Wednesday, December 19, 2012

Ma quando si vota?


di Mauro Suttora

Oggi, 19 dicembre 2012


Mancano soltanto 45 giorni al 3 febbraio, data fissata dal Tar per le elezioni regionali del Lazio, ma non si sa ancora nulla. Si voterà, non si voterà? «Richiami nei prossimi giorni», rispondono sconsolati al ministero degli Interni. In nessun Paese di democrazia occidentale era mai successo un disastro del genere. Siamo nell’incertezza più assoluta.

Sono in ballo quattro elezioni: le politiche nazionali (Camera e Senato), più le regionali in Lombardia, Lazio e Molise. Per nessuna di queste, a pochissime settimane dal voto, è fissata una data. Per i partiti già rappresentati in Parlamento e nei tre consigli regionali, poco male: presenteranno le liste dei candidati anche all’ultimo minuto.

Ma tutti gli altri (Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo, i Radicali di Marco Pannella ed Emma Bonino, Verso la Terza Repubblica di Luca Cordero di Montezemolo, La Destra di Francesco Storace ed altri) devono raccogliere moltissime firme. Per le Politiche addirittura 160 mila. Impossibile che ce la facciano. L’unico senza problemi sembra Grillo: ai suoi banchetti c’è la fila per sottoscrivere.

E pensare che, per legge, la raccolta firme dovrebbe iniziare sei mesi prima. Ma la regola salta in caso di voto anticipato. E questo è il caso di tutte e quattro le elezioni. Le politiche arrivano due mesi prima la scadenza naturale (aprile) per non accavallarsi con il voto per il nuovo presidente della Repubblica. 

L’unica cosa sicura, adesso, è che andremo alle urne in febbraio. Naturalmente la soluzione più logica è che si voti nello stesso giorno dappertutto: risparmio di soldi per lo stato e di tempo per i cittadini. Ma per gli azzeccagarbugli la semplicità non è una virtù. Possiamo solo sperare che prima o poi il Consiglio dei ministri si svegli e decida. Deve  comunque farlo, prima di Natale. Altrimenti si slitta a marzo.     

Wednesday, December 12, 2012

Com'è finita all'Acna di Cengio?

PRIMA DELL'ILVA DI TARANTO, ERA QUESTA FABBRICA IN PROVINCIA DI SAVONA IL SIMBOLO DELL'INQUINAMENTO INDUSTRIALE IN ITALIA. DOPO DECENNI DI LOTTE, È STATA CHIUSA NEL 1999. 700 DIPENDENTI HANNO PERSO IL POSTO. MA LA VAL BORMIDA È RINATA. SIAMO ANDATI A VEDERE COM'È LA SITUAZIONE OGGI, E SE PUO' ESSERE UN ESEMPIO PER L'ILVA

dal nostro inviato Mauro Suttora

Cortemilia (Cuneo), 5 dicembre 2012
Cesare Canonica ricorda quella volta che gli tornò indietro un intero carico di vino dal ristorante di Molini Triora (Imperia): il dolcetto era acido e puzzava, inquinato dalla nebbia al fenolo. Adesso la sua cantina produce 70 mila litri all’anno, nei terrazzamenti di Torre Bormida crescono anche Arneis e Chardonnay, sua figlia Emanuela ha sposato Lorenzo Novelli che fa andare avanti gli affari, e soprattutto nel 2011 è nata la stupenda Ludovica, occhi verdi.

Alberto Gallo dopo la chiusura della fabbrica ha aperto l’agriturismo Bertorella proprio in riva al fiume Bormida, che prima era a volte rosso a volte nero, mentre ora è tornato azzurro. E Ginetto Pellerino è potuto tornare al suo lavoro in banca, dopo anni di battaglie contro il mostro che inquinava. Le ha appena raccontate in un libro: Acna, gli anni della lotta (edizioni arabAFenice, Boves). E da poco Patricia Dao, scrittrice francese e traduttrice della poetessa Alda Merini, ha pubblicato anche lei un romanzo su quell'epoca epica. Purtroppo è morto (in un incidente stradale) il suo compagno Renzo Fontana, anima di quelle lotte.

Acna di Cengio. Un nome che, come l’Ilva di Taranto o l’Icmesa di Seveso, è sinonimo di fabbrica tossica. Vent’anni fa fece scoppiare una mezza guerra civile fra la Liguria e il Piemonte: l’impianto chimico infatti dava lavoro a 700 dipendenti in provincia di Savona, ma i suoi scarichi avvelenavano l’intera val Bormida, per cento chilometri giù fino a Acqui Terme (Alessandria). Un Giro d’Italia venne bloccato, al festival di Sanremo 1989 Gino Paoli e Al Bano-Romina cantarono esibendo la spilletta “Val Bormida Pulita”. Alla fine, nel 1999, la fabbrica venne chiusa. La bonifica non è ancora terminata: un immenso sarcofago di cemento copre tre milioni di metri cubi di fanghi tossici. Ma nella valle la vita è rinata, l’agricoltura e il turismo si sono sviluppati, operai e contadini hanno fatto la pace.

