'euro".

Insomma, Draghi ha le carte in regola per dare le carte a tutti i potenti della Terra.

Ci riuscirà? Le prime difficoltà sono emerse durante l'incontro a Roma con il ministro degli esteri russo Lavrov, che gli ha chiesto di allargare il G20 a Iran e Pakistan, vicini dell'Afghanistan. Idea sensata, ma anche un trappolone: come ottenere il sì dei sauditi, nemici giurati degli iraniani, e degli indiani, che detestano i pakistani?

Draghi ha subito telefonato al premier indiano Modi. La soluzione potrebbe essere includere Teheran e Islamabad nel vertice G20 come 'invitati': lo status di cui gode in permanenza la Spagna.

Ma questi sono dettagli tecnici. Così come la presenza fisica a Roma di tutti i leader (chi volesse snobbare il vertice accamperà la scusa del virus per collegarsi solo in video) e l'accavallamento con l'abituale settimana settembrina a New York per l'Assemblea generale Onu.

Ecco, l'Onu. Spetterebbe al Palazzo di vetro l'iniziativa per affrontare il nodo Afghanistan. Ma purtroppo è da vent'anni che risulta desaparecido: dai tempi del deplorevole discorso di Powell sulle inesistenti armi chimiche in Iraq.

Quindi, in uscita la Merkel e in bilico Macron prima del voto francese, per colmare il vuoto di potere non resta che Draghi.

Usa e Regno Unito, umiliati a Kabul, riluttano a parlare troppo presto di talebani e Isis in un consesso dove risulterebbero minoritari e senza il diritto di veto di cui godono all'Onu. Ma li conforta il filoatlantismo d'acciaio di superMario. E comunque anche nel G20 vige la regola del consenso.

Se ce la farà, insomma, e se dal suo vertice romano uscirà una soluzione convincente, Draghi verrà incoronato "Grande saggio" mondiale. A pensarci bene, era da secoli (azzardiamo: da Giulio Cesare? Da Marco Aurelio?) che un italiano non dominava la scena planetaria come lui. Altro che Cavour o Garibaldi. Mussolini era un illuso a Monaco nel 1938, così come Berlusconi a Pratica di Mare nel 2002.

Per questo ogni ipotesi sul suo futuro risulta inadeguata. Premier o capo dello Stato? Entrambi, approviamo subito una legge apposita. 

Segretario generale Onu? Peccato, il mediocre Guterres è stato appena rieletto per altri cinque anni. Poco male: superMario lì risulterebbe imbalsamato. 

Presidente della Commissione Ue al posto della Von der Leyen alla sua scadenza nel 2024? Solo se la carica venisse accorpata a quella di presidente del Consiglio Ue. 

Capo di un'Europa veramente unita: questo meriterebbe Draghi.

Mauro Suttora 

Friday, August 13, 2021

Nando dalla Chiesa: "Gino Strada un grande. Emergency nacque in un ristorante milanese"



Dalla Chiesa ricorda gli anni '70 passati assieme: "Poche chiacchiere, s'occupava di cose vere" 
 
di Mauro Suttora

HuffPost, 13 agosto 2021

 
‘Medicina al servizio delle masse proletarie’: si chiamava così il giornale che i giovani del Movimento studentesco milanese distribuivano all’università Statale negli anni ’70. Fra loro, Gino Strada.

“Un grande italiano”, commenta Nando dalla Chiesa, suo compagno fra i contestatori sessantottini, “chissà se ora, dopo la sua scomparsa, qualcuno lo riconoscerà”.

Due strade parallele, quelle imboccate da Strada e Dalla Chiesa dopo i furori studenteschi. Il primo, laureato in chirurgia nel 1978, gira il mondo per specializzarsi, da Stanford in California all’ospedale di Barnard a Città del Capo. Poi, dopo anni nella Croce Rossa Internazionale, fonda Emergency nel 1994.

Dalla Chiesa, bocconiano, intraprende invece la carriera universitaria. Ma anche lui declina l’impegno politico fuori dalle istituzioni, con libri e giornali: il circolo e il mensile ‘Società Civile’ (assieme fra gli altri a Gherardo Colombo, padre Turoldo, Pansa, Garzanti) dal 1985 al ’92 sono l’unica opposizione alla ‘Milano da bere’ craxiana, visto che il Pci era in giunta col Psi.

