Thursday, July 30, 2020

It's all too much, è tutto troppo

Il fastidio per questi politici è di destra o di sinistra?

Mauro Suttora

 Huffington Post, 30 luglio 2020
Ascoltate la voluttà con cui i politici annunciano di voler “cambiare l’Italia”, addirittura di “migliorarla”. Se gli si domanda come, secernono slogan esotici anche per loro incomprensibili come “digitalizzazione”, “green”, “più inclusione”, “meno disparità”, qualcosa per i migranti naturalmente.
E non è questione di destra o sinistra. Gli altri purtroppo desiderano anche loro “cambiare” e “migliorare”: smaniano di pittoresche “paci col fisco”, “no all’Europa dei banchieri”, “flat-tax”.

Non licenzieremmo subito il nostro amministratore di condominio se presentasse all’assemblea annuale, invece di un bilancio in pareggio e possibilmente qualche risparmio sull’anno precedente, un costoso programma di “miglioramento” e “cambiamento” delle parti comuni? (Che non siano spese straordinarie non rinviabili perché la facciata perde i pezzi o l’ascensore si blocca?)
Gli amministratori di condominio sono sempre così tetri, seri, affidabili, prevedibili e noiosi, come i politici svizzeri. Più lo sono, più li votiamo. 
Ci fideremmo di uno di loro con la pochette, o che perdesse tempo a magnificarsi su Facebook? Perché nessuno conosce - neanche gli svizzeri - i nomi dei politici svizzeri?

Negli anni ’90 Pietro Citati scrisse su Repubblica un clamoroso elogio di Forlani e dei democristiani: “Con le loro facce sono tranquillo: non dichiareranno mai guerra. Fanno il meno possibile. E anche quando rubano, rubano poco”. (Citati ha appena compiuto 90 anni: auguri).

Cerco nel passato esempi positivi di politici che abbiano annunciato “cambiamenti” e “miglioramenti”. A beneficio di tutti, intendo: quelli che invece dicevano di stare per i ricchi o per i poveri, ce lo aspettavamo che non avrebbero fatto nulla per i poveri (i primi) o qualcosa contro i ricchi (i secondi: dalla ghigliottina al gulag).

Adesso invece vanno molto i politici liliali e onnicomprensivi, così convinti della propria bontà da promettere “miglioramenti” per tutti, non per una classe o l’altra. A 365 gradi, direbbero i grillini. Si credono Superman, si sentono potenti perché ora hanno in mano 209 miliardi da spendere, anche se nessuno ha ben capito da dove vengono.

Se a ciascuno di noi piovessero dal cielo 209 euro, ma fossimo in rosso per 2.400 euro (come l’Italia, in proporzione), li useremmo per rimborsare parzialmente il debito e alleggerire gli interessi. Difficilmente li spenderemmo, a meno di essere conclamati mascalzoni desiderosi di fregare i creditori, o impuniti cicaloni.

Invece i politici non vedono l’ora di scialacquare. Tutti, non solo questi. Anche gli altri, quando comandavano loro, ce li ricordiamo a “cambiare” e “migliorare”. Perché sono tutti convinti di fare il “bene del Paese”. Di difendere l’interesse di tutti i “cittadini”. Oppure del Popolo con la pi maiuscola (gli uni), magari “contro le élite cosmopolite radical chic” (gli altri).

Mentre Rutte l’olandese ci ha dimostrato che in politica, come nella vita, si combatte e si tratta perché c’è sempre chi vince e chi perde. Chi dà e chi riceve. Chi strappa e chi concede. Si chiama somma zero. Soltanto i cialtroni del marketing possono spacciare fandonie tipo “situazione win win” (vincono tutti) o banalità deprimenti alla Coelho come “trasformare i problemi in opportunità, le crisi in sviluppo”.

Noi piccolo borghesi ci accontenteremmo invece di politici che non “fanno la storia” prendendo decisioni “storiche”. Che non si esaltano perché hanno mercanteggiato quattro giorni e quattro notti a Bruxelles: accade da sempre in ogni parlamento di ogni democrazia, verso la fine convulsa delle sessioni annuali di bilancio.

Vorremmo stati e Unioni europee che invece di “dare di più” ci prendano di meno, che ci aiutino diminuendo i nostri pagamenti al posto di aumentare i loro stanziamenti.
In sintesi: politici che ci diano meno fastidio. Il fastidio è di destra o di sinistra?

Perché adesso, come si lamentavano i Beatles, “It’s all too much”, è tutto troppo. Mi fai versare 600 euro di Iva e il mese dopo me li ridai perché sono una partita Iva. Che spreco di tempo e scartoffie.
Ora subentra l’Europa. Buona, cattiva? Generosa, taccagna?
 
“Sometimes I think this old world
is just one big prison yard:
some of us are prisoners,
the rest of us are guards”.
“A volte penso che questo vecchio mondo
sia solo il cortile di una grande prigione:
alcuni di noi sono prigionieri,
il resto guardie”.
Così Bob Dylan cantava nel 1972.

L’Europa è solo un cortile più grande, rispetto ai nostri staterelli affollati di politici vogliosi di farci da guardia e da balia?
Mauro Suttora

Tuesday, July 28, 2020

Papillon, l'orso geniale

Potremmo considerare M49 un “orso problematico”, per i danni enormi causati in Trentino. Certamente un'intelligenza rara, capace di un'altra clamorosa evasione. Il collare elettronico lo salverà forse dalla tragica fine che fece Daniza sei anni fa

Huffington Post, 27 luglio 2020

di Mauro Suttora


“È una fuga da Alcatraz, praticamente impossibile. Ma uno su mille può riuscirci”. Lo disse un anno fa Daniela D’Amico, coordinatrice del Parco d’Abruzzo, commentando la clamorosa evasione dell’orso bruno M49 dal Centro Casteller di Trento. 