È un modello esportabile a Taranto? «A Cengio c’è stata collaborazione fra istituzioni, ambientalisti, industria e politici», dice il senatore Ignazio Marino (Pd), «che hanno superato il blocco della scelta fra diritto al lavoro e salute». Più cauto Pellerino: «La fabbrica era già scesa dai 4mila dipendenti del 1979 a 700. Quando chiuse, tredici anni fa, erano rimasti in 200. Fra prepensionamenti e altri ammortizzatori, il colpo per i lavoratori è stato pian piano riassorbito. Ma a Taranto i numeri sono diversi».

Ed è diversa soprattutto la situazione sociale: 12 mila posti di lavoro, 20 mila con l’indotto, nel Sud depresso e in periodo di crisi. Le alternative alla disoccupazione (agricoltura, turismo, industrie pulite) offrono poche centinaia di posti. In Liguria e Piemonte, invece, il benessere è diffuso. Le industrie di Cairo Montenotte e Savona resistono. E l’alta Langa gode del boom del vino, oltre alle nocciole che riforniscono la Ferrero di Alba per la Nutella e ai turisti svizzeri, inglesi e tedeschi che comprano casolari per trasformarli in ville di lusso.

Detto questo, però, l’Acna (come la Ruhr in Germania) resta un modello di transizione ecologica. Anche perché l’Azienda coloranti nazionali e affini, come si chiamava, era nata addirittura nel 1882 come dinamitificio, e quindi era ben radicata nella storia locale. Con un solo difetto: buttava nel fiume i propri scarichi. Il primo pretore, di Mondovì, intervenne nel 1909 per vietare l’utilizzo dell’acqua potabile dai pozzi di Saliceto, Camerana e Monesiglio, i comuni subito a valle di Cengio: la falda era già compromessa. 

Poi fu impossibile usare l’acqua della «Burmia» anche in agricoltura. E allora nel 1938 ben 600 contadini citarono l’Acna per danni. Probabilmente la prima class action per inquinamento nel mondo. Scoppia la guerra, cade il fascismo, arriva la libertà ma nel ‘62, dopo 24 anni, un giudice dà loro torto e li condanna a pagare le spese processuali. Dice addirittura che i residui chimici nell’acqua sono utili come fertilizzanti...

I primi cortei risalgono a quell’epoca, guidati dal deputato locale Antonio Giolitti (prima Pci, poi Psi). Ma la svolta arriva ‘grazie’ a Seveso e alla conseguente legge Merli sulle acque reflue. L’Acna (di proprietà prima Montecatini, poi Montedison, Enimont e infine Eni), che produce materiali di chimica di base, è fuorilegge. Ma ci vorrà il primo ministro verde all’Ambiente, Edo Ronchi nel 1996, a imporre un’impossibile depurazione e quindi la chiusura. Ora all’area ex-Acna è interessata l’Agrimovil, società di Singapore, per un impianto a combustibile vegetale (paglia e scarti di mais). «E per noi è finito un incubo durato un secolo», conclude Pellerino.

Monday, December 10, 2012

Monti si è dimesso. E ora?


di Mauro Suttora

Oggi, 10 dicembre 2012

Che cosa succede adesso.
Il presidente del Consiglio Mario Monti ha annunciato le proprie dimissioni dopo l’approvazione della legge di stabilità (bilancio 2013) da parte del Parlamento. Questo dovrebbe avvenire attorno a Natale, con nuove elezioni quindi possibili già in febbraio (70 giorni dopo lo scioglimento delle Camere). La legislatura sarebbe comunque finita ad aprile, quindi si tratta di un anticipo di due mesi.

Perché Monti si è dimesso.
Perché il segretario Pdl Angelino Alfano ha dichiarato di aver tolto la fiducia il governo. E Silvio Berlusconi, annunciando la propria sesta candidatura a premier, lo ha criticato pesantemente. Monti avrebbe potuto sopravvivere per due mesi con l’astensione Pdl sulle leggi in discussione (diminuzione province, legge elettorale, ecc), ma ha preferito dare un taglio netto.

Cosa farà Monti.
Non si sa. Forse lo annuncerà alla conferenza stampa di fine anno il 21 dicembre. Le ipotesi sono quattro: 1) succederà a Giorgio Napolitano come presidente della Repubblica in aprile. 2) formerà un governo Monti bis dopo avere guidato alle elezioni una lista di centro con Casini, Fini, Montezemolo e ministri del proprio governo. 3) Monti bis nel caso che nessun partito raggiunga la maggioranza, e non si trovi un accordo per un premier eletto dal popolo. 4) A disposizione per alte cariche nell’Unione europea.

Sondaggi.
Si prevede che il centrosinistra vinca le elezioni e che quindi Pier Luigi Bersani diventi premier. Difficilmente Monti accetterebbe il posto di ministro dell’Economia nel suo governo, come fece l’ex premier Carlo Azeglio Ciampi nel 1996 nel governo Prodi. Se Bersani non riuscirà a ottenere una chiara maggioranza sia alla Camera sia al Senato, dovrà trovare un alleato. Questo potrebbe essere il Centro di Casini-Fini, che però oggi è accreditato solo al quarto posto, dopo il Pdl e il Movimento 5 Stelle di Beppe Grillo.

Emergenza economica.
Molto dipende dallo spread, indicatore della fiducia dei mercati. Se dovesse alzarsi troppo, ci sarebbe più spazio per un Monti-bis. Ma sia Bersani sia Berlusconi considerano chiusa la fase dei governi tecnici. Gli unici a considerare Monti come proprio leader sono Casini, Fini e Montezemolo. Però a Monti non conviene identificarsi troppo con una parte politica, soprattutto se il Centro nei sondaggi continuasse a stagnare attorno al 10 per cento.        

