Monday, November 25, 2013

D'Annunzio socialista: come Grillo


Pochi sanno che il Vate per un anno fu deputato del Psi, e addirittura candidato nel 1900 per il partito allora di estrema sinistra. Usava toni da Grillo, e riuscì a ingannare i dirigenti socialisti. Ma gli elettori bocciarono questa sua capriola

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera), 22 novembre 2013

«Sono spinto dal disgusto per gli altri partiti. Non c'è più altra possibile politica che quella del distruggere. Ciò che esiste adesso è nulla, marciume, morte che si oppone alla vita. Bisogna dapprima saccheggiare tutto».

Beppe Grillo? No: Gabriele D'Annunzio. Era il 1899, e il Vate passò ai socialisti dopo due anni da deputato di destra. Uno Scilipoti ante litteram. Non aspettò neppure la conclusione del mandato per compiere il salto della quaglia, come facevano di solito i trasformisti alla Depretis per salvare il decoro. Lui, principale precursore e ispiratore del fascismo, ci mise poco a passare da un estremo all'altro del Parlamento.

L'occasione fu l'ostruzionismo contro le leggi liberticide del governo Pelloux. «Vado verso la vita!», fu la celebre frase con cui il poeta giustificò il tradimento. Che non fu di poco conto: i socialisti, allora, erano gli estremisti dell'opposizione di sinistra (repubblicani, radicali). Entravano e uscivano di prigione, i cannoni del generale Bava Beccaris li avevano massacrati durante la rivolta del 1898. E proprio D'Annunzio era uno dei loro principali zimbelli: odiavano quel poetucolo nano, strafottente e decadente, idolo della piccola borghesia. Il quale a sua volta non perdeva occasione per irridere le loro idee di eguaglianza.

Si sta concludendo l'anno dannunziano (150° dalla nascita, 1863). Quasi nessuno ha ricordato l'anno socialista del poeta di Pescara, parentesi minima in una turbolenta vita tutta spesa all'estrema destra: dalla beffa di Buccari all'impresa di Fiume, dal volo su Vienna al ritiro nel Vittoriale. 

Ma, soprattutto, risulta incredibile l'infatuazione dei massimi dirigenti socialisti, dal direttore del quotidiano Avanti! Leonida Bissolati al segretario Filippo Turati, per il Vate individualista ed esibizionista. Il quale nei pochi mesi in cui sventolò la «bandiera color vermiglio» (gli dava noia chiamarla rossa) non abbandonò affatto le proprie idee da superuomo nietzschiano. Ciononostante, il Psi si lasciò prendere da un incomprensibile entusiasmo per il convertito. Un po' come oggi, quando chiunque a destra si opponga a Silvio Berlusconi (da Gianfranco Fini ad Angelino Alfano) viene immediatamente rivalutato e portato sugli altari dal Pd.
 
Gli unici a mantenere un po' d'equilibrio furono gli elettori di sinistra: fecero subito giustizia di quella banderuola arrogante, bocciandolo nel collegio fiorentino dove il Psi lo aveva candidato nelle politiche anticipate dell’agosto 1900.
 
Ricostruiamo questa grottesca vicenda 'contro natura' grazie a documenti inediti o dimenticati rinvenuti dal professor Antonio Alosco, docente di Storia contemporanea all'università di Napoli, che sta pubblicando il libro D'Annunzio socialista. «Il poeta, eletto deputato nel 1897 per la destra in un collegio della sua terra d'origine, Ortona in provincia di Chieti», ricorda Alosco, «si batteva per il ripristino della grandezza della patria sul modello di Roma imperiale. Anelava alla supremazia di una classe dominante che possedesse virtù aristocratiche, appannate dal dominio della borghesia bottegaia. Nazionalista, disprezzava profondamente ogni principio democratico».