Ora che è scappato di nuovo, doppio clamore: Papillon (come lo chiama ammirato il ministro dell’Ambiente Sergio Costa) si è conquistato il titolo di orso più intelligente del mondo. Ha divelto la rete e si è diretto verso le montagne. Grazie a Dio ha il collare elettronico, quindi la sua fuga non finirà in tragedia come sei anni fa: Daniza, l’orsa mamma di due cuccioli ammazzata con la fucilata che avrebbe dovuto soltanto addormentarla.

Allora ci fu una rivolta popolare: tutti gli animalisti d’Italia accusarono più o meno di assassinio il presidente del Trentino. Ora ce n’è un altro, Maurizio Fugatti (nomen omen), leghista. Anche lui tende a stare più dalla parte di agricoltori e allevatori: gli orsi fanno danni, ormai sono troppi, e se diventano pericolosi si può ucciderli.

La Corte costituzionale gli dà ragione. Ma il Tar no: pochi giorni fa ha accolto il ricorso di Lav, Wwf, Lac e Lipu contro l’ordinanza di abbattimento dell’orsa JJ4 firmata da Fugatti, dopo l’incontro ravvicinato (e filmato) con un padre e figlio sul monte Peller. I giudici invocano il ‘principio di proporzionalità’: bisogna mettere in campo altre soluzioni ‘energiche’ come la cattura e l’addormentamento prima di arrivare all’opzione letale. 

Anche il ministro Costa sta dalla parte dell’orso. Ha definito “spropositata” l’ordinanza di Fugatti contro JJ4, e su M49 è drastico: “Ogni animale dev’essere libero di vivere in base alla sua natura. Papillon ha il radiocollare, quindi è rintracciabile e monitorabile facilmente: non ha mai fatto male a nessuno, solo danni materiali facilmente rimborsabili. Chiediamo che non venga più rinchiuso, e assolutamente non abbattuto”.

Ma quanti sono gli orsi, e quanti danni fanno? Negli anni ’90 ne erano rimasti soltanto tre sulle Alpi italiane. In Abruzzo invece l’orso marsicano è protetto da tempo e conta un’ottantina di esemplari. In tutto il mondo sono 200mila: 120mila in Russia, 32mila in Usa, 25mila in Europa. I Carpazi ne ospitano 5mila, e ben 700 stanno nella piccola Slovenia, confinante con l’Italia e coperta per i due terzi da foreste.

Con il programma Pacobace (Piano d’azione per la conservazione dell’orso bruno sulle Alpi centrali) nel 1999 abbiamo reintrodotto dieci orsi sloveni in Trentino (in Friuli non ce n’è bisogno, sconfinano dalla Slovenia). I plantigradi si sono trovati così bene nel parco dell’Adamello e dintorni che si sono moltiplicati fino agli 80-90 attuali. 
Ed è qui il problema: “Sono troppi, noi possiamo ospitarne una sessantina, il ministro li sposti in altre regioni”, si lamenta Fugatti, allergico a ogni tipo di migranti. “I numeri sono superiori rispetto a quelli che possiamo gestire. Non vogliamo attendere il prossimo trentino aggredito da un orso”.

Vero è che i simpatici bestioni causano parecchi danni in Trentino. L’anno scorso sono stati registrati 228 episodi, fra piccoli animali divorati, arnie di api distrutte, reti divelte e altri attacchi. La provincia di Trento ha rimborsato 152mila euro di danni, più 37mila per quelli causati dai lupi. C’è stato un incremento del 31% sul 2018.

Particolarmente turbolento il nostro M49: dopo la prima fuga ha commesso ben 44 azioni dannose per 45mila euro, quasi un terzo del totale. Seguono assai distanziati altri due orsi, KJ1 e MJ5: 10 e 11 episodi, neanche paragonabili alle incursioni di M49-Papillon.
Nel 2019 la Provincia ha avuto 170 richieste per misure di prevenzione dei danni da grandi carnivori (recinti elettrici e cani da guardia), per proteggere animali e api. Costo:199mila euro.

A voler essere gentili, quindi, M49 va definito “orso problematico”: causa danni economici ad attività produttive, anche se favoriti dalla mancata adozione di strumenti di prevenzione adeguati. Secondo gli animalisti, però, la sua pericolosità per le persone è ancora da dimostrare: è solo “potenziale”, perché non si può escludere che possa diventarlo in futuro. Ma al momento non è tale, quindi non va eliminato.

Dice Fabrizio Bulgarini del Wwf: “Quella dell’orso è una presenza problematica solo in Trentino. Il fatto è che con la loro scomparsa si è persa l’abitudine a comportamenti che facilitavano la convivenza. In Slovenia c’è solo un caso all’anno di aggressione. Servono informazione ed educazione, solo così si possono prevenire incidenti. Non battute di caccia».

Il Wwf ha donato elettrificatori ad allevatori ed apicoltori al confine con la Lombardia, per proteggere apiari ed allevamenti. Sono molti gli sconfinamenti, infatti, e la Valtellina, che è più antropizzata del Trentino, non gradisce gli orsi. Ma nel 2019 pochi esemplari si sono allontanati dal Trentino: M29 e M46 in Svizzera (M29 anche in Piemonte) e M4 in Friuli. Sei orsi hanno gravitato, oltre che in Trentino, anche in province limitrofe: Bolzano, Sondrio e Brescia.

Un dato curioso riguarda M35, maschio di cinque anni di cui si erano perse le tracce nel 2016, quando venne rilevato l’ultimo campione genetico: è stato da poco rintracciato ancora vivo. Nei mesi scorsi c’è stata anche la riabilitazione con rilascio in natura del cucciolo M56, probabilmente scampato a un tentativo di infanticidio da parte di un adulto che voleva accoppiarsi immediatamente con la madre.

