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Friday, November 07, 2008

"Obama? Carino"

L'America che non vota

"Il nuovo presidente? E' un mulatto carino"

Libero, venerdì 7 novembre 2008

di Mauro Suttora

«He looks kinda nice, though…»: con l’indifferenza di chi viene solo annoiata dalla politica, la mia ex fidanzata americana Marsha commenta l’elezione di Obama. «Però è carino»: è questo il giudizio più profondo che riesco a strapparle sul suo nuovo presidente.

Marsha, 34 anni, ex modella, stilista in erba, vive a Manhattan e in questi giorni ha ben altro a cui pensare: sta organizzando la sua prima sfilata d’autunno nel Connecticut. Sono passato a salutarla per Halloween, e lei mi ha portato nelle tre feste cui era invitata quella sera. Ora sta con uno del cinema («Un cameraman: sei come Julia Roberts», la prendo in giro), ma lui è a Los Angeles e lei continua a vivere sola nel monolocale «alcova» di un grattacielo dell’Upper East Side.
«Alcova» non ha niente di lussurioso: semplicemente, a New York chiamano così i monolocali con la pianta a elle, che permettono il «lusso» di non vedere subito il letto dalla porta d’entrata.

Marsha non ha mai votato in vita sua. Come quattro statunitensi adulti su dieci se ne frega allegramente della politica.
«Ma questo è un voto storico, no?», obietto.
«E perché?»
«Un nero, per la prima volta…»
«Veramente non è un nero vero, sua madre era bianca, no?»
«Vabbè, un mulatto, ma è proprio questa la grandezza dell’America».
«Grandezza, grandezza… Sei sempre innamorato dell’America, eh, Mauro?» Marsha mi ha sempre accusato di essermi messo con lei per questo, e non perché fossi innamorato di lei.
«Beh, non capita tutti i giorni che il figlio di un pastore di capre del Kenya e di una signorina del Kansas incontrata per caso a Honolulu diventi l’uomo più potente del mondo».
«Anch’io sono un miscuglio pazzesco, Mauro: un quarto irlandese, un quarto tedesca, un quarto italiana, solo un quarto americana di due generazioni».
«Obama è cresciuto in Indonesia, poi alle Hawaii, poi università a Los Angeles, New York, Boston… Sta a Chicago ma ha una nonnastra a Nairobi e una sorellastra a Giakarta. Non eri tu che lamenti sempre quanto siano provinciali i tuoi compatrioti, che otto su dieci non sono mai stati all’estero. Ecco Obama, un cittadino del mondo!»
«Come on, io sono nata a Filadelfia, università a Nashville e Firenze, abito a New York, ho lavorato a Roma, mio padre sta in Florida, mia mamma in New Jersey e le mie sorelle dall’altra parte del continente, in California e a Seattle. Tutti gli americani sono dei “bastardi” vagabondi».
«Quindi non voti neppure questa volta?»
«Troppa fatica. Non sono neanche registrata. Non saprei da dove cominciare. E poi troppe code, io ho da fare».
«Però eri bushiana».
«Ha fatto bene a combattere quei maledetti terroristi».
«Saddam non era di Al Qaeda».
«Che noia, Mauro. Ricominciamo?»
«Ammetti almeno che la guerra in Iraq è stata un errore».
«Boh. Tu, piuttosto, vai sempre a quelle cose contro la pena di morte? Ti ricordi?» (Incontrai Marsha cinque anni fa a un concerto all’Onu contro le esecuzioni capitali).
«Certo, e mi ricordo anche la tua opinione al riguardo: “Chi la fa l’aspetti, se uccidi è giusto che ti uccidano”…»
«Lo penso sempre, my dear».
«Incredibile che una donna fine e coltivata come te, laureata con tesi su Derrida, sia rimasta alla legge del taglione».
«Mauro, è Halloween, non litighiamo: let’s have fun, divertiamoci».