Cosa provocò, allora, il voltafaccia del 1899? «L'ostruzionismo della sinistra contro i provvedimenti straordinari proposti dal governo del generale Luigi Pelloux», spiega il professor Alosco, «al quale in giugno si unirono anche i liberali illuminati di Giolitti e Zanardelli. L'ostruzionismo era un metodo fino ad allora sconosciuto nelle nostre aule parlamentari. Ma era giustificato dalla gravità delle leggi in votazione: domicilio coatto ripristinato anche per motivi politici, polizia che poteva vietare riunioni in luoghi pubblici, scioglimento di associazioni ritenute sovversive, impiegati pubblici militarizzati, restrizioni alla libertà di stampa».

Fu quest'ultimo provvedimento a urtare la suscettibilità di D'Annunzio, che scriveva da anni su giornali nazionali: il governo non poteva limitare la sfera degli uomini di pensiero. Dopo mesi di grandi turbolenze, il 23 marzo 1900 votò anche lui contro il governo. Più per motivi estetici che politici. Il giorno dopo, infatti, aderì ufficialmente all'Estrema sinistra, accolto da un'ovazione, con queste parole: «Da una parte vi sono molti morti che urlano, dall'altra pochi uomini vivi ed eloquenti. Come uomo d'intelletto, vado verso la vita».

Tre giorni dopo D’Annunzio riprende la metafora vivi/morti, oggi cara a Grillo, in un articolo sul Mattino di Napoli diretto dal suo amico-nemico Edoardo Scarfoglio. Poi vota un ordine del giorno per la scuola laica. Tanto basta ai giovani socialisti fiorentini per mandargli subito un telegramma: «Studenti plaudono vostro atto generoso osato in mezzo tanta viltà».

Il Vate si sente già un capo della sinistra. Sull'ostruzionismo dichiara a un giornale inglese: «Non fuvvi battaglia, ma una ritirata che vale più di una battaglia […] Non ho alcuna speranza nella pacificazione invocata. Se avvenisse non potrebbe essere sincera». Non sembra il Berlusconi di oggi?

Il governo comunque, indebolito, per ridimensionare la sinistra scioglie la Camera e indice nuove elezioni. Il Psi candida D'Annunzio a Firenze, dove il poeta risiede da due anni nella villa La Capponcina, a Settignano.

L'Avanti! di Bissolati si sbrodola: «L'adesione di D'Annunzio all'Estrema ha un alto significato. L'impulso intellettuale che spinse il finissimo artista a correre con noi sta ad indicare quanto l'azione dell'Estrema risponda alle ragioni della dignità civile». Precisa: «Da D'Annunzio ci separa il concetto che noi abbiamo della vita sociale. Ma ad esso ci uniscono il bisogno di libertà e l'esigenza di condizioni civili che assicurino il pieno e rigoglioso sviluppo dell'individuo, così come del corpo sociale».

Nei mesi seguenti l'organo socialista accentua l'ammirazione per il Vate: «Artista superiore e illustre», «Figura gloriosa di letterato, poeta, commediografo, romanziere, viva e fulgida gloria d'Italia». Nota il professor Alosco: «L'Avanti! dà più spazio a lui che a esponenti di primo piano del partito come Andrea Costa, cui dedica poche righe di cronaca dei comizi. Ma, soprattutto, pubblica in prima pagina suoi articoli e ampie recensioni delle sue opere. Nei titoli usa perfino lo stile aulico dannunziano: 'secondo assalto' invece di ballottaggio, 'vigilia d'armi', 'dopo la lotta'». E pazienza se il Psi, pacifista, detesta tutto ciò che sa di militarismo.

D'Annunzio pubblica il libro Il Fuoco? Bissolati gli regala un lungo articolo in prima. «Del tutto inusitato in un giornale politico, figurarsi in quello del partito socialista», si sorprende Alosco. Il Vate ricambia sull'unico terreno comune che trova con la sinistra: scrive un'ode a Garibaldi. E nei comizi tesse elogi degli agricoltori.

Anche Turati considera D'Annunzio un rivoluzionario sia nell'arte, sia nel sociale. Aveva scritto infatti già nel 1881 sul giornale La Farfalla: «Se lo lasciano fare è capace del suo bravo colpo di stato artistico, sconvolgendo gli ordini e le gerarchie costituite». E l'anno dopo: «Coscientemente o incoscientemente, è socialista e ribelle».