Nel 2019 sono state rinvenute le carcasse di due esemplari morti: nel torrente Avisio è stato recuperato un maschio al quale erano stati amputati testa e zampe, mentre a Folgaria è stata rinvenuta una femmina gravida della quale non è stato possibile accertare la causa di morte.
Mauro Suttora

Saturday, July 25, 2020

Cina-Usa, è fredda ma è guerra

Il discorso di Pompeo è storico, non si sentivano parole così dai tempi di Reagan. E le spese militari di Pechino sono quasi raddoppiate in dieci anni


Mauro Suttora

Huffington Post, 24 luglio 2020

Martedì 21 luglio a Roma sono ricomparsi i Falun Gong. Hanno manifestato davanti a Montecitorio contro la Cina, che accusano dal 1999 di far sparire i loro adepti per espiantarne gli organi. Denunce incredibili, quelle della setta spiritual-ginnica cinese. Ma confermate il 1 marzo da una sentenza del China Tribunal di Londra, organismo indipendente presieduto da Geoffrey Nice, già accusatore di Slobodan Milosevic alla Corte internazionale dell’Aia. Non hanno raccolto grande solidarietà dai nostri deputati, i Falun Gong: soltanto quella del forzista Lucio Malan e del leghista Vito Comencini, oltre che dei radicali Giulio Terzi, ex ministro degli Esteri, ed Elisabetta Zamparutti di Nessuno Tocchi Caino.

Falun Gong è il tipico esempio della fine che fanno anche in occidente i perseguitati di Pechino, che siano uiguri, buddisti tibetani o studenti di Hong Kong: quasi nessuno crede loro, non fanno notizia, qualcuno li considera impostori. Eppure il giudizio del China Tribunal è stato onesto. Ha rigettato, ad esempio, l’accusa di espianto di organi anche sugli uiguri, per mancanza di prove.
 
Le stesse prove ritenute insufficienti anchee per i Falun Gong da Amnesty International. La quale però li difende dalle migliaia di carcerazioni arbitrarie con tortura. L’ultima, quella della professoressa di chimica Chen Yan, colpevole solo di aver distribuito materiale propagandistico in una strada di Pechino.

Il governo cinese ammette soltanto che siano stati espiantati organi dai corpi di condannati a morte giustiziati, ma che l’orrenda pratica sia terminata nel 2015. E dal 2013 ufficialmente sarebbero stati chiusi anche i famigerati laogai, campi di concentramento per la “rieducazione attraverso il lavoro”. 

Peccato che questi sinistri eredi di lager nazisti e gulag stalinisti siano stati riaperti ultimamente per disciplinare i musulmani uiguri dello Xinjiang. Ma ogni volta che una tv libera nel mondo trasmette le prove video e fotografiche della pulizia etnica, con tanto di sterilizzazione forzata per le donne, ecco che il locale ambasciatore cinese (poche sere fa quello a Londra, invitato al contraddittorio dalla Bbc) nega tutto.

È esattamente questa asimmetria informativa fra democrazie e dittature il punto sollevato dal segretario di stato Usa Mike Pompeo giovedì 23 in un discorso che rischia di diventare storico, nella biblioteca californiana di Yorba Linda dedicata a Nixon. Il presidente che quasi mezzo secolo fa aprì alla Cina, nella speranza che la distensione economica avrebbe prodotto anche diritti civili e politici per i cinesi.
“Ma Nixon stesso avvertì che il mondo non poteva essere sicuro finché la Cina non fosse cambiata”, ha detto Pompeo, “e che il nostro obiettivo era provocare questo cambiamento”.

Missione fallita, ammette oggi il capo della diplomazia Usa: “Abbiamo accolto i cittadini cinesi, ma solo per vedere il loro partito comunista sfruttare la nostra società libera e aperta. Hanno mandato propagandisti nelle nostre conferenze stampa, centri di ricerca, licei, università. Il prezzo dell’entrata in Cina per le società occidentali è il silenzio sui loro abusi contro i diritti umani. Perfino Hollywood si autocensura: nessun minimo riferimento sfavorevole alla Cina nei suoi film. Nixon temeva di avere creato un Frankenstein aprendo il mondo al partito comunista cinese. Beh, ci siamo: oggi la Cina è sempre più autoritaria a casa propria, e sempre più aggressiva all’estero”.

Parole di un’amministrazione che fra tredici settimane probabilmente perderà le elezioni presidenziali?
Sicuramente è nell’interesse di Trump drammatizzare e additare un nemico esterno per salvare il salvabile. Ma l’analisi dei democratici di Biden non può divergere troppo, sulla Cina.

Guardiamo i dati concreti. Le spese militari di Pechino sono quasi raddoppiate in dieci anni. Certo, sono a 240 miliardi di euro contro i 650 degli Usa. Ma l’America ha una proiezione internazionale inimmaginabile per la Cina. La quale perfino in un anno di crisi come questo annuncia il 6% in più per gli armamenti, con proclami bellicosi contro Taiwan.

“La Cina si è comprata il direttore dell’Oms”, ha accusato Pompeo incontrando a porte chiuse i deputati conservatori britannici. Sarà anche fredda, ma è sicuramente guerra. Sarà anche solo “posturing”, atteggiamento minaccioso a uso degli elettori di novembre. Ma è dai tempi di Reagan, 40 anni fa contro l’Urss, che non si sentivano parole simili. Le Borse se ne sono accorte.
Mauro Suttora

Tuesday, July 21, 2020

19 anni dopo la mattanza della Diaz

G8 di Genova e mattanza alla Diaz, 19 anni dopo. Giustizia è fatta?
La Cassazione si è espressa, il processo è finito. Ma per ammissione degli stessi pm e delle sentenze, gli autori materiali dei pestaggi non sono stati individuati

Mauro Suttora

21 luglio 2020, Huffington Post


articolo sull'HuffPost

“Roma locuta, causa finita”, scrisse sant’Agostino. La Cassazione si è espressa, il processo è finito. Il 21 luglio 2001, diciannove anni fa, 82 attivisti no global furono picchiati selvaggiamente nella scuola Diaz di Genova, dopo le manifestazioni contro il vertice G8.
Ma per ammissione degli stessi pm e delle sentenze, gli autori materiali dei pestaggi non sono stati individuati. Sono stati processati e condannati 28 fra dirigenti e agenti. Tuttavia sulla colpevolezza di sette capisquadra presenti nell’edificio, condannati per non avere impedito le violenze, restano molti dubbi.

