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Wednesday, August 25, 2021

Montanari, De Pasquale e le piccole bizze agostane tra comunisti e fascisti

di Mauro Suttora

HuffPost , 25 agosto 2021

Poiché fascisti e comunisti si sostengono a vicenda, a destra ora chiedono le dimissioni da rettore dell’Università per stranieri di Siena di Tomaso Montanari, stimato professore di estrema sinistra. Assurdo.

Per lui, come per tutti, vale la competenza professionale nella propria materia, indipendentemente dalle idee politiche personali. La destra protesta perché Montanari pretende la revoca della nomina di Andrea De Pasquale a direttore dell’Archivio centrale dello Stato. 

La ‘colpa’ di De Pasquale? Avere accettato la donazione dell’Archivio Rauti alla Biblioteca Nazionale che dirige. E averla annunciata con un comunicato apparso per qualche ora sul sito del ministero, che definiva “statista” Rauti. 

Il ministro della Cultura Franceschini, che ha nominato De Pasquale, lo difende spiegando che il comunicato, evidentemente stilato dalla famiglia Rauti e quindi agiografico, fu inserito per sbaglio (pigrizia?) da un funzionario, e che De Pasquale si scusò subito per il disguido. 

Franceschini inoltre loda De Pasquale per avere acquisito anche altri archivi personali, come quelli di Pasolini, Elsa Morante e Calvino. Niente da fare. Montanari insiste, e oggi sul Fatto annuncia le proprie dimissioni dal Consiglio Superiore dei Beni Culturali, insultando Franceschini. 

“Montanari se n’è ghiuto, e soli ci ha lasciato”: così si potrebbe liquidare l’episodio, come Togliatti quando Elio Vittorini, 70 anni fa, stracciò la tessera Pci. Ma il rettore di Siena insiste. Inserisce la nomina del povero De Pasquale in una più ampia ‘manovra’ di rivalutazione del fascismo. Che avrebbe come suo acme l’istituzione del Giorno del ricordo per l’esodo di 300mila istriani e dalmati e per le foibe. 

E qui scatta il riduzionista. Montanari infatti accusa niente meno che il presidente Mattarella di avere esagerato, in un suo discorso del 2020, l’importanza degli infoibati: “Erano solo 800”. Peccato che tutti gli storici seri concordino in stime sui 4-8mila. Poi gli rimprovera di aver definito l’esodo “pulizia etnica”: secondo Montanari la fuga del 90% degli abitanti di Fiume, Pola e Zara non lo fu? Ci voleva una percentuale maggiore? E come reagirebbero gli ebrei se qualche negazionista riducesse a un decimo, 600mila, le vittime dell’Olocausto?

In ogni caso, fra i 300mila profughi istriano-dalmati c’era la stessa percentuale di fascisti che nel resto d’Italia. Quindi non si capisce perché il prof si scandalizzi per il Giorno del Ricordo, che non si contrappone ma si aggiunge a quello della Memoria (per la Shoah), e infatti nel 2004 fu votato dall’unanimità del Parlamento (tranne Rifondazione comunista, ma con l’astensione di Bertinotti).

Si dirà: la solita tempesta in un bicchier d’acqua agostana della politichetta italiana. Vero. Ma fino a quando daremo importanza alle faziosità di opposti estremismi che valgono al massimo il 3% ciascuno? Perché tanti sono coloro che si definiscono fascisti o comunisti oggi in Italia. 

Per l’ottimo Montanari, poi, un’aggravante: Togliatti avrebbe subito liquidato questo suo imbizzarrimento odierno come ‘settarismo’. Vizio capitale del comunismo.

Mauro Suttora 

Thursday, March 27, 2008

intervista ad Alfonso Pecoraro Scanio

IN PUGLIA COSTRUIRO' UNA CENTRALE SOLARE

«Progettata dal Nobel Rubbia, è l’alternativa al nucleare», assicura il ministro dell’Ambiente. E, pressato sullo scandalo rifiuti in Campania, svicola: «Preferisco parlare della crisi dei salari»

dal nostro inviato Mauro Suttora

Taranto, 26 marzo 2008

Uno dei ministri più contestati d’Italia arriva in una delle città più inquinate d’Europa e indebitate del mondo. Alfonso Pecoraro Scanio, fondatore dei Verdi, ministro dell’Agricoltura fino al 2001 e oggi dell’Ambiente, è stato invitato a cena a Taranto dalla famiglia del viticoltore Gianfranco Fino.