“Parecchi di noi ex del Movimento studentesco ci trovavamo in un ristorante di viale Monza, il Tempio d’Oro, e proprio lì nacque Emergency, la creatura di Strada”, ricorda Dalla Chiesa. “Nei primi tempi faticava a trovare contributi per il suo primo ospedale in zona di guerra, finché un’apparizione al Maurizio Costanzo Show lo rese popolare, e i finanziamenti arrivarono”.

Dalla Chiesa poi sarà parlamentare tre volte (Rete, verdi, Pd) e sottosegretario all’Università nell’ultimo governo Prodi, prima di tornare alla cattedra di sociologia.

“Gino Strada e i suoi colleghi impegnati in Medicina democratica già negli anni ’70 ci sembravano appartenere a un pianeta diverso. Poche chiacchiere, si occupavano di cose vere, concrete: Seveso, medicina del lavoro, del territorio. E sono riusciti a cambiare il modo di affrontare il problema salute in Italia. Anche l’infettivologo del Sacco Massimo Galli era fra loro, così come Paolo Setti Carraro, fratello di Manuela, prima di andare a combattere l’Ebola in Africa”.

Il Movimento studentesco di Mario Capanna nel 1976 si presentò alle elezioni nel cartello di estrema sinistra Dp (Democrazia proletaria). Poi divenne Mls (Movimento lavoratori per il socialismo), confluì nel Pdup e infine nel Pci.

“Strada diceva che il suo vero maestro, anche politico, era il professor Vittorio Staudacher, che gli insegnò la chirurgia d’urgenza. Ma la determinazione a fare le cose era tutta sua. La sua frase tipica, anche da studente, era: ‘Chi l’ha detto che non si può fare?’”

Dalla cesta di quel movimento arrivano anche Cofferati e Paolo Gentiloni, ex premier e chissà, oggi papabile per il Quirinale.
Strada invece è sempre rimasto un estremista. Memorabile, recentemente, una sua reazione stizzita contro Mario Giordano in tv: “Fate tacere quella gallina!”.

Ed è un’incredibile coincidenza che se ne sia andato proprio nei giorni in cui i talebani si stanno riprendendo l’Afghanistan.
Lui, come medico, non faceva differenza fra loro e gli afghani filoamericani: “Per me le vittime della guerra sono tutti uguali: sono solo persone che ho il dovere di salvare”.
Mauro Suttora

Good morning, Afghanistan!






Gli americani se ne vanno lasciandosi dietro una scia di disastri, come in Vietnam, per chi lo ricorda. Vent’anni di guerra e occupazione inutili


di Mauro Suttora

HuffPost, 13 agosto 2021


Good morning, Afghanistan!

Chi ha più di 60 anni ricorda il disastro Vietnam: nel 1975, quando gli Usa se ne andarono, arrivò una dittatura comunista che dura tuttora e produsse milioni di profughi (fra cui i boat-people, con 250mila annegati) più una guerra contro la Cina.

In Cambogia, peggio: ecco Pol Pot e il più grosso genocidio della storia umana, in proporzione agli abitanti: tre milioni di cambogiani ‘borghesi’ sterminati su 7,5 milioni di abitanti in soli tre anni e mezzo.

Ora i talebani stanno per prendere Kabul. Non in sei mesi, come prevedevano gli americani, ma in pochi giorni. Sempre attendibile, la Cia.

L’Afghanistan diventerà un altro stato islamista da incubo come quello Isis in Siria e Iraq fino al 2017? O una nuova base mondiale per i terroristi, come ai tempi di Al Qaeda?

Non ci resta che auspicare un incubo minore: la solita teocrazia islamica già al potere negli anni 90 fino al 2001, donne schiavizzate in casa, monumenti non musulmani distrutti, un simpatico medioevo solo un po’ peggiore di Iran e Arabia Saudita.

Ma almeno senza ambizioni di esportare la loro ‘guerra santa’ nel mondo. E se proprio i talebani dovessero debordare (chi li arma?), speriamo che la prossimità geografica li indirizzi più contro Russia (remember Beslan?) e Cina (poveri uiguri) che verso l’Occidente.

Ah, grazie presidente Bush junior per questi vent’anni di guerra e occupazione inutili, cui ha contribuito anche l’Italia (con otto miliardi di euro e 55 morti, il doppio della strage irachena di Nassiriya). Tutti lo avvertivano che l’Afghanistan è da sempre indomabile, come dimostrato dalle sconfitte inglese e sovietica. 