Il giornalista Roberto Schena ha appena pubblicato un libro-inchiesta sul reparto cui appartenevano, il VII Nucleo sperimentale antisommossa del Primo reparto mobile di Roma: “G8. Processo al processo” (Springedizioni).
“Credo sia la prima volta che un intero reparto di polizia sia stato condannato per violenze gratuite”, dice Schena.
Il nucleo, composto da 67 agenti, è stato accusato in blocco di essere stato il maggiore responsabile del pestaggio: 61 attivisti finirono in ospedale, tre in prognosi riservata, il giornalista inglese Mark Covell in coma.

“La mia indagine è approdata a conclusioni opposte alle sentenze: il VII Nucleo non ha commesso errori, i sette sottufficiali condannati non sono responsabili delle violenze”, afferma Schena.
Il nucleo era nato pochi mesi prima, durante il governo Amato, proprio per fronteggiare i black bloc e proteggere l’ordine pubblico sia nelle strade che negli stadi dalle frange più violente di manifestanti politici e tifosi. È stato smantellato, anche se era il più preparato nella gestione dei momenti di tensione. 
“A parte la sfortunata parentesi di Genova”, sostiene Schena, “i suoi uomini hanno fatto scuola per la gestione di situazioni difficili”.

Le sette condanne penali sono piovute come tegole sulle teste dei capisquadra. In realtà il VII Nucleo, nonostante in quei giorni avesse subìto turni massacranti, come ampiamente riconosciuto dalle sentenze, rimase sostanzialmente immune dagli eccessi del G8.
“Il motivo è semplice: era troppo professionale e autosorvegliato per commettere errori”, spiega Schena.

Il reparto che avrebbe dovuto costituire il fiore all’occhiello nella carriera di molti poliziotti si è così trasformato in un incubo per i capisquadra che ne facevano parte e per le loro famiglie. I condannati devono risarcire allo Stato i costi sostenuti nei processi, e ripagare le parti civili con milioni di euro. Somme spaventose per dipendenti statali, che hanno impegnato stipendi, liquidazioni, abitazioni, risparmi.
Le condanne sono state comminate automaticamente solo a chi ha siglato i verbali d’arresto dei 93 ospiti della scuola, quasi tutti manganellati. L’accusa è di avere partecipato o di non avere impedito la “macelleria messicana”, come un funzionario del VII Nucleo definì la mattanza alla Diaz. Il problema è che non è stato verificato il comportamento di tutti gli altri agenti, quelli estranei al VII Nucleo ma entrati anch’essi nella scuola.

A partecipare infatti furono quasi 400 agenti, pochissimi dei quali auditi, per scelta dei pm e del tribunale.  
I sette capisquadra sono stati inseriti fra i 28 imputati di alto grado solo perché hanno firmato le relazioni di servizio. “Hai relazionato? Dunque c’eri. Quindi,  indipendentemente da quanto hai scritto, hai partecipato ai pestaggi senza impedirli”. 
Chi invece, fra tutti gli altri reparti presenti al blitz, non presentò relazioni, non ha corso neanche il rischio di finire sul banco degli imputati. Per le sentenze i 67 agenti del VII Nucleo sarebbero i principali responsabili delle percosse. In realtà, anche secondo il riscontro dei testimoni durante il processo, fu il reparto che si comportò meglio, l’unico che aiutò le decine di fermati presi a manganellate.

“Gli altri 333 agenti estranei al nucleo romano che hanno partecipato al blitz nella scuola, molti dei quali entrati nell’edificio prima del VII Nucleo, come si sono comportati?”, chiede Schena. “Hanno assistito impassibili con le braccia conserte, dormivano?”
Dei 122 manganelli sequestrati, per esempio, 62 sono “tonfa”, bastoni speciali provvisti di manico. Gli altri 60 sono gli sfollagente solitamente impugnati per motivi di ordine pubblico. Dei 62 tonfa sequestrati al VII Nucleo e analizzati, solo due presentavano tracce ematiche. È sufficiente per stabilire che l’intero nucleo è responsabile dei pestaggi?

A 19 anni di distanza resta ancora da capire il vero motivo dell’assalto condotto con 400 agenti raccolti ‘alla garibaldina’, quando sarebbero bastati i 67 del VII nucleo, reparto di uomini scelti, professionalmente preparati, che non si erano mai lasciati andare a violenze contro inermi cittadini, né a menzogne per coprire malefatte. Vestiti e bardati come samurai giapponesi, dotati dell’efficacissimo tonfa, il più delle volte bastava che i violenti li vedessero apparire sugli spalti di uno stadio per essere dissuasi.
“Insomma, a mio avviso una serie di errori commessi dai magistrati e dai vertici dell’ordine pubblico hanno stritolato un reparto scelto e causato vent’anni di ansia e amarezze a sette capisquadra. Il mio libro cerca di far luce su questo”, conclude Schena.
Mauro Suttora

Wednesday, July 15, 2020

Se il tribalismo colpisce anche il NY Times

La responsabile degli op-ed si dimette


Mauro Suttora

15 luglio 2020, Huffington Post


articolo sull'HuffPost

Povero John Kennedy. “Un Paese che ha paura di far scegliere ai propri cittadini il vero e il falso in un mercato libero è un Paese che ha paura dei propri cittadini”, disse nel 1962 per il ventennale di Voice of America, la radio del governo Usa usata contro i nazifascisti e poi contro i comunisti.