La casa dei Fino sta in una bella zona di quella che, con i suoi 200 mila abitanti, è la terza città del Sud (Sicilia esclusa), dopo Napoli e Bari: la frazione Lama, in riva al mare. Qui tutte le vie portano nomi di fiori, e in questa primavera precoce già si sentono i loro profumi.

«Ma le acciaierie Ilva, il petrolchimico e la zona industriale producono il nove per cento della diossina e il dieci per cento del monossido di carbonio di tutta Europa», accusa la signora Simona Natale, moglie di Gianfranco. Le statistiche dicono anche che negli ultimi trent’anni i tumori sono raddoppiati: ora sono tre al giorno i tarantini che muoiono di cancro.

Disastro ecologico

L’Ilva (la ex Italsider passata tredici anni fa al gruppo privato Riva) è la più grande acciaieria d’Italia. I suoi impianti si vedono da molti chilometri di distanza. «Negli ultimi anni abbiamo ridotto le emissioni di diossina del 40 per cento, dopo aver chiuso un impianto», si vantano all’Ilva. Ma è tutta la zona industriale a rovinare il menù delle greggi di pecore e capre che pascolano nei verdissimi prati accanto alle ciminiere. «A Taranto sono arrivate 1.800 tonnellate di Pcb cancerogeno da Brescia», accusano i combattivi Verdi locali, che hanno fatto analizzare i formaggi del luogo trovando un po’ di diossina pure lì dentro.

Insomma, ministro, ci potrà mai essere uno «sviluppo ecosostenibile» in una zona come la nostra?

Alla domanda della signora Fino il ministro Pecoraro risponde tranquillo: «Certo. Oggi esistono tutte le tecnologie per ridurre al minimo l’inquinamento. Le emissioni di sostanze nocive devono essere abbattute, e il governo sostiene quelle che lo fanno. Anche perché non si possono chiudere dall’oggi al domani stabilimenti che a Taranto danno da mangiare a tredicimila famiglie. Quindi il lavoro e l’ambiente non sono in alternativa: bisogna salvaguardare sia il primo, sia il secondo».

Lei la fa facile, ma ora Ilva ed Enipower vogliono costruire due nuove centrali, e in più si progetta un rigassificatore. Sarebbe questo lo «sviluppo ecosostenibile»?

«La mia risposta è chiara e semplice: no. A Napoli siamo riusciti a riqualificare l’ex zona industriale di Bagnoli. All’inizio ci criticavano tutti, ma dopo una bonifica fra le più gigantesche d’Europa ci siamo riusciti. Ripeto: non si può pensare di eliminare certe produzioni. Ma, coinvolgendo i sindacati, dobbiamo proteggere la salute senza mettere a rischio il lavoro».

Pecoraro Scanio è capolista della Sinistra arcobaleno in Puglia. I suoi Verdi si sono uniti a Rifondazione comunista, ai Comunisti italiani di Oliviero Diliberto e agli ex Ds Cesare Salvi e Fabio Mussi. Ne è nata una coalizione che sta a sinistra del Pd (il neonato Partito democratico di Ds e Margherita), e candida premier Fausto Bertinotti.

«Qui in Puglia abbiamo anche il presidente Nichi Vendola», dice Pecoraro, «che governa senza problemi in coalizione con il Pd. È un peccato che a sinistra si sia verificata questa frattura. Io la trovo innaturale, e dopo il voto farò di tutto per ricomporla. Altrimenti consegniamo il Paese a Silvio Berlusconi».

Ma allora perché vi siete messi con l’estrema sinistra?
«È stato il Pd a rifiutarci, noi avremmo voluto rimanere alleati. Certo che, su certe cose per noi fondamentali come il nucleare, non potevamo cedere».