Ciononostante, l'Inimitabile al voto viene sconfitto: il conte di destra Tommaso Combray Digny raccoglie quasi il doppio dei suoi suffragi, 1.158 contro 619. D'Annunzio si consola solo per aver raddoppiato i trecento voti del proprio predecessore candidato di sinistra.
    
Dopo il disastro l'infatuazione socialista scema. D'Annunzio dice al Times dopo la sconfitta: «Credete che io sia socialista? Io sono sempre lo stesso; fra quella gente e me esiste una barriera. Sono e rimango individualista ad oltranza, individualità feroce. Mi piacque entrare un istante nella fossa dei leoni, ma vi fui spinto per disgusto degli altri partiti. Il socialismo in Italia è un'assurdità. Da noi non c'è più altra possibile politica che quella del distruggere». E via, verso nuove avventure. Ingrato.
Mauro Suttora

Wednesday, November 20, 2013

parla McCurry

IL FOTOGRAFO PIU' FAMOSO DEL MONDO

di Mauro Suttora


Milano, 13 novembre 2013
Mille persone in fila sotto la pioggia in via San Vittore. Soltanto 180 riescono a entrare nella sala del Museo della Scienza e della Tecnica. C’è una conferenza di Steve McCurry, 63 anni, il fotografo più famoso del mondo.  Popolare come una rockstar: la scorsa estate ha parlato a Siena, all’inaugurazione di una sua mostra (prorogata fino al 6 gennaio), stessa folla.

McCurry è diventato una celebrità nel giugno 1985, grazie al ritratto della ragazza afghana. Ma non ha smesso di viaggiare. Ancor oggi si lancia in avventure sconsiderate, in zone di guerra. Perché?

«Suona banale dirlo, ma è per l’adrenalina. Mi eccita schivare le pallottole».

È pericoloso.
«Ma è anche il mestiere più bello del mondo. Lo faccio da 40 anni, non smetterei mai».

Fa più fatica, oggi?
«Al contrario. Con l’esperienza sono diventato più bravo. Forse perché sono basso: riesco a intrufolarmi dappertutto».

Deve passare inosservato?
«Sì. La prima volta che andai in Afghanistan, nel 1978, ero oggetto di una curiosità esotica. Tutti mi si affollavano attorno, curiosi per la mia attrezzatura».

Come fece?
«Aspettavo. La dote principale per un fotografo è saper aspettare. Quando la gente si abitua a me, posso cominciare a lavorare».

Dopo quanto tempo?
«Se sei fortunato, bastano quindici secondi per convincere una persona a regalarti la sua anima. Altrimenti, bisogna attendere che la guardia si abbassi».

E quando si è abbassata?
«Allora fa capolino l’essenza dell’anima, l’esperienza scolpita sul viso di una persona». 

Come fa a catturarla con un clic?
«Cerco di far capire cosa vuol dire essere quella persona. Una persona imprigionata in un paesaggio più ampio, cui si può dare il nome di “condizione umana”».

Qual è il suo posto preferito?
«L’India. Fotograficamente, è il Paese più affascinante del mondo. Non ce n’è un altro così ricco e vario per geografia e cultura».

Quante volte c’è stato?
«Circa 85. Mi piace il caos e la confusione di Bombay e Calcutta. Città pazze, quindi fantastiche per lavorarci. Ma tutta l’Asia è più ricca, visivamente, dei Paesi occidentali».

Perché?
«Perché lì la vita scorre per strada. Giocano, lavorano, mangiano, vivono all’aperto. Dove fa più freddo la gente si rintana dentro casa. E nelle città ricche la vita è troppo ordinata e organizzata per essere interessante».

In più, lei vuole la guerra.
«No. Le conseguenze della guerra. È importante che qualcuno le mostri, e che siano conosciute da tutti».

Berlusconi e i suoi vice: Galliani, Alfano

VIA DAL MILAN IL PRIMO. VIA DAL GOVERNO IL SECONDO?

di Mauro Suttora

Oggi, 13 novembre 2013

Brutto mese, novembre, per Berlusconi. Due anni fa venne estromesso dal governo per far posto a Mario Monti. L’anno scorso i sondaggi davano il Popolo delle Libertà crollato al 15 per cento senza di lui. Dovette riprendere la guida del partito da Angelino «senza quid» Alfano per pareggiare in extremis le politiche di febbraio.