Friday, December 07, 2012

Grillo: parlano gli antipartito del passato


di Mauro Suttora
Sette (Corriere della Sera), 7 dicembre 2012
Il Movimento 5 stelle non è il primo a voler «fare politica in modo pulito». Ecco l'opinione su Grillo dei leader dei movimenti «antisistema» degli ultimi 40 anni.  

MARIO CAPANNA (SESSANTOTTINI)
«Grillo mi è istintivamente simpatico, perché ci mette la faccia ed è molto documentato. Deve aver letto almeno due miei libri, sicuramente Coscienza globale. Ogni movimento allo stato nascente gode di un carisma temporaneo. Il problema è la durata. Durante la democrazia diretta assembleare del ’68 i leader dovevano meritarsi la loro qualifica giorno per giorno, nel confronto diretto con centinaia e migliaia di studenti. Oggi nella democrazia telematica manca il contatto diretto con i cuori e le menti. 
In rete circola una gran quantità di ciarpame. Casaleggio stesso dice che il web non è innocente, e teorizza il ruolo degli “influencer”. Grillo è sicuramente un “innovatore”: ora deve dimostrare di essere anche un “rinnovatore”. 
Lui unico controllore del marchio, lui che parla senza contraddittorio in rete e nei comizi: nel ’68 sarebbe stato inconcepibile, le assemblee erano luogo di confronto anche aspro, ma di dialogo. Oggi invece si rischia il solipsismo, si chiede solo di credere e aderire. Mi sorprende il modo in cui fa rispettare le regole del suo movimento, con diktat inappellabili».

MARCO PANNELLA (RADICALI)
«Il movimento grillino non è armato di esperienza. Siamo pronti a mettere a sua disposizione la nostra. Anche noi vogliamo un processo di Norimberga contro la partitocrazia degli ultimi 60 anni».
Marco Pannella vede Grillo adottare molte battaglie dei radicali, ma commettere errori come quello dei referendum contro i finanziamenti pubblici ai giornali del 2008: firme insufficienti, mezzo milione di sottoscrizioni al macero.
«Grillo sbaglia se rifiuta il dialogo, perché rischia di andare a sbattere politicamente e di subire la rivolta dei suoi stessi grillini. Se non passa da un piano monologante a dialogante, anche nell'online, con la sua scelta di impiccare tutto e tutti rischia di restarci lui, e di portare gli altri con sé. Senza soprattutto fare proposte, se non demagogiche e improvvisate, poco costruttive. 
Da Grillo attendo una politica che invece di centrare tutto sulla perversione degli avversari appoggi iniziative concrete, come facciamo noi da sempre. C'è il rischio che i candidati del Movimento 5 stelle riprendano il suo monologo perché sono stati formati a copiare con parole diverse le sue filippiche. Grillo ripete le stesse cose che i fascisti dicevano contro i parlamentari: tutti corrotti, tutti pezzi di m... Ma così non costruisce nulla».

GRAZIA FRANCESCATO (VERDI)
«Conosco Grillo da quando ero presidente del Wwf, e lui negli anni ’90 si avvicinava ai temi ecologisti. Il suo movimento nasce dalla voglia di buona politica. Io però non amo la mera protesta: slogan come “tutti a casa” o “tutti cretini e delinquenti” sono rozzi e sbagliati, ma soprattutto depistano dai veri problemi. Mi ricordano il Berlusconi “ghe pensi mi” di vent’anni fa. 
Noi verdi invece non volevamo capi carismatici, anche se avevamo personaggi di grande carisma come Alex Langer. Ma proprio lui ammoniva che il potere, il seggio elettivo, è come una centrale nucleare che emette radiazioni e rende dipendenti da piccoli e grandi privilegi. Per questo Michele Boato e molti altri praticarono la rotazione a metà mandato, dopo due anni e mezzo. Io stessa sono stata in Parlamento solo due anni, non ho il vitalizio e ho rifiutato il doppio incarico di presidente dei verdi (oggi sono in Sel). 
È importante che gli eletti abbiano un proprio lavoro al quale tornare: non devono essere costretti a dire sempre sì al capo per mancanza di alternative. Spero che dentro al M5S si sviluppi il senso critico: dalla protesta urlata occorre passare alla cultura della complessità. L’ecologia politica è nata 40 anni fa, ma vedo che i problemi sono sempre gli stessi».