In realtà Marsha di questi tempi non si diverte molto: mi ha confessato di essere in rosso di 15 mila dollari con la sua carta di credito: «Passo il tempo a ristrutturare, rifinanziare e rinegoziare il mio debito. Se al mio prossimo trunk show [vendita privata di vestiti, ndr] non vendo abbastanza, non so neppure se mi conviene continuare a pagare duemila dollari al mese d’affitto qui a Manhattan. Dovrò trasferirmi a Brooklyn, o condividere un appartamento».

Facciamo il giro delle sue tre feste di Halloween. All’ultima, in una discoteca sulla Quinta Avenue, appena entrato corro nei bagni per la pipì. Mi ritrovo in una calca enorme, circondato da ragazze alte e bellissime. Penso di essermi sbagliato, forse ho bevuto troppo. «Ma è il bagno delle donne?», domando alla mia bionda vicina. «No, but we share», mi sorride lei, alitandomi alcol sul viso da cinque centimetri. No, ma condividiamo. L’era Obama è iniziata, ci sarà anche la crisi. Ma New York è sempre New York.

Mauro Suttora

Thursday, March 27, 2008

intervista a Michela Quattrociocche

Michela Quattrociocche, la diva del momento, si racconta in un diario

SCUSA MA TI CHIAMO BRANCIAMORE

«Ho conosciuto Matteo, il mio principe azzurro, lo stesso giorno in cui ho avuto la parte nel film di Moccia», dice Michela. «E in nove mesi si sono avverati tutti i miei sogni»

di Mauro Suttora

Roma, 26 marzo 2008

'Scusa ma ti chiamo amore' di Federico Moccia, in cui è protagonista con Raoul Bova, è il film italiano più visto del 2008. Ha incassato 14 milioni di euro: il doppio di Silvio Muccino, il triplo di Nanni Moretti. Solo Carlo Verdone sta andando meglio. Ma la reginetta degli incassi, la debuttante Michela Quattrociocche, resta con i piedi per terra: «Sto studiando recitazione. A settembre mi iscrivo all’università, Scienze della comunicazione», dice mentre posa per le foto.

Ha scritto un libro: 'Più dei sogni miei' (Mondadori). È il racconto degli ultimi nove mesi della sua vita. Dal 21 giugno 2007, quando, appena finito lo scritto di maturità, le squilla il cellulare: la parte è sua. È una data magica, perché la sera Michela conosce per caso l’amore della sua vita: Matteo Branciamore. Coincidenza delle coincidenze, anche Teo fa l’attore, ne 'I Cesaroni'.

Il libro di Michela è la cronaca della loro storia, finora tenuta abbastanza nascosta. E lei confessa addirittura: «Se non avessi conosciuto l’amore attraverso di lui, forse non sarei stata in grado di interpretarlo nel film». All’inizio lui la conquista con questa frase: «Ho letto la biografia di Kakà. Mi piace perché è di sani principi, con la moglie si sono scelti davvero». E lei scrive: «Sono incredula. È strano sentir parlare un ragazzo così... ascoltare da lui cose che penso io. Le penso e non le dico, sennò mi rimproverano di essere all’antica... Ebbene sì. Credo nell’amore, nel matrimonio e sono fedele. Allora? A me non interessa “fare esperienze prima di fidanzarmi”, come si dice. Non mi frega di girare di ragazzo in ragazzo».

Insomma, altro che «mocciosa» (così sono soprannominate le giovani della generazione Moccia): Michela è una puritana. Teo le piace perché non le fa la corte: «Non fa il provolone, non fa il piacione e non mi fa i complimenti». E neppure la tocca: «È meraviglioso», annota, «dev’essere speciale uno per farmi stare zitta, in macchina, di notte, senza saltarmi addosso... Li riconosco quelli che ammucchiano le parole per riempire il tempo, prima di partire all’attacco. Odio chi ti rimorchia senza provare a conoscerti».