Pensavamo tutti che gli Stati Uniti fossero il non plus ultra della libertà, e in particolare della libertà d’informazione. Invece le dimissioni quasi contemporanee di Bari Weiss dal New York Times e di Andrew Sullivan dal New York Magazine ci ricordano che gli statunitensi possono essere anche intolleranti: dalla Lettera scarlatta al proibizionismo, dal Ku Klux Klan al maccartismo.

La 36enne Bari Weiss non era una semplice giornalista del Times, né un’opinionista. Era una editor delle pagine op-ed del principale quotidiano Usa. Il quale ha l’ottima abitudine non solo di separare perfino fisicamente, in pagine e redazioni diverse, le notizie dalle opinioni (pratica per noi esotica), ma anche di distinguere i commenti fra quelli che esprimono la linea ufficiale del giornale (editoriali) e quelli aperti a qualsiasi tendenza (op-ed, appunto: open editorials).

Eugenio Scalfari ricorse alla testatina “Diverso parere” quando quasi 40 anni fa ospitò il liberale Alberto Ronchey su Repubblica, orientata a sinistra. E ogni tanto anche oggi qualche direttore affianca un proprio articolo a un altro che lo contraddice. Ma non è frequente, nell’Italia delle parrocchie contrapposte. Ammettiamolo: non siamo popperiani.

Ammiravamo per questo il giornalismo anglosassone. E invece anche per loro è arrivato il momento del “tribalismo”, come lo definisce la Weiss nella sua brillante lettera di dimissioni, che andrebbe tradotta e proposta a tutti gli opinionisti fai-da-te nei social.

Weiss, ex Wall Street Journal, era stata imbarcata dal sussiegoso Times quattro anni fa per proporre un “diverso parere” ai propri lettori, disorientati dalla vittoria di Trump. Da allora ha scritto e fatto pubblicare opinioni di destra su un giornale di sinistra. Esercizio intellettualmente stimolante (“vediamo cos’hanno da dire questi zoticoni di trumpiani”), ma neurologicamente devastante per lei. Soprattutto dopo le due recenti ondate di ‘correttezza politica’ che hanno sommerso gli Usa. O perlomeno Manhattan, dove si concentrano i lettori del Times e Trump non arriva al 20%.

Il primo tornado è stato nel 2017 il ‘Me too’: la riscossa antimaschilista dopo lo scandalo Weinstein. Anche solo sospettare che qualche attrice potesse avere usato invece che subìto il divano del produttore era impensabile. La lettera S di sessismo stava lì pronta per essere marchiata a fuoco sul grasso pancione del maiale, come Noomi Rapace in ‘Uomini che odiano le donne’.

Da due mesi invece infuria il ‘Black Lives Matter’, la riscossa antirazzista dopo l’omicidio Floyd. E una delle vittime è stato il diretto superiore della Weiss, il capo degli editoriali del NY Times spinto alle dimissioni per aver osato pubblicare l’op-ed di un senatore repubblicano favorevole all’intervento dell’esercito per fronteggiare sommosse violente.

La Weiss è stata a sua volta sommersa di tweet con ogni tipo di insulto e accusa, dall’ormai inflazionato ‘razzista’ al simpatico ‘nazista’, visto che è ebrea.

Stessa storia per Andrew Sullivan, altro storico commentatore controcorrente: vent’anni fa provocò borborigmi nei benpensanti di sinistra Usa perché proprio lui, progressista (e gay, anche se c’entra poco), appoggiò le guerre di Bush junior (come Biden, d’altronde, anche se ora non gli piace ricordarlo).

Sullivan e Weiss probabilmente ora fonderanno un sito dei senzapatria. Impresa voltairiana rischiosissima, perché sia nel giornalismo che in politica, e sia negli Usa che in Italia, vince invece il tribalismo. O di qua o di là, ciascuno nella propria tribù. Felici di sentirsi ripetere le rispettive “narrazioni” (sinonimo di fandonie propagandiste) di destra e sinistra. I politici devono farsi votare ogni quattro anni, i giornali devono farsi comprare o cliccare ogni giorno. Ma il principio è lo stesso: attirare e fidelizzare i già convinti. Così il mercato si estremizza e scompaiono, al centro, neutrali e moderati. Politicamente e commercialmente sciapi, asettici, poco interessanti.

In tv o Fox o Cnn. Nella stampa o Washington Post (di Jeff Bezos, Amazon) e New York Times (di editore puro) a sinistra; oppure New York Post e Wall Street Journal (di Murdoch) a destra.
Tertium non datur. Per certi progressisti ora il tumore alla cervice non è più prerogativa femminile, perché così si discriminano i maschi trans, ex donne. 
E secondo certi conservatori Biden è in combutta con Bill Gates per vaccinare (avvelenare) il mondo intero con la scusa del covid.

A pensarci bene, però, la sinistra Usa ha già vinto. Perché la da loro detestata Bari Weiss non si definisce di destra. Dice che è “di centro”. Quindi perfino per lei “destra” è una parola vergognosa. Non ha neppure il coraggio e l’onestà di confessare la propria tribù. Pretende di essere al di sopra delle parti. Perché in fondo anche lei è una giornalista privilegiata, addirittura pagata per distillare opinioni. Perciò irrimediabilmente radical chic, è la sentenza finale del Napalm 51 americano (di entrambe le tifoserie: contrapposte, ma simmetricamente eguali).
Mauro Suttora

Tuesday, July 07, 2020

"Grazianeddu è in Corsica"

"Grazianeddu è in Corsica”

Nei bar della Gallura non si parla d’altro. Nove su dieci stanno per Graziano Mesina, fuggito giovedì dopo la condanna a 30 anni confermata dalla Cassazione

di Mauro Suttora

5 luglio 2020
Huffington Post

“Grazianeddu è in Corsica”. Nei bar della Gallura non si parla d’altro. Nove su dieci stanno per Graziano Mesina, fuggito giovedì dopo la condanna a 30 anni confermata dalla Cassazione.