GIANCARLO PAGLIARINI (LEGHISTI)
«Voterò Grillo: anche se sbaglia, non potrà fare peggio di tutti gli altri. A meno che non salti fuori qualcosa di veramente nuovo, come Oscar Giannino. Anche Umberto Ambrosoli, candidato del centrosinistra in Lombardia, non mi dispiace. Ma alcuni amici mi assicurano che nel Movimento 5 stelle ci sono ragazzi perbene e preparati che non hanno mai fatto politica, oltre a professionisti che lavorano. 
Come nella Lega Nord vent’anni fa. Io nel 1990 ero revisore dei conti in una multinazionale, stavo per emigrare in Nuova Zelanda. Mi avvicino alla Lega, e nel giro di quattro anni mi ritrovo ministro del Bilancio. E pensare che per la mia poltrona c’era gente che scalpitava da decenni e avrebbe ucciso la nonna… 
Sono rimasto in Parlamento fino al 2006, poi sono stato uno dei pochi a lasciare la Lega spontaneamente, senza venire espulso da Bossi. Ma nei movimenti di rottura come noi e il M5S sono necessari capi duri: chi fa il civile e l’educato non trova spazi nel monopolio della casta. Bossi era uno che scriveva sui muri e sui ponti. Leggo sempre il blog di Grillo, è fatto bene. Ma senza il federalismo neanche lui andrà da nessuna parte».
Mauro Suttora

La democrazia secondo Grillo

VITA QUOTIDIANA NEL MOVIMENTO 5 STELLE RACCONTATA DA UN GIORNALISTA CHE SI È ISCRITTO E PARTECIPA ALLE ATTIVITA'

di Mauro Suttora

Sette (Corriere della Sera), 7 dicembre 2012

Maledetto neon. Quello nella sala sotterranea dell'albergo La Rotonda di Saronno (Varese), dove il 18 novembre partecipo alla conferenza regionale lombarda del Movimento 5 Stelle (M5S), è squallido quanto la luce bianca da obitorio che quarant’anni fa mi fece scappare dalla mia prima riunione politica, al ginnasio di Bergamo.

Sono un "grillino". Qualche mese fa mi sono "registrato" nel portale di Beppe Grillo: un po' per simpatia personale, un po' per curiosità professionale. È gratis, basta mandare la scansione di un documento. E ora eccomi qua a fare la vita del militante semplice, anzi del "cittadino attivo" come si dice in grillese. 

Quasi tutta l'attività del movimento si svolge online, questa è una delle rare riunioni in cui ci si incontra di persona. Delusione: poche donne e giovani, maggioranza di maschi 40-50enni. Siamo 200, molti sono attirati dalla possibilità di candidarsi alle regionali lombarde anticipate del 10 marzo.

Per fortuna Grillo ha ristretto la candidatura alle politiche a chi era già in lista nelle elezioni passate: un giusto riconoscimento agli ante-marcia, per evitare l'assalto degli opportunisti. Alle regionali invece possono candidarsi tutti i registrati al 30 settembre. Risultato: lo hanno fatto in oltre 300 per gli 80 posti da consigliere regionale lombardo. 

Perché questa valanga? Anche se gli eletti M5S si ridurranno lo stipendio da 11mila a 2.500 euro netti mensili, sono soldi appetibili per molti: un affare da 600mila lordi in dieci anni, visto che un'altra regola di Grillo è il limite di due mandati per gli eletti. Questo tetto sembra a tutti l'antidoto perfetto per evitare la professionalizzazione dei «portavoce del movimento» (come vengono definiti pudicamente gli eletti): «Massimo dieci anni e poi fuori dai c…», ribadisce sempre il simpatico Beppe.

«Ma lo sapete che gli eletti radicali e verdi trent'anni fa ruotavano a metà mandato?», provo a proporre. «Erano quattro volte più "democratici" di noi. A casa dopo due anni e mezzo, sostituiti dai primi dei non eletti. Se vogliamo evitare la nascita di un'altra casta dobbiamo fare così anche noi, perché dopo dieci anni di politica a tempo pieno è quasi impossibile tornare al lavoro di prima». Qualcuno è d'accordo; ma Grillo ha deciso per i due mandati, e pochi hanno voglia di contraddirlo riaprendo la questione.

In luglio ho partecipato al voto semestrale di conferma per il consigliere comunale M5S di Milano Mattia Calise, 22 anni. Tutti gli eletti lo devono fare. Una sala di periferia, diretta streaming sulla sua relazione, poi voto online nei tre giorni successivi. Promosso con 235 sì e un solo no, «per non sembrare il politburo di Breznev».

Una sera sono andato col mio consigliere di zona 4 a una riunione sul verde nell’area dove non verrà più costruita la Biblioteca europea di Porta Vittoria, di fronte a casa mia. È arrivato in bici sotto la pioggia: bene, un politico che pratica quello che predica. Preso dall’entusiasmo, qualche giorno dopo l’ho aiutato a organizzare un banchetto di propaganda nel quartiere Santa Giulia (Rogoredo), martoriato dalla speculazione edilizia.

L’8 settembre faccio un salto a una manifestazione in piazza XXV Aprile che ripete la richiesta del primo Vaffa-day, cinque anni fa: via i pregiudicati dal Parlamento. Purtroppo c’è poca gente, e in più tanto nervosismo perché è appena scoppiato il caso di Giuseppe Favia, consigliere regionale M5S emiliano beccato in un fuorionda di Piazza pulita ad accusare Grillo e il suo consulente Gianroberto Casaleggio di ogni nefandezza.

Mi stupisco: avevo intervistato Favia pochi mesi prima, era la punta di diamante del movimento. I militanti sono assediati dai giornalisti che chiedono se è vero che nel M5S manca la democrazia interna, come denunciato da Favia.