Niente da fare: il complesso militare industriale Usa non poteva lasciarsi scappare un’occasione così ghiotta di spesa militare (mille miliardi di dollari) e profitti immensi, dopo la fine della guerra fredda.

Ci dispiace per le giovani afghane delle splendide foto di McCurry, che erano uscite felici di casa e avevano cominciato a studiare.

Ricorderemo con ammirazione almeno estetica, se non politica, il primo presidente dell’Afghanistan (per troppo poco) democratico, Karzai: elegantissimo, un vero signore.

Purtroppo naufragano le velleità degli ‘esportatori di democrazia’, in buona (con Emma Bonino ci avevo creduto anch’io) e cattiva fede (i neocon Usa). Hanno vinto i burka. E Massimo Fini, solitario fan italiano del mullah Omar.

Unici indifferenti, i coltivatori di papaveri. Quelli hanno continuato tranquilli a produrre oppio sotto qualsiasi regime: sovietici, talebani, americani.

Mauro Suttora


Wednesday, November 20, 2013

parla McCurry

IL FOTOGRAFO PIU' FAMOSO DEL MONDO

di Mauro Suttora


Milano, 13 novembre 2013
Mille persone in fila sotto la pioggia in via San Vittore. Soltanto 180 riescono a entrare nella sala del Museo della Scienza e della Tecnica. C’è una conferenza di Steve McCurry, 63 anni, il fotografo più famoso del mondo.  Popolare come una rockstar: la scorsa estate ha parlato a Siena, all’inaugurazione di una sua mostra (prorogata fino al 6 gennaio), stessa folla.

McCurry è diventato una celebrità nel giugno 1985, grazie al ritratto della ragazza afghana. Ma non ha smesso di viaggiare. Ancor oggi si lancia in avventure sconsiderate, in zone di guerra. Perché?

«Suona banale dirlo, ma è per l’adrenalina. Mi eccita schivare le pallottole».

È pericoloso.
«Ma è anche il mestiere più bello del mondo. Lo faccio da 40 anni, non smetterei mai».

Fa più fatica, oggi?
«Al contrario. Con l’esperienza sono diventato più bravo. Forse perché sono basso: riesco a intrufolarmi dappertutto».

Deve passare inosservato?
«Sì. La prima volta che andai in Afghanistan, nel 1978, ero oggetto di una curiosità esotica. Tutti mi si affollavano attorno, curiosi per la mia attrezzatura».

Come fece?
«Aspettavo. La dote principale per un fotografo è saper aspettare. Quando la gente si abitua a me, posso cominciare a lavorare».

Dopo quanto tempo?
«Se sei fortunato, bastano quindici secondi per convincere una persona a regalarti la sua anima. Altrimenti, bisogna attendere che la guardia si abbassi».

E quando si è abbassata?
«Allora fa capolino l’essenza dell’anima, l’esperienza scolpita sul viso di una persona». 

Come fa a catturarla con un clic?
«Cerco di far capire cosa vuol dire essere quella persona. Una persona imprigionata in un paesaggio più ampio, cui si può dare il nome di “condizione umana”».

Qual è il suo posto preferito?
«L’India. Fotograficamente, è il Paese più affascinante del mondo. Non ce n’è un altro così ricco e vario per geografia e cultura».

Quante volte c’è stato?
«Circa 85. Mi piace il caos e la confusione di Bombay e Calcutta. Città pazze, quindi fantastiche per lavorarci. Ma tutta l’Asia è più ricca, visivamente, dei Paesi occidentali».

Perché?
«Perché lì la vita scorre per strada. Giocano, lavorano, mangiano, vivono all’aperto. Dove fa più freddo la gente si rintana dentro casa. E nelle città ricche la vita è troppo ordinata e organizzata per essere interessante».

In più, lei vuole la guerra.
«No. Le conseguenze della guerra. È importante che qualcuno le mostri, e che siano conosciute da tutti».

Wednesday, June 29, 2011

Basta spedizioni all'estero

LE MISSIONI MILITARI COSTANO TROPPO: DUE MILIARDI DI EURO ALL'ANNO. RADDOPPIATI RISPETTO AL 2007. ORA LA LEGA NORD VUOLE TAGLIARE, SPEZZANDO UN CONSENSO BIPARTISAN

di Mauro Suttora

Oggi, 22 giugno 2011

Soltanto quattro anni fa le spedizioni militari italiane all’estero ci costavano un miliardo di euro all’anno. Mille milioni non sono poco, in tempi di crisi per un Paese con 1.900 miliardi di deiti. «Ma dobbiamo mantenere gli impegni con la nostra alleanza», era il coro quasi unanime dei politici. Anche il Pd, infatti, ha sempre approvato i finanziamenti alle missioni di pace. Dopo l’uscita dal Parlamento di Rifondazione comunista nel 2008, votavano contro soltanto i dipietristi e i radicali di Marco Pannella. La Lega Nord mugugnava, ma alla fine diceva sì.