Ecco, il nucleare: siamo circondati da centrali atomiche, in Slovenia e in Francia. Perché ostinarsi a rimanere senza?
«Il fatto che ne abbiano gli altri non è un buon motivo per costruirle noi. E comunque i danni, in caso d’incidente, si subiscono in proporzione alla distanza: più si viveva vicino a Chernobil, più le conseguenze sono state tremende. Il Pd oggi parla di “nucleare di quarta generazione” ma, come dice il Nobel Rubbia, anche quello è radioattivo. Il problema delle scorie non è stato risolto. E comunque il nucleare non è conveniente dal punto di vista economico. Per costruire una centrale ci vogliono 15 anni e costi immensi».

Signora Fino: «Però siete contrari anche all’eolico. A me invece, chissà perché, quei mulini a vento moderni, così alti, piacciono esteticamente».
«Alcuni impianti si possono fare. Però non dobbiamo installare torri gigantesche proprio sulle rotte degli uccelli migratori, che vengono sterminati dalle pale. L’Europa ci condannerebbe».

L’unica alternativa

Non resta che il solare?
«Quella è la vera alternativa, e sempre secondo Rubbia è proprio la Puglia la regione d’Italia più vocata per ospitare pannelli e centrali. Perché è al Sud, ha un sacco di sole, ma anche perché è pianeggiante. Come l’Andalusia in Spagna. Rubbia ha progettato una centrale solare termodinamica, con specchi che concentrano l’energia e conservano il calore anche di notte, a temperature di 500 gradi. Le stesse che ci vogliono per produrre elettricità con carbone, gasolio o nucleare. Ho stanziato venti milioni di euro per il prototipo».

Prende la parola Gianfranco, il marito viticoltore. Il suo cruccio è la burocrazia.
Signor ministro, non le sembra che le procedure burocratiche siano da alleggerire? Perché una piccola impresa deve sottoporsi a due Via (Valutazioni d’impatto ambientale), una regionale e una nazionale, e poi all’Aia (Autorizzazione integrata ambientale), mentre in tutti i Paesi d’Europa la procedura è unica? Io stesso non posso permettermi un ragioniere a tempo pieno, così la burocrazia mi obbliga a passare la metà del mio tempo fra le carte. E non riesco a curare la parte commerciale, che è importante quanto quella produttiva.

«Francamente, non posso che darle ragione. Mea culpa. I controlli ci vogliono, soprattutto nel settore enogastronomico dove è fondamentale garantire la qualità. Ma non devono trasformarsi in vessazioni, moltiplicandosi all’infinito».

Una domanda la vuole porre il padre di Gianfranco, Vito Fino, pensionato.
Le pensioni. Perché non rivalutarle assieme ai rinnovi contrattuali, invece dell’attuale meccanismo che non copre tutta l’inflazione, e fa perdere la metà del potere d’acquisto in pochi anni?

«Guardi, sono tre le categorie che vogliamo proteggere: pensionati, precari e salariati. Tutti devono tornare ad avere un reddito decente. Se loro in questi anni hanno perso potere d’acquisto, evidentemente altre categorie ci hanno guadagnato, perché nel suo complesso l’Italia non si è impoverita. La verità è che c’è stato uno spostamento di reddito in favore della speculazione finanziaria e delle grandi rendite parassitarie, a danno degli introiti da lavoro dipendente. E non lo dico io, ma le statistiche dell’Ocse».

Qui a Taranto abbiamo un negozio della Coldiretti dove gli agricoltori vendono i loro prodotti direttamente ai consumatori. Non si può ampliare questa esperienza?
«Assolutamente sì. Ogni Comune d’Italia deve offrire almeno un negozio dove i produttori incontrano i consumatori. Così i prezzi si possono abbassare dal 30 al 50 per cento».

Per la verità rispetto a certi mercati rionali i prezzi non sono così bassi.
«La Coldiretti dice il contrario, ma mi informerò».

Riprende la parola la signora Fino: Pd e Sinistra arcobaleno si contendono come candidati gli operai della Thyssen Krupp di Torino. Anche all’Ilva di Taranto ci sono stati morti sul lavoro, ma nessuno ha mai pensato a loro.