Nuovo appuntamento, arrivano le cinque del mattino. «Qualsiasi cosa diversa da un bacio ora sarebbe fuori luogo», ammette Miky. Lui si limita a sussurrarle all’orecchio una frase romantica: «È stato surreale, ma bello».
«La riconosco, è la frase che Hugh Grant dice a Julia Roberts in Notting Hill. Svengo. Resto in piedi per orgoglio. Mi rimanda a casa senza toccarmi. Per la prima volta qualcuno mi rispetta. Stiamo cuocendo a fuoco lento ed è stupendo». Risultato: da un mese Miky e Teo sono andati a vivere assieme. «Sono felicisssima, anche se ora litighiamo un po’ di più», dice lei.
Ecco uno degli ultimi capitoli del libro, in cui Michela annuncia a mamma e papà che andrà a convivere col fidanzato.

M.S.

IL CANTO DELLE SIRENE

Se il film non va, fa niente. Ammetto che è tostissima allontanarsene, è come una droga: una volta provato non puoi più farne a meno. Se pensi a quale mestiere vorresti fare dopo avere girato un film, ti fa schifo tutto, è tutto privo di magia. Sei rintontito, svuotato. Non so a cosa paragonarlo (...). L’idea che il cinema diventi il tuo lavoro è talmente ammaliante che cancella tutto il resto. È il canto delle sirene, e d’istinto ti ci butteresti a capofitto (...). Sto aspettando che torni a pranzo mamma per dirle che andrò a convivere con Teo. Adesso sì che sono tesa. E non solo perché non ho idea di quale sarà la sua reazione. Dal momento che lo dico, lo dico sul serio. Non torno indietro. Significa rinunciare a essere viziata e rimboccarmi le maniche. È un passo da gigante (...). È più difficile di quanto pensassi. Lei sa tutto di me. Anzi lei sa più cose di me di quante ne sappia io. Se ho un dubbio nascosto in qualche angolo del cuore, me lo tira fuori in un secondo.

Di questo ho paura. Affrontarla è come affrontare me stessa, e temo di scoprire che non sono per niente sicura di quello che sto facendo. Spostiamo il centrotavola, apparecchiamo, nonna ha preparato i tortellini.
«Mami, ti ricordi l’attico meraviglioso che dovevano prendere Alessia e Luca?». Con lei è inutile girarci troppo intorno, tanto ti ferma al secondo giro.
«Sì». «Ci andiamo a vivere io e Teo». Sulla frase ci metto pure una faccia di supplica che mi esce spontanea. Supplica di non arrabbiarsi, di non dirmi quello che pensa in fondo in fondo.
«Così impari a fare qualcosa per casa, almeno», dice seria. Poi scoppia in una risata fragorosa (...) e mi viene ad abbracciare.

al ristorante con papà

Adesso tocca dirlo a papà. Sostiene che lui, come il padre di Niki, non giudicherebbe Alex dall’età, ma lo vorrebbe prima conoscere e, se scoprisse che i suoi sentimenti sono veri, lo accetterebbe (...). Voglio proprio vedere se accetta i sentimenti di me e Teo. Gli ho dato un appuntamento al ristorante. Arriva, col suo pizzetto grigio e il maglione a V viola, il sorrisetto storto di chi si aspetta l’ennesimo tiro mancino. Ho passato il primo test. Sono pronta.
«Papy, è vero che reagirai bene?». «Non mi freghi più». «Giuro che devo dirti una cosa vera». «Ti vedo strana, infatti. O è vera o sei diventata una bravissima attrice». «Vado a convivere con Teo».

Gli va di traverso l’acqua. Fissa la tovaglia, poi comincia a disegnare nel vuoto piccoli cerchi con il bicchiere. Non so capire se è un buon segno. «E dove?». Intanto non gli sono usciti gli occhi di fuori, ed è già una cosa. Le domande sono un’arma a doppio taglio. A seconda delle mie risposte deciderà se è d’accordo o meno. «In quell’attico che doveva prendere Alessia (...)». «E quando?». «Entriamo il 14 febbraio, San Valentino, pensa che coincidenza». «Sono contento per te. Ti vedo presa». «Innamorata papà, non presa. Innamorata». «Va bene, va bene. È giusto. Io credo nell’amore». «Ah sì? E credi pure nel matrimonio?». Mi pento subito. Gliel’ho detto con rancore. Ogni tanto mi escono rigurgiti della loro separazione. Non posso farci niente. «Il fatto che il mio non abbia funzionato non significa non crederci più». «Allora sei d’accordo?». «Basta che ogni tanto mi inviti e non sparisci».
È fatta.