Adesso però si scopre che, fra una cosa e l’altra, i costi sono raddoppiati. Soprattutto negli ultimi tre mesi con la spedizione di Libia, il cui conto da solo ammonta a 600 milioni (compresa l’assistenza ai profughi). E la Lega punta i piedi: «Facciamo tornare i nostri ragazzi, basta spendere per i bombardamenti».

Non è antimilitarismo: tutti i politici, compresi il premier Silvio Berlusconi, il presidente Giorgio Napolitano e il ministro della Difesa Ignazio La Russa, quando qualche nostro ragazzo torna (sempre più spesso) cadavere dall’Afghanistan si chiedono quale sia il senso di queste missioni. Da anni tutti i sondaggi ripetono che la maggioranza degli italiani non le approva. Non c’è bisogno di essere leghisti, quindi, per interrogarsi sui loro costi umani e finanziari.

In Kosovo da 12 anni: un'eternità

«Se vogliamo mantenere uno status di media potenza internazionale, abbiamo dei doveri di presenza», dice a Oggi il generale Mauro Del Vecchio, ora senatore Pd. Comandante delle spedizioni in Kosovo dodici anni fa e in Afghanistan nel 2005, Del Vecchio spiega che sono già in corso riduzioni: «A Kabul, dopo il picco di 4.200 soldati raggiunto l’anno scorso, per quest’anno è previsto il ritiro di centinaia di militari, e la consegna del comando di Herat al governo locale. In Libano facciamo parte di un contingente Onu di 14 nazioni, siamo in 1.700 rispetto ai 3 mila iniziali, e la frontiera con Israele resta una zona calda. Anche in Kosovo c’è un programma di riduzione graduale».

Proprio il Kosovo, però, dove Del Vecchio e i nostri soldati furono accolti con applausi dalla popolazione locale nel lontano 1999, dimostra che le missioni durano troppo. Stesso discorso per l’Afghanistan: la Nato è lì da dieci anni, senza risolvere nulla. «Ma la soluzioni delle crisi sono sempre politiche», dice Del Vecchio, «noi militari seguiamo gli ordini».

Inutile Libano

Gli ordini sono ambigui anche in Libano: in teoria dovremmo impedire il riarmo degli hezbollah che minacciano Israele (e i libanesi cristiani e sunniti) per conto dell’Iran. Ma in pratica il contingente Onu non può fare nulla: solo segnalare movimenti sospetti all’esercito regolare libanese, notoriamente imbelle. Non è un mistero, inoltre, che la missione iniziò nel 2006 con l’allora ministro degli esteri Massimo D’Alema per «compensare» il ritiro dall’Iraq. «Inutile e superflua», liquida oggi la missione in Libano il ministro dell’Interno Roberto Maroni.

Più pessimista l’economista Giulio Sapelli, docente all’università di Milano: «Altro che missioni di “pace” in Libano e Kosovo. La vera grande minaccia per la pace mondiale è la Cina, che continua a essere una pericolosa dittatura comunista. E si sta riarmando per conquistare l’egemonia. Lo dico da uomo di sinistra, non condivido l’illusione del mio amico Prodi sulla democratizzazione di Pechino. Quel che spendiamo adesso per le forze armate rischia di essere poco rispetto a quel che ci costerà proteggere le vie di comunicazioni del nostro commercio ed export quando la Cina le minaccerà direttamente».
Mauro Suttora

Thursday, June 10, 2010

Yet

Washington Post
News Alert: General: Kandahar operation will take longer
07:47 AM Thursday, June 10, 2010

The top commander in the largely stalemated Afghanistan war acknowledged Thursday that a crucial campaign to secure the region of the country where the Taliban insurgency was born will take longer than planned because local Afghans do not yet welcome the military-run operation.

(it's all in that "yet"...)

Friday, September 05, 2008

Khalilzad presidente dell'Afghanistan?