«Non si risolve il problema della sicurezza sul lavoro candidando qualche operaio sopravvissuto, così come non si risolve il precariato facendo eleggere un precario, e non si ottengono diritti per le coppie di fatto trasformando qualche omosessuale in deputato. Berlusconi ha inaugurato la politica spettacolo, ma noi non dobbiamo andargli appresso. Non si risponde alla candidatura di un generale con un altro generale, a un industriale con un industriale, a una donna con un’altra donna...».

Record mondiale di debiti

Taranto «vanta» un record mondiale: due anni fa il Comune ha dovuto dichiarare bancarotta con un debito di 637 milioni. Il più alto del pianeta, dopo quello di Seattle (Stati Uniti). Un anno fa è stato eletto sindaco a furor di popolo (71 per cento dei voti) il pediatra Ippazio Stefàno, della Sinistra democratica di Salvi e Mussi (ora alleati di Pecoraro). Stefàno ha subito rinunciato allo stipendio e dimezzato quello di assessori e consiglieri. Ma le resistenze sono molte: quattro mesi fa ha dovuto licenziare il vicesindaco. E i creditori del Comune alla fine non incasseranno più della metà delle somme loro dovute.
Qui l’ex sindaco fu condannata per un inceneritore...

Ministro, vogliamo parlare un po’ di spazzatura?
Pecoraro si sistema sulla sedia, deglutisce e risponde scherzoso (ma non troppo): «Preferirei di no, perché guastare questo buon clima conviviale? Comunque, nei paesi della Campania dove viene fatta la raccolta differenziata, il problema non esiste».

Mauro Suttora

Friday, July 27, 2001

G8 di Genova: parla Vittorio Agnoletto

IL CAPO DEI NOGLOBAL SPIEGA COS'E' SUCCESSO NEGLI SCONTRI CHE HANNO PROVOCATO LA MORTE DI CARLO GIULIANI

di Mauro Suttora

Oggi, 27 luglio 2001
                      
Vittorio Agnoletto è tornato a casa. Il capo dei contestatori di Genova ha lasciato il capoluogo ligure dopo il funerale di Carlo Giuliani, il 23enne morto durante gli scontri, ed è approdato a Cesano Maderno (Milano), nella sua Lombardia, per tenere un comizio alla festa di Rifondazione comunista della Brianza. Qui lo incontriamo.

Agnoletto, 43 anni, è diventato famoso nell’ultimo mese come portavoce del Genoa Social Forum (Gsf), la coalizione che ha organizzato le proteste contro il vertice dei G8, gli otto Grandi che governano gli Stati più industrializzati della Terra.

Adesso è nell’occhio del ciclone: accusato dalla destra di avere tollerato, se non addirittura fomentato, gli incidenti, e invece osannato a sinistra come l’artefice di un corteo che ha fatto scendere in piazza ben 250mila persone contro il governo di Silvio Berlusconi.

«Ma io sono diventato portavoce del Gsf quasi per caso», si schermisce lui, «soltanto perché a un certo punto dovevamo nominare una delegazione che incontrasse il ministro degli Interni e il capo della Polizia. Al Gsf aderiscono un migliaio di associazioni, di cui 400 straniere: erano stati fatti una decina di nomi, dovevamo ridurli, alla fine uno si alza proponendo il mio nome. E tutti si sono trovati d’accordo».

Non è un mistero che gli «antiglobalizzatori» siano diversissimi fra loro: si va dai comunisti ai cattolici, dalle Tute bianche dei centri sociali ai ragazzi degli oratori, dall’Arci a Pax Christi. 
«Sì, ma contrariamente a quello che succede quasi sempre in Italia, e cioè che basta essere in quattro per non trovarsi più d’accordo e cominciare a litigare, fin dall’inizio nel Social Forum si è creata un’atmosfera di collaborazione, in cui nessuno ha mai preteso di fare il primo della classe».

Anche dopo la battaglia di Genova? 
«Sì. Anche in questi ultimi giorni nessuna delle organizzazioni si è dissociata. Anzi, proprio oggi Pax Christi ha riconfermato la sua adesione. D’altra parte, fra noi c’è sempre stata molta chiarezza sul rifiuto della violenza».