Adesso la data fatidica è il 27 novembre: il Senato vota la sua «decadenza» dopo la condanna per frode fiscale a quattro anni di carcere, e due di interdizione dai pubblici uffici.

«I magistrati non possono eliminare dalla politica il capo di uno dei maggiori partiti», dicono in coro i suoi. Subito dopo, però, si dividono. Alfano esclude di far cadere il governo guidato da Enrico Letta di cui è vice, dando le dimissioni e togliendo la fiducia: «Si andrebbe al voto e vincerebbe la sinistra». «Traditore,  vuoi rimanere attaccato alla poltrona anche dopo che la sinistra ha espulso Berlusconi dal Parlamento», gli ribattono i «lealisti» (Denis Verdini, Raffaele Fitto, Sanro Bondi).

«Farete la fine di Fini»

Alla fine decide Berlusconi in persona: «Come possono i nostri senatori e ministri collaborare con chi compie un omicidio politico?» E aggiunge minaccioso: «Non andrete da nessuna parte. Anche Fini e gli altri ebbero due settimane di spazio sui giornali. Ma poi è finita com’è finita».

Il Consiglio nazionale del Pdl è convocato per sabato 16 novembre. Sono 863 i membri che annunceranno la morte del partito, e la rinascita di Forza Italia. Ma per farlo devono arrivare ai due terzi dei voti.

In ogni caso, anche se dentro al suo partito prevarrà Berlusconi, non è detto che il governo Letta cada. Alla Camera, infatti, Pd e Scelta Civica hanno la maggioranza anche senza il Pdl. E al Senato bastano 20-30 senatori Pdl (o ex Cinque stelle) per conservarla. Dopodiché, Letta potrebbe andare avanti a governare anche fino al 2015, come spera il presidente della Repubblica Giorgio Napolitano.

I governativi hanno i voti necessari

Si ritornerebbe, insomma, allo scenario del 2 ottobre. Quando i «governativi» del Pdl (oltre ad Alfano gli altri ministri  Gaetano Quagliariello, Maurizio Lupi, Beatrice Lorenzin, Nunzia De Girolamo,   più big come Fabrizio Cicchitto e Roberto Formigoni) avevano già racimolato i voti necessari a proseguire le «larghe intese». E Berlusconi, piuttosto che perdere, con un colpo di scena votò la fiducia.

L’altro fronte che angustia l’ex premier in questi giorni è quello sportivo. Il suo Milan è in crisi nera, e la figlia Barbara ha chiesto la testa del vicepresidente Adriano Galliani. Anche qui, Berlusconi non si commuove. Facile disfarsi dell’allenatore Massimiliano Allegri: appartiene all’unica categoria di lavoratori immediatamente licenziabili in Italia. Più problematico rompere i rapporti con Galliani, che per più di un quarto di secolo è stato l’alter ego del cavaliere nel calcio, e che prima aveva messo in piedi tutta la rete dei ripetitori delle tv Fininvest.

L’uscita del vicepresidente sarà morbida, posticipata a primavera e compensata lautamente. Questo non toglie che ricorda un po’ la testa di Giovanni Battista ottenuta da Salomè dopo aver danzato per il padre Erode.

La bella e arrembante Barbara-Salomè richiamerà al Milan Paolo Maldini come direttore tecnico ed eventualmente Clarende Seedorf. Ma il padre comincia anche a considerarla per un futuro politico, dopo il no della primogenita Marina. Qui però le cose per il povero Berlusconi si complicano. Perché un conto è far andare d’accordo i due galletti Alfano e Fitto, un altro Marina e Barbara.
Mauro Suttora

Italiani a New York

Bill de Blasio sindaco, ma i nostri connazionali sono ancora discriminati. Adesso i figli dei nostri emigrati sono sia al vertice della città sia dello stato, con Andrew Cuomo. Eppure l’invisibile apartheid sociale di Manhattan colpisce ancora gli italoamericani. Ecco come

di Mauro Suttora per il settimanale Oggi


New York (Stati Uniti), 13 novembre 2013
Potrebbe perfino diventare presidente degli Stati Uniti, un giorno. Bill de Blasio da Sant’Agata dei Goti (Benevento), nuovo sindaco di New York, ha avuto tanti di quei voti che fra otto o 12 anni nulla gli vieterebbe di ambire alla poltrona più importante del mondo. Come fu già per Rudy Giuliani, altro sindaco italoamericano fino al 2001 e candidato alle primarie presidenziali nel 2008.