L'ambasciatore Usa all'Onu vuole succedere a Karzai

Il Foglio, 3 settembre 2008

di Mauro Suttora

Quella di presidente dell’Afghanistan è una delle poltrone meno salubri del mondo. L’elegantissimo Hamid Karzai, che la occupa da sette anni, ha subìto finora quattro attentati. L’ultimo quattro mesi fa: un bambino di dieci anni e altre due persone sono state uccise al suo posto. “Presidente dell’Afghanistan”, poi, è una parola grossa. Per il territorio che realmente controlla, molti lo definiscono “sindaco di Kabul”.

Eppure c’è un uomo che non vede l’ora di partecipare alla prossima elezione presidenziale in Afghanistan. Si terrà cinque anni dopo la precedente, quella dell’ottobre 2004 che fu la prima democratica nei cinquemila anni di storia del Paese. Non si sa bene ancora quando. C’è stata una lunga disputa per fissare la data, d’altronde in Afghanistan si litiga su tutto. Le scorse elezioni erano costate tantissimo, 350 milioni di dollari donati dalla comunità internazionale, e dopo pochi mesi si rivotò per il Parlamento. Così i pragmatici hanno proposto di accorpare i prossimi voti, allungando di qualche mese il mandato di Karzai e accorciando di altrettanto quello dei parlamentari. Niente da fare, compromesso fallito. Si voterà quindi separatamente, cominciando con le presidenziali nella seconda metà del 2009. Poiché autunno e inverno sono stagioni proibitive nelle montagne afghane, al massimo all’inizio di ottobre.

L’uomo che già si scalda i muscoli per scalzare Karzai vive a Manhattan, ha 57 anni e si chiama Zalmay Khalilzad, confidenzialmente Zal. Da due anni è ambasciatore degli Stati Uniti all’Onu. Prima lo è stato per due anni in Iraq. Prima ancora, per due anni ambasciatore Usa in Afghanistan. Adesso, sta facendo imbestialire i suoi superiori al Dipartimento di Stato perché tutti si accorgono che si sta preparando al suo prossimo lavoro, invece di obbedire agli ordini dei tanti vicesegretari e sottosegretari che affollano il Foggy Bottom statunitense.

Fa bene Zal a mandarli a quel paese? Lui di Afghanistan ne sa più di tutti, semplicemente perché è afghano. Di etnia pashtun, come Karzai, anche se è nato nel nord, a Mazar i Sharif, mentre l’elegantissimo viene da una tribù altrettanto ricca ma meridionale, da Kandahar. I padri li spedirono entrambi a fare il liceo a Kabul, e loro non s’incrociarono solo per la differenza d’età, sei anni.

Zal nel ’67 finì in California, uno delle centinaia di “exchange student” dell’Afs (American Field Service). Un anno da senior nella high school della città di Modesto, nome agli antipodi della sua prorompente personalità. Ma invece di diventare figlio dei fiori e consigliare ai suoi coetanei californiani peace&love i migliori indirizzi dove procurarsi hashish afghano, Zal si è trasformato nel più militarista fra i falchi. Merito o colpa del leggendario professor Albert Wohlstetter dell’università di Chicago, che oltre a Zal ha covato Paul Wolfowitz e tutta una nidiata di futuri neocon.

Ora i neocon non vanno più di moda a Washington, e comunque in questi pochi mesi di residua presidenza Bush tutti gli alti gradi del Dipartimento di Stato stanno pensando al loro prossimo job. Molti faranno come fece Zal dal ’92 al 2000, durante l’era Clinton, e reperiranno qualche think tank da cui farsi mantenere. Lui, dopo aver servito sotto Dick Cheney e Wolfowitz nelle presidenze Reagan e Bush senior, non ebbe problemi a farsi dare un posto alla Rand Corporation, visto che era uno dei maggiori esperti di Afghanistan. Fu Zal per tutti gli anni Ottanta a coordinare gli aiuti militari Usa ai mujaheddin, che fecero impazzire gli occupanti sovietici.

Nessuno lo ha ancora superato negli Stati Uniti, come fine conoscitore dei meandri tribali afghani. Non si capisce quindi a quale titolo John Negroponte, suo predecessore sia all’Onu, sia all’ambasciata di Baghdad, e ora vice di Condi Rice allo State Department, gli faccia mandare umilianti e pubbliche e-mail di richiamo (in copia per conoscenza a New York Times e Washington Post) con l’accusa di condurre una “diplomazia personale”.
Certo, non è un mistero che da mesi i suoi amici afghani preparino per lui un comitato elettorale a Kabul. Raccolgono fondi, organizzano riunioni, li si può addirittura incontrare ogni giovedì a pranzo nell’hotel Serena. Karzai è furibondo.