E allora perché sono state spaccate vetrine, lanciate bottiglie molotov, bruciate auto, attaccati poliziotti? 
«Questo lo ha fatto chi non aderiva al Gsf. Come le cosiddette Tute nere del Black block. Noi abbiamo sempre detto che avremmo praticato la disubbidienza civile a mani nude, e così abbiamo fatto. Quei gruppi, invece, hanno attaccato sia noi che la polizia. I Cobas, per esempio, che si dovevano trovare in piazza Da Novi, quando sono arrivati lì hanno trovato le Tute nere. Allora, proprio per non mischiarsi, se ne sono andati verso piazza Tommaseo. Ma appena si sono mossi la polizia li ha caricati. Loro, non le Tute nere».

Però durante il blitz notturno nel vostro quartier generale sono state trovate bottiglie incendiarie, roncole, coltelli e armi improprie. 
«Su questo voglio fare chiarezza. Ci avevano dato due scuole, una di fronte all’altra. In una c’eravamo noi del Gsf, con l’ufficio stampa, l’ufficio legale, l’assistenza medica. L’altra era per le Ong, le Organizzazioni non governative aderenti al Gsf. Poi però, nei giorni precedenti al vertice, ha piovuto, cosicché abbiamo trasformato la seconda scuola in dormitorio per i manifestanti senza tenda che erano scappati dagli stadi».

Quindi lei non smentisce la polizia, sull’effettiva presenza di violenti nella scuola. 
«Non potevamo chiedere la carta d’identità a tutti quelli che entravano. Ma l’ultima notte sono stati i poliziotti a comportarsi in modo indegno, massacrando ragazzi che dormivano in sacco a pelo. Ai parlamentari che chiedevano di assistere alle perquisizioni mostrando i tesserini, è stato risposto “ficcateveli in quel posto”. Scene di tipo cileno».

Però alcune strade di Genova erano state devastate dalla guerriglia urbana. 
«Perché le forze dell’ordine non hanno bloccato i violenti? Abbiamo filmati in cui si vedono addirittura alcune Tute nere fermarsi tranquillamente a parlare con dei poliziotti. Avevamo noi stessi segnalato alla Questura l’arrivo di frange estremiste da Bologna, e ci avevano detto che era tutto sotto controllo».

Ma i vostri slogan non erano esattamente nonviolenti: anche voi gridavate “Poliziotti assassini!”. 
«Questo è successo dopo l’assassinio di Carlo Giuliani. Ma le nostre parole d’ordine erano ben altre».

E quali erano? 
«Il radicale dissenso contro le politiche internazionali dei Paesi più ricchi. Il G8, forte solo della propria potenza e arroganza, è il simbolo di un sistema di governo non democratico che privatizza gli utili, socializza le perdite e globalizza le ingiustizie».

Slogan a parte, in concreto cosa volete? 
«Per esempio, che il neoliberismo non costringa miliardi di persone a vivere con un dollaro al giorno. Che i farmaci per curare l’Aids siano venduti a prezzi accessibili anche nel Terzo mondo, e non sottoposti all’esosità di multinazionali che ne detengono i brevetti per vent’anni. O che gli Stati Uniti, produttori da soli del venti per cento dell’inquinamento mondiale, accettino gli accordi di Kyoto...»

Agnoletto è un fiume in piena. D’altra parte, è uno abituato a far politica da trent’anni, cioè da quando entrò al liceo Berchet di Milano, lo stesso dove studiava Gad Lerner. 
«Ma allora lui era un estremista di Lotta Continua, mentre io ero considerato un moderato perché stavo nel Pdup, il Partito di unità proletaria di Vittorio Foa».

Un’altra differenza con Lerner è che il futuro direttore del TgUno (oggi a La Sette, dove ha invitato Agnoletto a molti dibattiti) non studiava granché, mentre il futuro capo dei noglobal pigliava tutti otto e nove.

Secchione, Agnoletto proviene dalla solida borghesia milanese. Famiglia di medici e avvocati, fra i quali il padre del codice di procedura penale Giandomenico Pisapia, il cui figlio Giuliano (deputato di Rifondazione comunista) è suo cugino. Anche Agnoletto alle ultime elezioni era candidato nel partito di Fausto Bertinotti, ma non è stato eletto.