“Proprio giovedì è successo un fatto stranissimo nel parco marino francese delle isole Cavallo e Lavezzi, fra la Corsica e la Sardegna. Ben tre pescatori di frodo sardi sono entrati contemporaneamente nelle zone vietate, attirando su di sé l’attenzione di tutte le imbarcazioni della Gendarmerie. Uno si è fatto inseguire fino al porto di Santa Teresa, dove le guardie hanno chiesto ai carabinieri di arrestare il pescatore approdato. Ma ormai era troppo tardi, e quello se n’è andato facendosi beffe di tutti”.

In quello stesso pomeriggio la primula rossa di Orgosolo spariva, non presentandosi alla firma giornaliera delle 19 alla stazione dei carabinieri del suo paese, dove per un anno era stato puntualissimo.
La Cassazione ha sentenziato alle 20, due ore dopo i carabinieri non lo hanno più trovato a casa della sorella. La sua avvocata dice di averlo visto l’ultima volta alle 16.
 L’ipotesi è che Mesina in due ore sia arrivato in auto sulla costa nord della Sardegna, fra Santa Teresa, Porto Pozzo e Palau, e abbia preso un gommone per la Corsica.

Quei tre pescatori avrebbero funzionato da esca vivente per distrarre le guardie di frontiera francesi. Mesina non ha documenti, ma i boschi corsi sono fitti e inaccessibili quanto quelli del Supramonte.
“Ha 78 anni, ne ha passati 45 in carcere, lasciatelo stare”, dicono molti suoi corregionali.

Anche Toni Negri fuggì in Corsica dalla Toscana nel 1983, sulla barca a vela di Emma Bonino.

Mauro Suttora

Friday, July 03, 2020

intervista a Ennio Doris

"Altro che Covid, il problema d'Italia è il fisco". Parla il fondatore di Banca Mediolanum: “Abbiamo le tasse più alte d’Europa. Per molti le imposte sono un mezzo per ridistribuire la ricchezza, ma è un concetto superato, novecentesco. La leva fiscale è fondamentale per favorire gli investimenti"

Mauro Suttora
3 luglio 2020, Huffington Post

“Questo virus ci ha cambiato la vita, non lascerà niente come prima. È una rivoluzione. Dobbiamo immaginare un’organizzazione nuova per le nostre aziende, ma anche per tutta la società. Bisogna cambiare mentalità”. 
Il 3 luglio Ennio Doris compie 80 anni. Quasi 40 anni fa ha fondato quella che oggi è Banca Mediolanum, 4 miliardi di fatturato, mezzo miliardo di utili. Lo incontriamo nella sua casa di Porto Rotondo (Olbia), dove è arrivato pochi giorni fa. I tre mesi di lockdown li ha passati in montagna: si trovava lì coi nipoti in settimana bianca all’inizio dell’epidemia.
 
“Fortunatamente noi eravamo preparati all’emergenza, perché siamo una banca senza sportelli. I nostri principali investimenti sono stati in laptop, visto che l′86% dei nostri 2.400 dipendenti ha lavorato da casa. Nella sede di Basiglio (Milano) sono rimasti in 300”.

Il trionfo dello smart working.
“Non lo chiamerei smart working, è diverso. Si può stare a casa, ma lavorare anche in sede, a seconda del lavoro e dei ruoli. Magari tre giorni a casa e due in ufficio. Quindi basta postazioni fisse e computer da tavolo, non spostabili”.

Ci saranno meno contatti personali.
“Al contrario, in questi tre mesi per noi incontri e riunioni si sono moltiplicati. Abbiamo parlato con 400mila clienti, vedendoci in faccia sugli schermi dei nostri telefonini e computer. Molti hanno scoperto programmi e app per le conversazioni che neanche sapevano di avere, sui propri cellulari. Siamo tutti collegati, meglio di prima, perché le distanze sono annullate: non occorre più che ci spostiamo. Eliminati gli sprechi di tempo in auto. La nostra struttura commerciale di 5mila persone in Italia, Germania e Spagna ora lavora tutta in remoto. Al ritorno della normalità prevediamo che almeno il 60% continui a farlo”.

È successo tutto molto in fretta.
“C’è stata un’enorme accelerazione. Aziende come la nostra hanno impiegato tre settimane a effettuare cambiamenti dell’organizzazione del lavoro per i quali normalmente ci sarebbero voluti tre anni. La spinta è venuta dai consumatori, che chiusi in casa avevano come unico mezzo la tecnologia, le videochiamate, zoom, facetime. È stato il mercato, spontaneamente, a provocare questa esplosione del digitale. Ormai noi lavoriamo al 95% così, solo il 5% è su carta. Abbiamo riorganizzato tutti gli spazi interni nei nostri uffici. Esperti e medici ci hanno consigliato non solo su come rispettare le distanze fra le scrivanie, ma soprattutto come ripensare i luoghi di passaggio. Ora con i sensi unici neanche ci sfioriamo”.

Quindi, paradossalmente, il virus ha avuto effetti positivi. 
“Per carità, questa pandemia ha provocato danni pazzeschi, morte, lutti. Anche noi abbiamo perso due dirigenti, di 50 e 60 anni. Uno stava guarendo, ma è morto per un’infezione contratta in ospedale. C’è stata una grande solidarietà dei colleghi per le famiglie, abbiamo assunto due loro figli”.