D’altra parte, è sicuro che Zal da gennaio sarà disoccupato, perché né Obama né McCain rinnoveranno il mandato a uno che sul tavolo del suo alloggio all’hotel Waldorf-Astoria tiene come simpatico souvenir, invece della famosa pistola del predecessore John Bolton sulla scrivania dell’Onu, un fucile d’assalto AK-47 proveniente dall’arsenale di Saddam Hussein. Perché sono fatti così i neocon, ancora meno in auge nelle ultime settimane dopo i débordements del loro protegé georgiano Saakashvili: magari sbruffoni, ma adorabili viveurs capaci di perdere la presidenza della Banca Mondiale per un’amante (Wolfowitz), la rappresentanza alle Nazioni Unite per una battuta di troppo (Bolton), e adesso la guida dell’Afghanistan per una sfacciataggine eccessiva (Zal).

Dicono che Khalilzad stia antipatico a Negroponte ma simpatico a Condi, che il suo ex mentore Cheney non lo possa più sopportare ma che Bush in persona ne apprezzi ancora la personalità “larger than life”. Sicuramente più larga di quella del povero Andrew Young, il primo ambasciatore Usa di colore all’Onu nominato da Jimmy Carter, che perse il posto nel ’79 per lo stesso sgarro imputato a Zal: diplomazia “personale” e contatti allora vietatissimi con i palestinesi dell’Olp.

La verità è che Zal se ne fotte allegramente, della diplomazia. Se ne è sempre fottuto. Soprattutto di quella di carriera, dei frustrati del Dipartimento di Stato che pretendono di compilare dossier sull’Afghanistan sapendo solo quattro parole di pashtun. Ma anche dell’inutile macchina dell’Onu, che sta rendendo lui un frustrato, e che lo annoia profondamente. Lo scorso gennaio i burocrati dello “State” lo avevano perfino escluso dalla delegazione americana a Davos. Allora Zal è andato per conto suo in Svizzera, e ha fatto imbestialire tutti gli “assistant” e i “deputy” segretari di Stato partecipando a un dibattito con Manouchehr Mottaki, ministro degli Esteri iraniano. Lo hanno accusato quasi di intelligenza col nemico, lui che a ogni dibattito nel Palazzo di vetro si trova isolato nel chiedere inasprimenti delle sanzioni contro l’Iran.

Ma fin qui, le intemperanze di Zal sono passabili. La goccia che ha fatto traboccare il vaso, la scorsa settimana, è stata invece la rinnovata consuetudine con Asif Ali Zardari, vedovo di Benazir Bhutto e da mezzo mese candidato a succedere a Pervez Musharraf alla guida del Pakistan.

Anche qui, il fiuto di Zal è innegabile. Da dieci anni era diventato amico di Benazir e del suo discusso marito, cenando con loro a Londra, New York o Ginevra, e viaggiando con la coppia sull’aereo privato verso Aspen.
Scommessa riuscita, perché se Benazir non fosse stata falciata dall’attentato dello scorso dicembre, ora presidente del Pakistan sarebbe lei. «Ma gli Stati Uniti adesso sono neutrali nelle presidenziali pakistane, tu non puoi dare consigli e aiuti a Zardari», ha scritto tramite e-mail l’assistente segretario Richard Boucher a Zal. Così quest’ultimo ha dovuto annullare all’ultimo momento un incontro privato con Zardari a Dubai.

Insomma, per gli Stati Uniti il dilemma è: affidare posti di governo importanti a stranieri naturalizzati, capitalizzando la loro preziosa esperienza ma rischiando figuracce come quella con l’iracheno Ahmed Chalabi? Oppure vietare ai cittadini provenienti da una nazione di occuparsi del proprio Paese d’origine, come fanno le diplomazie britannica, australiana, canadese e neozelandese?

Zal è un seduttore nato, e all’Onu ha affascinato molti: “Ci consulta sempre, non è il solito americano aggressivo”, lo loda l’ambasciatore sudafricano. Ma quelli americani in Afghanistan, Pakistan e Iraq lo detestano, perché si sentono scavalcati da questo afghano elegante e brillante: parla troppe lingue misteriose a loro sconosciute. E non capiscono bene quanto sia intelligente, o furbo, o leale. E a chi.

Mauro Suttora