E adesso, anche se parla proprio da un palco di Rifondazione nella sua prima uscita pubblica dopo Genova, ci tiene a prendere un po’ le distanze: «Stasera sono qui, ma domani andrò a Loreto per un’assemblea di cattolici, e dopodomani sarò a Roma a incontrare i parlamentari Ds e i giornalisti della stampa estera».

Anche Agnoletto, peraltro, è religioso. Per anni è stato boy-scout, facendo pure una discreta carriera. Contemporaneamente stava in Democrazia proletaria, dove nel 1977 era già il responsabile dei giovani. E proprio il ‘77 è stato l’anno in cui ci furono in Italia le ultime morti in scontri con la polizia: lo studente Lorusso a Bologna, Giorgiana Masi a Roma. 
Quasi un quarto di secolo dopo, in una piazza d’Italia è tornato il sangue.

Agnoletto sente il peso di questa responsabilità, e non si limita a dare tutte le colpe alla polizia: «Di fronte al problema della violenza dobbiamo riflettere anche all’interno del nostro movimento. Cosa dovremo fare nei prossimi cortei, organizzare un nostro servizio d’ordine? Certo, l’autotutela contro i violenti ci vuole, ma così rischiamo di ripercorrere strade pericolose».

Sì, perché Agnoletto sa bene che nei «servizi d’ordine» di alcuni gruppi extraparlamentari le Brigate Rosse arruolarono terroristi a piene mani. 
Lui invece, anche fisicamente e con quella sua vocina, è l’esatto contrario di un certo «machismo da corteo» che si è esercitato a Genova, per esempio nella falange paramilitare delle Tute bianche con tanto di divise, elmi, scudi e maschere antigas.

Agnoletto invece, laureatosi medico, dopo il servizio civile con i tossicodipendenti nel 1987 ha fondato la Lila (Lega italiana lotta all’Aids), diventando anche consulente del governo (incarico toltogli dal ministro Roberto Maroni). 
Sentiremo parlare ancora di questo piccolo grande uomo dalla faccia triste e dalla voce acuta, che parla nervoso con gli occhi spiritati, e agita le mani come Bertinotti.
Mauro Suttora

Thursday, April 12, 2001

parla Della Vedova

INTERVISTA A DELLA VEDOVA

di Mauro Suttora
Il Foglio, 12 aprile 2001

«Ogni giorno che passa, questa campagna elettorale dimostra che i radicali sono rimasti l’unica zeppa liberale fra i due poli. Se ne sono accorti, e lo hanno scritto, commentatori prestigiosi come Angelo Panebianco e Piero Ostellino. Ora però se ne de ve accorgere anche la gran massa degli elettori. È per questo che sembriamo ossessionati dal problema informazione. Ma purtroppo è dimostrato che per noi tutto si gioca per poche decine di minuti televisivi in più o in meno».

Benedetto Della Vedova è il più pacato fra i sette eurodeputati della lista Bonino eletti appena due anni fa con l’otto per cento (ma con punte del 18 in molte zone del Nord). Per stile personale, è lontano dai toni apocalittici di Marco Pannella. 

Però la sostanza non cambia: «Silvio Berlusconi è stato chiaro: da Vespa ha dichiarato che sulle questioni bioetiche la sua posizione è quella della Chiesa. Quanto all’economia, davanti agli industriali a Parma ha pronunciato un ottimo discorso. Ma non ha detto una parola sulle pensioni, né sulla libertà del lavoro. Anzi, ha tenuto a precisare che il suo non è più il modello Thatcher, ma quello dell’economia sociale di mercato. Cioè, esattamente la politica economica attuata per mezzo secolo dalla Dc. E il mio amico Giulio Tremonti non fa che ribadirlo: col sindacato la Casa della libertà è pronta all’accordo. Ma così si colpiscono le generazioni più giovani, sacrificate due volte: sia dalla mancata riforma delle pensioni, sia dalla mobilità sul lavoro, che riguarderà soltanto i nuovi assunti».