Il fatto è che in quasi tutti i grillini c’è un fervore palingenetico: sono convinti di essere i primi a voler «fare politica in modo pulito». Io invece ne ho già visti tanti, con questo lodevole proposito. Non so se è un primato da guinness (o da ricovero), ma ho partecipato dall'interno a tutti i movimenti "antipolitici" degli ultimi 40 anni: extraparlamentari di sinistra, radicali, verdi, leghisti (frequentati per conto di Vittorio Feltri, mio direttore all'Europeo), dipietristi.

Con una certa regolarità infatti, ogni 8-10 anni, in Italia nascono formazioni che proclamano di essere «diverse». Da tutti gli altri partiti del passato, del presente e anche del futuro. Il M5S non sfugge a questo ottimismo eroico da stato nascente: «Non siamo un partito, vogliamo la democrazia diretta, permettiamo ai cittadini di decidere in prima persona». 

Il programma, in realtà, assomiglia molto a quello radicale e verde di 30-40 anni fa: no al finanziamento pubblico (il primo referendum radicale - perso per poco – risale al 1978, quello vinto al '93); sì a energie alternative e raccolta differenziata dei rifiuti, no al nucleare (primo referendum radicale tentato nel 1980, vinto con i verdi nell'87, rivinto l'anno scorso), no a inceneritori e grandi opere (Tav, ponte di Messina).

Poi c'è il rifiuto della forma-partito. I verdi ne hanno sempre aborrito sia il nome (nacquero come "liste” verdi nell'85) sia le procedure: «Facciamo politica in modo diverso, siamo biodegradabili», promettevano, fino al degrado poco bio di Alfonso Pecoraro Scanio nel 2008. 

Anche i radicali hanno sperimentato un partito libertario, "liquido": congresso annuale aperto a tutti, tessera perfino a Cicciolina e al capo della 'ndrangheta Giuseppe Piromalli. La parola «partitocrazia» è © di Marco Pannella. Il quale, proprio come Grillo, comanda col carisma. Senza espulsioni, però; mentre Beppe ha già fatto fuori metà dei suoi quattro consiglieri regionali eletti appena due anni fa. «Più che carisma, caserma», mormora qualcuno.

Tutti i movimenti contestatori hanno avuto leader forti: i sessantottini Mario Capanna e Adriano Sofri, i radicali Pannella ed Emma Bonino, i verdi Alex Langer e Grazia Francescato. Per non parlare di Umberto Bossi e Antonio Di Pietro, che hanno eliminato tutti gli avversari interni.

È per questo che oggi osservo con tenerezza il crescendo di purghe con cui Grillo tartassa i suoi eletti. Il M5S non è ancora entrato in Parlamento, non ha tessere, quote d’iscrizione, soldi pubblici, sedi, non ha neppure uno statuto (solo un “non Statuto” proprio per dileggiare la burocrazia dei partiti tradizionali), ma lui lancia anatemi con l’unico risultato di rendere famose le vittime: Favia, poi Federica Salsi (consigliere comunale a Bologna) perché è andata a Ballarò, infine il consigliere regionale piemontese Fabrizio Biolé.

Nelle nostre riunioni non se ne parla. Gli incontri sono sempre molto operativi, “concreti”: bisogna organizzare i banchetti o i criteri per le liste elettorali, le “graticole” per selezionare i candidati o la lista dei “referenti” provinciali del gruppo regionale comunicazione, sottogruppo ufficio stampa.

Non si parla quasi mai di politica, in realtà. Per quello ci sono i post quotidiani di Grillo sul suo portale nazionale. Scritti a volte da lui (o chi per lui: alcune finezze lessicali come “mesmerismo mediatico”, nel famoso post sul punto G della Salsi del 31 ottobre, non gli appartengono) o appaltati ad altri: il polemista Massimo Fini, l’anarchico Ascanio Celestini, l’economista della “decrescita felice” Maurizio Pallante, l’esperto di servizi segreti Aldo Giannuli, il prof universitario di matematica torinese Beppe Scienza che vent’anni fa dava consigli ai risparmiatori sull’Europeo. Ora fustiga le banche, e in effetti è stato uno dei pochi a prevedere la fregatura delle pensioni integrative private rispetto alle vecchie liquidazioni garantite dallo stato. Paolo Becchi, docente di Filosofia del diritto a Genova, ha candidamente confessato a Piazza pulita che sta con Grillo perché è l’unico che gli dà retta.

Nel variopinto parterre dei maitres-à-penser grilleschi ogni tanto s’intrufola qualche pataccaro, come l’attempato blogger romano Sergio Di Cori Modigliani diventato famoso lo scorso luglio per la “bufala Hollande”: un post in gran parte inventato da lui in cui magnificava risultati apparentemente ottenuti dal nuovo presidente francese nei primi cento giorni di governo (da una presunta abolizione totale delle auto blu a stipendi tagliati del 40% agli alti dirigenti statali). Per giorni impazzò sul web, rimbalzato dagli utenti di Facebook, finché qualcuno si prese la briga di controllare le fonti e scoprì il falso. È diventato un caso di scuola sulla capacità manipolatoria e autosuggestiva della Rete.

E qui si arriva al punto dolente. La cosa che m’infastidisce di più nel M5S è la fede assoluta in internet. «La Rete risolve ogni problema», tuona Grillo dai palchi dei comizi, ed è piacevole starlo ad ascoltare. «Grazie alla Rete scopriremo gli arrivisti che cercano di fare carriera nel M5S», dicono sicuri i miei compagni di riunione. Poi però basta che si candidi un qualsiasi Gianni Colombo a Milano, lo si googla per controllare e, panico: ce ne sono centinaia! Come scoprirne i passati misfatti, le candidature in altri partiti? 