© 2008 Arnoldo Mondadori Editore

Sunday, March 04, 2001

Il ritorno delle ciccione

Net.tv, marzo 2001

di Mauro Suttora

Si chiama Sophie Dahl, ed è la nuova donna immagine del profumo Opium di Yves Saint Laurent. Americana, 23 anni, alta un metro e 80, taglia 48, incanta il mondo tutta nuda e burrosa, con la sua pelle bianco latte e gli occhi chiusi nell’estasi. La supera Barbara, 24 anni, taglia 52: di reggiseno porta la settima misura, e ha posato per il calendario 2001 di Elena Mirò, la linea di moda del gruppo Miroglio destinata alle taglie forti, che fa concorrenza a Max Mara e a Marina Rinaldi.

Poi c’è Ali Stuhlreyer, la grassa modella che è stata immortalata in copertina poche settimane fa da «Amica»: lo sciccoso settimanale ha dedicato un intero numero al «sovrappeso è bello», così come il supplemento femminile «D di Repubblica». Quanto a Kate Moss, un tempo magra da far paura, ultimamente ha mostrato fianchi insolitamente tondi sfilando in costume per Gucci.

Megan Gale, infine: sì, la più concupita dagli italiani è in realtà pure lei bella pienotta, con gambe muscolose (ammirabili mentre si arrampica sulla torre dell’ultimo spot Omnitel) e curve pronunciate, che a ogni sfilata fanno inorridire gli ultimi stilisti rimasti schiavi del mito dell’anoressica. Per non parlare di Gwyneth Paltrow, la secca attrice che nel suo ultimo film si fa ingrassare fino a 150 chili dal computer.

Insomma, grasso è di nuovo bello? E, comunque, sta tramontando l’era delle modelle magrissime, visto che di anoressia lle nostre adolescenti cominciano perfino a morire?
«Andiamoci piano», risponde Gabriella Galluccio Canevari, giornalista di Amica, «perché anche alle ultime sfilate di Milano, Parigi e New York la media delle modelle era, ancora e sempre, sulla misura grissino. È vera piuttosto un’altra cosa: che mentre un tempo la ciccia era completamente out, oggi rappresenta un’alternativa accettabile e presentabile».

E perfino simpatica: anche perché, diciamolo francamente, al di là dei modelli (e delle modelle) imposti dall’industria della moda e dai gusti sovente omosex (e quindi sottilmente ginofobi) degli stilisti, nella realtà di tutti i giorni il trionfo delle maggiorate non è mai cessato. Al cinema, per esempio, sono sempre loro a dettar legge. E non soltanto in Italia, con le sue più che paffute Valeria Marini e Sabrina Ferilli, o con le pettoralmente superdotate Maria Grazia Cucinotta, Manuela Arcuri e Anna Falchi, ma anche nella Francia della quasi omonima di Sophie Dahl, Béatrice Dalle, nell’Inghilterra di Elizabeth Hurley dai garretti sostanziosi, e negli Stati Uniti delle quadratissime Cameron Diaz e Sandra Bullock.

Ma prendiamo anche la più divina e conturbante, Sharon Stone: le avete mai guardato attentamente le gambe? Non assomigliano a quelle di un onesto centromediano di spinta? Nicole Kidman è in perenne lotta con la dieta. Quanto a Kate Winslet, prima e dopo «Titanic» è tutta un tripudio di rotolini.

A difendere lo stendardo del clangore di ossa sembra rimasta soltanto Julia Roberts: per il resto, se non si può dire che il muscolo più o meno flaccido faccia tendenza, certo ha conquistato tolleranza. E quindi, care donne, non angustiatevi più di tanto con le consuete diete primaverili: può darsi che la verità stia nel titolo dell’ultimo libro scritto da Richard Klein per Feltrinelli: «È tutto grasso che vola».