Vaticano e sindacato: ecco i due avversari che i radicali si sono scelti per questa campagna elettorale. Un colpo a destra e uno a sinistra, insomma, con il risultato di apparire allo stesso tempo attraenti e indigesti per entrambi gli elettorati, a seconda che si enfatizzino le libertà civili o quelle economiche. 

Con effetti a sorpresa, come l’appoggio dei premi Nobel (ormai arrivati a quota 40) per il capolista in carrozzella Luca Coscioni, che sarà con Emma Bonino al Raggio Verde santoriano anticipato a giovedì sera. Tema: la libertà della scienza. Interlocutori: Rosy Bindi e Rocco Buttiglione, ovvero il cattolicesimo di sinistra e di destra. 

Quest’ultimo, intervistato da Donatella Poretti per Radio radicale, si diverte a provocare i libertari riducendoli a «libertini», e sancendo che per loro fra i liberali del Polo non c’è posto, perché non accettano i valori di «Dio, patria e famiglia».

«Con avversari così andiamo a nozze», mormorano soddisfatti i radicali, che nel collegio di Milano centro dov’è candidata la Bonino incassano anche la candidatura suicida, da parte dell’Ulivo, dell’ex Dc e Fi Onofrio Amoruso Battista, oggi mastelliano, che se la vedrà con Marcello Dell’Utri: «Così si aprono grossi spazi per Emma», prevedono i pannelliani.

Ma, come sempre, è dall’estero che giungono gli aiuti più grossi. Il massimo dissidente cinese, Wei Jingsheng, sarà a Roma sabato per appoggiarli, e così il ministro della sanità ceceno Omar Kambiev, che i radicali hanno appena fatto parlare all’Onu a Ginevra, ma che la Russia ha obbligato a tacere dopo soli due minuti. Ne è nato un caso diplomatico di proporzioni internazionali, registrato da Le Monde in seconda pagina e come sempre ignor ato dai media italiani. 

Sia il cinese che il ceceno aderiscono all’«Osservatorio internazionale sulla legalità in Italia» al quale i boniniani vogliono affidano la sorveglianza sulle nostre elezioni. Vi troveranno un compagno inaspettato: Fausto Bertinotti, il quale con i governi russo e cinese va invece d’accordo, ma che appoggia i radicali nella loro lotta contro il predominio dei due poli in tv.

C’è da giurare che i fuochi d’artificio di Pannella per queste elezioni siano solo all’inizio. Per i radicali sarà un voto decisivo, dopo il trionfo delle europee 1999 e il doloroso ridimensionamento alle regionali 2000. 

«Ma questa volta, contrariamente al ‘94 e al ‘96, siamo riusciti a presentare candidati in tutta Italia», dice Della Vedova, «così non capiterà più di mancare il 4 per cento solo perché non avevamo liste in Veneto». 

Nel frattempo, continua la polemica politica quotidiana. La questione del giorno, per i pannelliani, è la censura a Internet, contenuta nella nuova legge dell’editoria appena approvata dalla maggioranza di centrosinistra: «Vogliono costringere tutti i siti che danno informazioni a registrarsi in tribunale e assumere giornalisti: è un’assurdità burocratica, senza eguali al mondo se non in Cina, che verrà spazzata via dalla libertarietà intrinseca della Rete», assicura Della Vedova.
Mauro Suttora

Tuesday, February 13, 2001

La censura si abbatte sui radicali

PANNELLA: "CIAMPI, ORA TI UCCIDO"

di Mauro Suttora

Il Foglio, 13 febbraio 2001

I dati sono impressionanti. Perfino un antipatizzante radicale di antica data, il consigliere d’amministrazione Rai Alberto Contri, lo ammette: «Li confronteremo con quelli dell’Osservatorio di Pavia, e se verranno confermati prenderemo provvedimenti». 

Negli ultimi cinque mesi, dal primo settembre al 20 gennaio, i radicali sono scomparsi dalla tv. Se si eccettua il due per cento di «Porta a Porta» (40 minuti su un totale di 26 ore di interviste politiche), in tutti gli altri programmi Rai e Mediaset (da Santoro a Costanzo, da Biagi a Primo piano) la percentuale è zero. E l’ospitata di Emma Bonino per Mucca pazza a «Raggio verde», a fine gennaio non cambia di molto le cose.