Il povero Biolé è stato fatto fuori perché aveva già fatto il consigliere comunale in una lista civica apartitica del  suo paesino di 500 abitanti sulla montagna cuneese negli anni ’90, volontario ambientalista benemerito con vent’anni d’anticipo rispetto a molti grillini neofiti; ma  oggi, a scoppio ritardato di due anni, è diventato un reprobo da espellere, con tanto di lettera degli avvocati Squassi e Montefusco di Milano per conto del signor Grillo Giuseppe, “proprietario unico del marchio 5 Stelle”.

«Non ci può essere democrazia diretta sotto un dittatore», taglia corto il mio amico Luciano Lanza, vecchio libertario, fondatore di A-Rivista anarchica. Ci rimango male, le mie speranze vacillano.
     
«Di questo discuteremo in rete», mi rispondono gli attivisti M5S quando cerco di parlare per una volta non virtualmente, nella riunione di Saronno. «Immagino sia proibita la propaganda personale dei candidati» avevo detto, «perché ho visto orrendi ‘santini’ in Sicilia, e anche qui a Milano l’anno scorso alle comunali era permessa. Niente guerra intestina delle preferenze, spero, e inoltre non vogliamo rischiare che i clan della ’ndrangheta nell’hinterland appoggino qualche candidato sfuggito alla nostra attenta selezione…»

Niente da fare. Non c’è mai tempo per parlare guardandosi negli occhi. Solo web, computer e smartphones per gente sempre “connessa”. Ma connessa a cosa, mi domando. Sempre lì a smanettare come zombies. È online che si svolge la vita vera dei grillini, mica nella realtà così deludente, catastrofica e piena di ladri… Eppure uno dei nostri ispiratori è Ivan Illich, il cantore della convivivialità.

Grillo predica la Rete non più come mezzo ma come fine, e i seguaci più pedissequi la mettono sull’altare come i rivoluzionari francesi sostituirono Dio con la Dea Ragione, a fanatismo inalterato.
Così per seguire il M5S ora devo collegarmi con sei piattaforme diverse: il portale di Grillo, i meetup regionale e comunale, Pbworks, Facebook, Googlewiki per discutere e infine Liquid Feedback per votare.

Una sovrabbondanza elettronica ci succhia via la vita, ci fa litigare con mogli la sera perché sospettano che chattiamo nei siti erotici, o fa crollare drasticamente le nostre produttività sul luogo di lavoro.
Detto questo, ammetto che Liquid Feedback è geniale. È un sistema di votazione adottato dal partito tedesco dei Pirati, ma potrebbe esserlo anche in ogni condominio o consiglio di zona, su su fino all’Europarlamento. Se Clistene o Pericle lo avessero avuto, altro che agorà dell’antica Atene. 

Forse si avvererà la profezia di Erich Fromm: nel ’76, in Avere o essere, propose di votare con referendum sulle dieci questioni più importanti ogni anno, come gli svizzeri nella piazza del cantone di Appenzell, evitando l’intermediazione parassitaria dei politici a tempo pieno. «La politica, come l’amore, è troppo bella per lasciarla a professionisti», diceva lo slogan che invitava alla partecipazione negli anni ’70.

Quindi, ora ci riprovo. Dopo aver frequentato e votato per sessantottini, radicali, verdi, leghisti e dipietristi, mi affido abbastanza disperato a Grillo. Perché, nonostante tutte le critiche e quindi anche questo articolo, il M5S mi sembra l’unica cosa nuova nella vita pubblica italiana oggi. Probabilmente sbaglio, e dopo la sesta illusione arriverà come sempre la delusione. In effetti, il neon delle riunioni è orrendo come 40 anni fa.
Mauro Suttora

Wednesday, December 05, 2012

Grillini sulla graticola

I SONDAGGI DANNO IL MOVIMENTO 5 STELLE AL 20 PER CENTO. E LUI PROMETTE UN ESAME TRASPARENTE PER TUTTI I CANDIDATI, VOTATI DAGLI ISCRITTI E "GRIGLIATI" CON LE DOMANDE DEI I CITTADINI. SIAMO ANDATI A VEDERE SE E COME FUNZIONA

dall'inviato Mauro Suttora

Oggi, 28 novembre 2012

Che fatica, la democrazia diretta. Volevo partecipare anch’io alla grande novità della politica italiana: la prima volta che un partito (pardon: movimento...) fa scegliere i propri candidati direttamente ai cittadini. Non solo i leader, come fanno gli altri con le primarie. Proprio tutti i candidati, dal primo all’ultimo.

Così, dopo anni che scrivevo articoli su Beppe Grillo (il primo su Oggi risale al 2007, quando organizzò il Vaffaday contro i politici), mi sono «registrato» sul suo portale. Un po’ per simpatia personale, un po’ per curiosità professionale, ho mandato la scansione della mia carta d’identità, qualche dato, e sono diventato un «grillino» anch’io.