Però sulle prospettive economiche lei è ottimista.
“Per noi il lavoro è aumentato. All’inizio i clienti erano tutti spaventati, il mercato era crollato del 35%, c’era paura per i risparmi. Tv e giornali davano previsioni catastrofiche. Quando i clienti ci hanno contattato li abbiamo rassicurati, in alcuni casi abbiamo rovesciato il loro stato d’animo. Abbiamo spiegato che, così come si può tenere il virus fuori dalla porta, anche gli investimenti si possono proteggere. I nostri consulenti hanno fatto un lavoro straordinario, abbiamo organizzato tavole rotonde online con esperti. Il risultato è che, come raccolta totale, abbiamo già raggiunto i risultati dell’anno”.

Non va così bene a tutti. Crolleranno gli spazi per uffici e le attività connesse.
“Sì, ma aumenteranno i servizi a casa. Anche chi lavora dal proprio appartamento ha bisogno di assistenza logistica, e non solo per i computer. Nasceranno altri lavori, o si modificheranno. Il ristorante sotto la nostra sede si è convertito alle consegne a domicilio, al catering. Ma il vero problema è culturale”.

In che senso?
“Da sempre le crisi producono sferzate. Il problema dell’Italia è il fisco. Abbiamo le tasse più alte d’Europa sul lavoro e sulle imprese. Molti vedono ancora il fisco come un mezzo per ridistribuire la ricchezza. Ma è un concetto vecchio, superato, novecentesco: tassa e spendi, tassa la massa”.

E invece?
“Invece il fisco è lo strumento più efficace per la politica economica. È indispensabile per pagare i servizi, ma è fondamentale anche per indirizzare l’economia. Vuoi stimolarla? Abbassa le tasse sulle imprese. Vuoi aumentare i consumi? Abbassa l’Iva. Molti politici non si rendono conto di quanto è importante la leva fiscale per favorire gli investimenti a breve e medio termine”.

Il virus ha resuscitato lo statalismo. Tutti a chiedere sussidi, bonus e redditi di cittadinanza.
“Lo slogan ‘Nessuno deve restare indietro’ è giusto. Ma l’unico modo per farlo è creare lavoro. La gente vuole lavorare, non vivere di elemosina. E il lavoro lo creano le imprese”.

Invece i populisti amano lo stato che aiuta tutti. E hanno la maggioranza assoluta in Parlamento: grillini, leghisti, Fratelli d’Italia.
″È da sessant’anni che lavoro, ho visto l’Italia del boom, e la gente non è cambiata. Abbiamo sempre tanta voglia di fare. Non mi preoccuperei per le maggioranze parlamentari. In fondo, quando il Psi era filosovietico quanto il Pci e dall’altra parte c’era il Msi, le forze antisistema sfioravano il 50% anche allora. I partiti di governo hanno avuto sempre il problema di allargare la base democratica. Il Psi conservò una visione primitiva anti-imprese anche nel centrosinistra degli anni ’60. Il risultato fu che crollarono gli investimenti in Borsa”.

Non si sono mai granché ripresi, in Italia.
“Le imprese Usa si finanziano soltanto per il 30% con le banche, le italiane per il 90%. Non abbiamo mercato finanziario, siamo bancocentrici. Gli imprenditori americani quando investono fanno aumenti di capitale, agli italiani invece tocca andare a chiedere soldi in banca con le garanzie”.

Detto da un banchiere come lei...
“Le banche possono fare tante cose, oltre che prestar soldi alle imprese: collocare aumenti di capitale, gestire il risparmio. La principale banca Usa vale quanto le dieci più grandi banche europee”.

Il governo ha accusato le banche di essere lente nell’erogare i fondi previsti dai decreti.
“Per i finanziamenti da 25mila euro ci volevano cinque documenti. Se le aziende richiedenti ce li facevano avere in regola, noi ci mettevamo tre ore a evadere la pratica. Che poi però andava alla commissione governativa del Fondo di garanzia. La quale all’inizio si riuniva una volta al mese. E se c’era una virgola che non andava, la pratica tornava indietro. Poi la commissione si è riunita due volte al mese. Ora due volte a settimana, otto al mese. E le cose procedono”.

Lei è l’unico veneto favorevole al Ponte sullo Stretto.
“Il problema del Sud lo si risolve avvicinandolo al Nord. È assurdo che arrivando in Sicilia ci si metta ore per attraversare un piccolo braccio di mare. Il ponte può essere costruito con fondi privati, come il Tunnel sotto la Manica”.

Squilla il telefono. È don Davide Banzato, il prete presentatore tv vicino alla comunità Nuovi Orizzonti di Chiara Amirante. “Don Davide, posso richiamarti fra un quarto d’ora?”, gli dice Doris. E conclude l’intervista raccontandomi la vita di Chiara Amirante, che non conoscevo. Ma questa è un’altra storia.
Mauro Suttora

Thursday, July 02, 2020

Di Maio, il colpo di grazia alla politica estera italiana

Fiumi di propaganda a parte, il simpatico ministro ha un grande argomento dalla sua parte: non si uccide un uomo morto. La nostra politica estera già da tempo non esisteva più

Mauro Suttora

Huffington Post, 2 luglio 2020

articolo su HuffPost 

Vent’anni fa D’Alema ministro degli Esteri e i suoi accoliti furono definiti, per il loro penchant verso il business, “l’unica merchant bank al mondo che non parla inglese”. Ci risiamo. Tempi duri per gli angloglotti alla Farnesina. Dopo l’ineffabile Angelino Alfano, ministro nel governo Gentiloni (2017), ecco Giggino tanta buona volontà.

“Si è eccitato molto la prima volta che è andato a Londra come candidato premier M5S e poi a Harvard, negli Stati Uniti”, sibila un grillino che  conosce bene Luigi Di Maio, “volare in aereo lo rende euforico. Ha capito che la sua dimensione è quella. Altro che Pomigliano”.