Ma cosa vuol dire essere italoamericani oggi a New York? Molti ignorano che nella città apparentemente più aperta e democratica del mondo, incredibilmente, esiste ancora l’apartheid. Nessun italiano può abitare in un palazzo/zona di ebrei o wasp (acronimo che significa white, anglosaxon protestant, cioè bianchi, anglosassoni protestanti) o irlandesi o neri. E viceversa.

I miliardari di Park avenue

Perfino a Park Avenue uno come Gianni Agnelli aveva trovato posto in un bulding «international», ovvero riservato ai miliardari stranieri, mentre i palazzi vicini sono totalmente ebrei o wasp. Quasi mai misti.

Ugualmente, nelle decine di feste di gala che accendono ogni notte Manhattan, dal Waldorf Astoria al Plaza, vige una codice non detto, ma strettissimo per cui è praticamente impossibile per un nero o un italiano accedere ai board e ai tavoli delle feste di beneficenza più ambìte: basta scorrere le liste dei cognomi degli invitati per accorgersene. Ed è qui che si svolge la vita sociale che conta.

Gli italoamericani, anche quelli ricchi, sono confinati in zone ben precise di Brooklyn, Staten Island, Bronx e New Jersey. Vantano una sola giornalista famosa: Maria Bartiromo, appena passata dalla rete tv Cnbc alla Fox.

Sono discriminati come mafiosi, considerati tutti Sopranos, e la sede della loro Fondazione (Knights of Columbus, Cavalieri di Colombo, organizzatori dell’annuale parata del 12 ottobre, anniversario della scoperta dell’America), nell’elegante Upper East Side, è tanto prestigiosa quanto snobbata dall’establishment sociale/finanziario/culturale.

Poliziotti e pompieri, feudi nostri

Le uniche rivincite ce le prendiamo in politica (un altro italiano, Andrew Cuomo, è presidente dello stato di New York), nel cinema (Robert De Niro, Martin Scorsese, Al Pacino, Francis Ford Coppola) e negli altri due feudi newyorkesi, polizia e pompieri, in condominio con gli irlandesi.

Certo, i ristoranti di Cipriani o la libreria Rizzoli sulla 57esima Strada sono affollati anche dai newyorkesi che contano. Ma quella è considerata un’Italia raffinata, lontana dagli immigrati.
Mauro Suttora

Wednesday, November 13, 2013

Barbara Berlusconi

di Mauro Suttora

Oggi, 6 novembre 2013

Negli sprint di ciclismo di solito vince il secondo, che sbuca da dietro all’improvviso infilando l’apripista. Lo stesso farà Barbara Berlusconi, ai danni della sorellastra Marina?
Missione impossibile, all’apparenza. Marina B. è sugli scudi di tutti i berlusconiani. Da tre mesi, dopo la condanna del padre, è diventata una dei suoi consiglieri più stretti in politica. Materia che le è totalmente indifferente, presa com’è dalla presidenza Mondadori. Lei e papà continuano a smentire una sua discesa in campo nei palazzi romani. Ma più negano, meno i forzisti ci credono: addirittura due su tre, dice qualche sondaggio, scommettono su di lei come erede politica.