In pratica, è come iscriversi. Però è gratis (cosa da non sottovalutare), perché il Movimento 5 Stelle (M5S) si definisce «non partito». Che vuole solo fare da «tramite» fra i cittadini e gli eletti («portavoce»). Niente tessere, sedi, soldi, burocrazia, finanziamento pubblico. Solo volontariato. Insomma un paradiso, in questa Italia soffocata dai politici di professione della «casta» e dal notevole numero di ladri che opera fra loro.

Da qualche mese, quindi, posso entrare nei siti internet del M5S, partecipare alle discussioni, votare on line nei referendum che organizzano quando un consigliere comunale o regionale deve votare su un argomento che non fa parte del programma.

Così ho votato a favore del testamento biologico assieme ad altri 170 «registrati» di Milano, e poi il consigliere Mattia Calise ha riversato questa nostra decisione nel dibattito al consiglio comunale.

In luglio sono stato invitato a una riunione semestrale per giudicare l’operato di Calise. Non c’era tanta gente, il consigliere è stato «promosso». Ho anche aiutato il consigliere della mia zona a organizzare un banchetto di propaganda nel quartiere di Santa Giulia, devastato dalla speculazione edilizia.

Orgia di internet, tutto online

Poi sono cominciati i problemi. Infatti Grillo e i suoi sono un po’ fissati con la Rete, pensano che quasi tutti i problemi si possano risolvere grazie a internet. Risultato: se voglio essere informato, devo passare ore di fronte al computer. Per star dietro a tutte le notizie e i dibattiti, infatti, bisogna seguire ben sei siti diversi: il portale nazionale, Facebook, Google-Wiki, i MeetUp (gruppi cittadini o regionali), Pbworks e Liquid Feedback.

Con tutti questi nomi, chi non è appassionato di elettronica si perde. E anche la mia compagna, che mi vede smanettare  la sera col portatile sul divano invece di guardare un film in tv con lei, sospira e mi prende per matto.

Ora sono arrivate le elezioni. E dobbiamo mettere in pratica quel che predichiamo: democrazia diretta. Veramente è più in voga la parola «democrazia liquida», che però a me non piace perché mi ricorda l’Inno al corpo sciolto di Roberto Benigni.
Vado a Saronno a un’assemblea regionale. Pochi giovani e donne, molti maschi 40-50enni. Ci riuniamo nel sotterraneo di un albergo, divisi in commissioni: sanità, trasporti, energia, ecc.

Visto che sono giornalista, vado nella commissione Informazione. Non l’avessi mai fatto. Scopro che il M5S odia tutti i giornalisti. Pensavo che ce l’avessero (giustamente) solo con i giornali pagati con soldi pubblici e con i talk show tv, dove Grillo vieta ai suoi di andare. Invece l’odio è generalizzato: siamo tutti paragonati ai politici corrotti. Infatti i grillini non leggono i giornali, al massimo danno uno sguardo veloce ai siti online.

A un certo punto entra uno e annuncia: «C’è di là un giornalista del Fatto quotidiano che vorrebbe entrare, ha chiamato ieri per accreditarsi». Niente da fare: gli danno solo il permesso di stare nella hall. E pensare che il Fatto di Marco Travaglio è il giornale più vicino a Grillo.

300 candidati per 80 posti

Due giorni dopo, assemblea pubblica a Cernusco sul Naviglio (Milano): si sottopongono a «graticola» (interrogatorio pubblico) i candidati alle regionali. Sono ben 300 per 80 posti: evidentemente uno stipendio fa gola a molti, anche se il M5S lo limita a 2.500 euro al mese rispetto agli 11.000 intascati dagli eletti degli altri partiti.

Forse per paura di essere travolti da questa valanga di speranzosi, gli organizzatori non permettono però al pubblico di rivolgere domande ai candidati. Dicono che il tempo è troppo poco, e li sottopongono a un interrogatorio pre-confezionato con domande un po’ scontate, tipo: «Cosa farai se non verrai eletto?» Naturalmente nessuno ha risposto: «Sparirò, perché mi interessano solo i soldi». Eppure è proprio quel che è successo negli anni scorsi: dopo il voto molti sono scomparsi, e a tirare la carretta sono rimasti pochi volontari. Insomma: che difficile la democrazia, anche se è diretta...
Mauro Suttora


MA GRILLO HA GIA' ESPULSO LA META' DEI SUOI CONSIGLIERI REGIONALI

Il Movimento 5 stelle aveva eletto quattro consiglieri regionali nel 2010: due in Emilia e due in Piemonte. Ma Beppe Grillo ne ha già espulsi la metà. L’emiliano Giuseppe Favia è inciampato in un fuorionda tv in cui accusava Grillo e il suo consulente Gianroberto Casaleggio di metodi poco democratici.

Poi Grillo ha «licenziato» anche il piemontese Fabrizio Biolé (con lui nella foto) tramite lettera di un avvocato (sotto) che gli imputa di avere già fatto il consigliere comunale due volte nel suo paesino di 500 abitanti in provincia di Cuneo. I grillini, infatti, possono essere eletti al massimo per due mandati. Biolé obietta che tutti lo sapevano, ma che gli chiesero di soprassedere perché i candidati M5S nel 2010 erano pochi.