Il problema è che i radicali vengono censurati da trent’anni. E da trent’anni, invece di subire o protestare urbanamente, Marco Pannella reagisce con veemenza, utilizzando aggettivi pantagruelici e toni tremendissimi. L’ultima volta l’altro ieri: «Ciampi, ora ti uccido», ha sintetizzato in prima pagina Vittorio Feltri sul suo «Libero». 

Ragionamento paradossale ma logico, quello pannelliano: se davvero in Italia c’è un regime che impedisce ai cittadini di «conoscere per deliberare», distorcendo l’informazione che è il pane della democrazia, allora scatta il diritto (e forse perfino il dovere) alla ribellione. «Da gandhiano so bene che uno sparo non salverà il mondo», ammette il leader radicale, precisando però che la sua scelta nonviolenta è a questo punto solo di opportunità, non di principio.

Ragionamenti fragorosi, forse inutili, in questo Paese narcotizzato dai soldi e solo lievemente infastidito dalla rinuncia alla bistecca con l’osso. Ma sufficienti a far scattare la trappola dentro la quale, da un terzo di secolo, Pannella  viene abitualmente inghiottito ogni volta che si permette di denunciare la censura. 

Anche ieri l’imbecille il quale, occupandosi del dito invece che del problema, ha trasformato la vittima in esibizionista da dileggiare, è stata la «Repubblica» del suo nemico eterno Eugenio Scalfari (ex radicale con il veleno degli ex), tramite un corsivo in cui è stato compilato l’elenco dei «penultimatum» e delle invettive pannelliane, dai primi scioperi della fame (1968 per la Cecoslovacchia, 1969 per il divorzio, 1972 per l’obiezione di coscienza) a oggi.

Anche l’ultimo dei 17 digiuni del leader radicale (autunno ‘97) fu causato dal medesimo problema di oggi: lo zero quasi assoluto riservato dai media alle iniziative radicali. E anche allora «si aprì il dibattito»: ma sugli eccessi del «mouse that roars» (il «topolino che ruggisce», come l’Economist ha soprannominato l’indomito Marco), e non su quelli del silenzio tv. 

In questi quattro anni, poi, sono successe due cose: il settantenne Pannella si è beccato due ischemie, quattro by-pass e un’infezione iatrogena che hanno quasi «risolto» il problema; la sua fedelissima Emma Bonino ha preso l’8 per cento alle europee (con punte del 20 per cento in Lombardia e Veneto), dimostrando che i radicali possono essere popolari, e quindi pericolosi.

Così, l’Ulivo ha subito vietato gli spot grazie ai quali la lista Bonino era diventata il terzo partito al Nord. E la saracinesca dell’indifferenza si è richiusa sui pannelliani. L’ultimo episodio sabato scorso: nelle stesse ore in cui Pannella vergava la sua invettiva-appello a Ciampi, la Bonino teneva una conferenza stampa su una certa pillola che permette di abortire senza il trauma dell’intervento chirurgico, assieme a una professoressa francese invitata apposta in Italia in quanto massima esperta mondiale del problema. Che è sicuramente controverso, sia perché l’Italia è uno dei soli tre Paesi europei in cui i cattolici impediscono l’uso della suddetta pillola, sia perché in questi giorni il dibattito sulla «libertà della scienza» è rovente.

Ebbene: neanche una riga, neanche dieci secondi di tg. Stesso esito per un interessantissimo convegno radicale all’università di Roma giovedì scorso, zeppo di dati sui «costi del proibizionismo». Niente. E che il capolista radicale alle prossime elezioni si chiami Luca Coscioni, un malato di sclerosi curabile con le cellule staminali ma condannato a morte (lui sì, sul serio) dal no verde-vaticano alla clonazione terapeutica, finora lo ha scritto solo il Foglio.

Pazienza. Tanto, l’Italia democratica un’opposizione ce l’ha già: Fausto Bertinotti. Lui sì che può parlare in tv, come dimostrano i dati radicali: «Perché piace alla regina: sa stare a tavola, parla di tutto, fa manicure e pedicure...», sibila Pannella. Anche geloso, oltreché cialtrone?
Mauro Suttora