E Barbara freme. Alla soglia dei trent’anni, la terzogenita di Silvio vuole farsi strada. Il solco è tracciato: per lei c’è il Milan, quarta gamba dell’impero di famiglia dopo Mediaset (andata al fratellastro Pier Silvio), Mondadori (Marina) e Forza Italia. Due anni fa, dopo la laurea breve in filosofia (Marina invece non è laureata), B.B. è stata nominata consigliere d’amministrazione della squadra di calcio.
«Immagino un mio futuro in Mondadori», aveva osato dichiarare, causando sconcerto nel padre e ira nella sorellastra che vedeva minacciato il feudo acquisito dal 2003. Provocazione? Invasione di campo? «Sarà manovrata dalla madre», sussurrarono i maligni. Veronica Lario, già in tempestosa rotta con l’ex marito e gran paladina della sorte dei propri tre figli.

Ma in questi anni Barbara ha imparato a giocare in proprio. E ormai le va stretto il seggiolino da consigliere d’amministrazione del Milan con cui era stata tacitata dopo quella sua prima alzata di testa.

Il giocattolo non le basta più. «Ci vuole un cambio di rotta nella società», ha annunciato dopo l’umiliante sconfitta in casa del Milan con la Fiorentina. Protesta con il padre, naturalmente precisa che non ce l’ha con Adriano Galliani. Ma vale di più il vicepresidente quasi 70enne che sta perdendo tutto o la figlia arrembante del presidente? Pagherà, come sempre, l’allenatore: Massimiliano Allegri. Pagherà anche per aver trattato male Alexander Pato, il baby-fidanzato di Barbara (cinque anni in meno) usato e buttato come tanti altri giovani simboli mancati dell’ex squadrone (Kaka, Stephan El Shaarawy).

La capricciosa Barbara, invaghita del «papero», ci aveva progettato casa assieme: si era fatta dare dal babbo 9,3 milioni per mezzo migliaio di metri quadri di attico e superattico in centro a Milano. Ora, dopo il mesto ritorno di Pato in Brasile a gennaio e la fine della storia a luglio, Barbara si è messa con un altro 24enne: lo studente di economia Lorenzo Guerrieri, barman a tempo perso nell’enoteca monzese Mulino dove si sono conosciuti. Addominali scolpitissimi, praticamente un sosia di Pato. Anche lui di Monza come Giorgio Valaguzza, dal quale senza sposarlo B.B. ha avuto i figli Alessandro (che ha appena compiuto sei anni) ed Edoardo. Gira e rigira, insomma, le berluschine nelle cose importanti sempre attorno alla loro Brianza ruotano.

Fra Barbara e Marina i rapporti sono agrodolci. Il gelo durato anni, dopo il mancato arrembaggio di B.B. alla Mondadori, pare si sia stemperato di recente. Ora tutti i figli, di primo e secondo letto, accorrono presso il padre 77enne nelle occasioni importanti: feste, compleanni e condanne penali.
Ma Barbara rimane il terrore degli addetti stampa Fininvest e la delizia dei giornalisti: le sue interviste, contrariamente a quelle di Marina, non sono concordate. Quindi ogni volta escono affermazioni clamorose e imprevedibili. Come quando disse che mai e poi mai avrebbe fatto vedere ai figli certi programmi delle tv Mediaset, e Maurizio Costanzo si offese. Nel 2007 ammise di aver fatto comprare dal padre per 20 mila euro certe imbarazzantissime foto scattatele da un paparazzo davanti a una discoteca di Milano. E dovette spiegare al pm Henry John Woodcock (detestato da Berlusconi) il ricatto subìto da Fabrizio Corona.

Nulla di più lontano dalla tranquilla vita privata di Marina. La quale al massimo convoca lei i paparazzi per farsi ritrarre a bordo piscina in foto «finte rubate». Dopo un fidanzamento durato dieci anni ma finito male, ha sposato il padre dei suoi due figli (Gabriele e Silvio), l’ex ballerino Maurizio Vanadia.

Come finirà il confronto/duello fra le due primedonne dell’impero di Arcore? Barbara, contrariamente a Marina, non ha mai detto che non le piace la politica. Dopotutto, suo padrino di battesimo nel 1984 fu Bettino Craxi, allora premier all’apice della gloria. «È bravissima, meglio lei di Marina», assicura il filosofo Massimo Cacciari. Che è di sinistra, ma era anche il rettore dell’università San Raffaele dove B.B. si è laureata.
Mauro Suttora