Se l’era vista brutta nel maggio 2018, quando alla poltrona degli Esteri mirava Alessandro Di Battista. Ma allora i grillini non si erano ancora montati la testa, e Ale manco osò proporsi durante le trattative per il Governo gialloverde. 
Alla fine Mattarella impose Moavero, addirittura dalla gerla Monti. Uno agli antipodi del sovranismo grilloleghista, e infatti per Moavero fu una bella vacanza di un anno.

Prima missione di Di Maio al Governo: a Fiumicino per lo sputtanamento dell’Air Force Renzi, video in coppia con Toninelli. Due anni dopo l’aereo è sempre in quell’hangar.
Di Maio ricomincia a volare, perché vicepremier significa tutto e niente, ma di Sviluppo economico c’è bisogno ovunque. Al primo viaggio in Cina mostra orgoglioso il “bijetto di classe economica, perché noi non siamo come loro”. 
Poi chiama Xi “mister Ping”. Quello sussulta, perdona lo scugnizzo, e avanti con la via della Seta, Italia avanguardia d’Europa per la gioia degli Usa. 
Con Di Battista va a Parigi a solidarizzare con i gilet gialli, per la gioia di Macron. Poi è l’unico politico in Europa a non riconoscere presidente il capo dissidente venezuelano Guaidò.

Dieci mesi fa arriva il ribaltone, per Di Maio salta la poltrona di vicepremier visto il crollo alle Europee. La consolazione di lusso è la Farnesina. Ci sta pure lo scuorno per Di Battista. Le feluche ingoiano, dopo la Mogherini sono avvezzi a tutto.

Il debutto è all’annuale Assemblea generale Onu a New York. Di Maio ha un ritmo di lavoro teutonico, ogni giorno incontra omologhi e il suo staff, sapientemente guidato all’ambasciatore Sequi, sforna una valanga di comunicati. Quello più frequente, sempre uguale da dieci mesi, è sulla Libia. Dice così: “Il ministro Di Maio esprime la volontà di rafforzare il lavoro per fermare gli scontri e rilanciare il processo politico, allentare le tensioni e raggiungere un cessate il fuoco duraturo, nel pieno rispetto dell’embargo Onu e con l’identificazione di garanzie economiche e di sicurezza idonee a ricostruire la fiducia tra le parti libiche”.

Lo ripete a tutti, da dieci mesi. Nel frattempo c’è stata una guerra, l’Eni ha bloccato pompaggio ed export di petrolio, il generale Haftar è avanzato e si è ritirato che neanche Rommel, mercenari russi combattono militanti Isis, la Turchia si è ripresa la Libia cent’anni dopo averla persa con l’Italia e ci sta cacciando dai pozzi petroliferi del Mediterraneo.

Gli attivisti 5 stelle sono fermi alle invettive contro la Francia, che invece la guerra la sta perdendo assieme alla sua Total, e Di Maio è prigioniero dei loro luoghi comuni.
Secondo fallimento: Giulio Regeni. Salto triplo per il povero Giggino, massacrato sui social grillini per avere pure venduto due fregate all’Egitto che ci prende in giro. “La decisione politica non c’è ancora”, balbetta. Lo sa che l’accordo con Al Sisi prevede anche 24 aerei Eurofighter?

A febbraio è andato a Ciampino ad accogliere gli italiani rimpatriati da Wuhan. “Siamo i migliori al mondo contro il virus”, si è vantato come sempre. Dopo pochi giorni è scoppiata l’epidemia pure in Italia.
Due mesi dopo è tornato a Ciampino per accogliere Silvia Romano, la ragazza liberata dai terroristi islamici. Speravano di convincerla durante il volo a levarsi il chador. La sventurata ha tenuto duro. Risultato: 100mila voti in più per la Lega. Non è che Di Maio è anche un po’ sfortunato?
  
Prima del lockdown è tornato in Cina. Questa volta ha regalato a Xi Jinping una maglietta azzurra della nazionale. Poi i rapporti si sono un po’ guastati perché l’Italia ha chiuso i voli causa virus. Sono tornati buoni quando Di Maio ha fatto la claque alle mascherine inviate dai gerarchi cinesi. E adesso, figurarsi se emetterà uno dei suoi innumerevoli post per criticare la repressione a Hong Kong.

Appena finito il picco della pandemia ha ripreso a volare. Prima ha preteso “rispetto” dagli Stati riluttanti a riaprirci le frontiere. Come comprensibilmente ha fatto la Grecia, 190 morti contro i nostri 34mila, posponendo il via libera al 1 luglio almeno per i lombardi. Di Maio è piombato ad Atene il 9 giugno e ha emesso il solito comunicato di vittoria: “Ho ottenuto l’apertura il 1 luglio”.

Fiumi di propaganda a parte, il simpatico Di Maio ha un grande argomento dalla sua parte: non si uccide un uomo morto. Lui sta solo dando il colpo di grazia a una politica estera italiana che già da tempo non esisteva più.

Quanto all’antropologia, aveva già previsto tutto in un carme del 2013 la poetessa Paola Taverna, oggi vicepresidente del Senato,che ben conosce i suoi polli grillini:

“Che meraviglia sei diventato senatore (ministro)
E mo’ te senti er più gran signore
Lasci interviste e fai er politico sapiente
Pe me e pe’ troppi ancora sei poco più de gnente
Te guardo incredula seduto proprio accanto
E penso che non sai qual gran rimpianto
De quelli che vicino me stavano ai banchetti
E senza dubbio alcuno capivano i concetti
Proponi accordi strani e vedi prospettive
Mentre io guardo ste merde e genero invettive
So io quella sbagliata che ha perso er movimento?
O te come bandiera ora giri insieme al vento
E invece de grida’ ‘Annate tutti a casa’
Te inventi le cazzate, ma questa è n’antra cosa”.
Mauro Suttora