Kate Moss, la più bella del mondo

LA SUPERMODELLA CELEBRATA CON UN LIBRO FOTOGRAFICO RIZZOLI. MA SECONDO SGARBI E MUGHINI...

di Mauro Suttora

Oggi, 5 dicembre 2012

«Certo che Kate Moss è la più bella del mondo. Ma lo è perché possiede il fascino perverso delle bad girls, le cattive ragazze. Se una donna non ha rovinato la vita a qualcuno, io non la considero neanche».
Originale come sempre, Giampiero Mughini vota Kate anche perché ha appena scritto un libro sull’argomento: Addio gran secolo dei nostri vent’anni: città, eroi e bad girls del Novecento (Bompiani). In cui racconta i sogni provocati da donne inarrivabili come Marilyn Monroe, Brigitte Bardot, Sophia Loren.
E oggi, chi ha preso il posto di quelle dee? C’è una bellezza che passerà alla storia come la più bella del primo decennio del terzo millennio? Quello degli “anni Zero”, come sono stati definiti spregiativamente da chi ne denuncia il vuoto, come Mughini. Ora che siamo ben inoltrati negli “anni Dieci”, riusciamo a non avere nostalgia per le icone del recente passato?
«A ben pensarci anche Kate Moss è figlia del ’900», dice Mughini, «perché era già lei a 16 anni. Quindi è una creatura degli anni ’90».

Ma proprio ora che di anni ne ha quasi 39, Kate celebra il proprio trionfo planetario. Perché nel 2012 è stata scelta come testimonial da ben tre marchi (Mango, Supreme e Liu-Jo) che si rivolgono alle giovanissime. Perché è appena uscito un libro che raccoglie tutte le foto che le hanno scattato in un quarto di secolo i migliori fotografi del mondo. Perché continua a collezionare copertine su copertine (Vanity Fair Usa di dicembre). E perché qualunque cosa faccia e dica (anzi: non dica, perchè parla pochissimo, e le poche cose che sussurra non vanno oltre qualche banalità dispensata a giornalisti adoranti), il suo status di icona globale ne esce rafforzato.

Ristorante nell’Upper East Side

Conferma Romolo Algeni, che spesso la ospita nel suo ristorante Paola’s dell’Upper East Side a Manhattan: «Ha un fascino incredibile anche di persona, l’ultima volta è venuta a cena a settembre con un’amica che vive qua dietro, su Park Avenue. Era a New York per gli U.S. Open di tennis. È bassina, ma ha un viso molto dolce».

«È più difficile oggi, rispetto a 50 anni fa, individuare un modello unico di bellezza femminile», ci dice Vittorio Sgarbi, «perché in tutti i campi c’è una moltiplicazione di promotori. Anche nell’arte: ora perfino per Picasso sarebbe più complicato emergere. Quindi sì, certo, Kate Moss. Ma allora anche Angelina Jolie, o Monica Bellucci... Secondo me, per esempio, oggi la più bella del mondo è la rumena Madalina Ghenea, che ho ammirato a Ballando sotto le stelle».

«Come scelta personale allora io dico Léa Seydoux», vota Mughini, «una francese splendida nel film Midnight in Paris di Woody Allen e nell’ultimo Mission impossible con Tom Cruise».

La parola a un altro critico d’arte, Luca Beatrice: «Distinguiamo: una cosa è un’icona, un’altra una ficona. Kate Moss appartiene alla prima categoria: immagine potentissima, ma non fa sognare. Io preferisco donne morbide, curve e sesso vero: Laetitia Casta, Belen Rodriguez, la Bellucci».

«La bellezza non è mai un valore assoluto», ragiona il fotografo di moda Settimio Benedusi, «e Kate Moss come modella ha tanti limiti: è piccolina, seno minuscolo,  troppo anglosassone. Insomma, non si può dire che sia di una bellezza incredibile. Però emerse grazie al fidanzato-fotografo Mario Sorrenti perché era diretta e naturale. Poi, quando raggiungi lo status di icona, puoi permetterti tutto. Oggi ci sono decine di modelle più belle di lei, l’italiana Bianca Balti per prima. Ma, così come Madonna è un’icona della musica anche se non sa cantare, Kate Moss va al di là della bellezza».

E infatti: «Preferisco Scarlett Johansson, burrosetta e proporzionata, anche se ha troppi tatuaggi», ci dice Beppe Severgnini.

«Kate Moss è sempre una divina», obietta Gianemilio Mazzoleni, vicedirettore di Style, mensile del Corriere della Sera, «anche se è così sovraesposta che ti pare un po’ di conoscerla, come tua moglie. Io sono un grande fan di Eva Green. Ma tra le donne “patinate” poche hanno il fascino di Rachel Weisz, anche se è ormai sulla quarantina».

Insomma, sì a Kate Moss ma con riserva. E le riserve si moltiplicano se si esamina la biografia della nostra “divina”. La quale, contrariamente a un’altra ex modella diventata attrice da Oscar, Charlize Theron, non vanta alcuna altra dote tranne il proprio viso e magnetismo: non sa cantare, non sa recitare.

«Non lamentarti e non spiegare mai»

«Never explain, never complain»: non spiegare mai, non lamentarti mai, le aveva insegnato l’ex fidanzato Johnny Depp, prima di mollarla spezzandole il cuore. Cioè: mantieni un profilo basso, non dire gli affari tuoi ai giornalisti, fai la misteriosa come Greta Garbo.

Obiettivo raggiunto: grazie alle rarissime interviste, concesse solo per obblighi contrattuali quando fa la testimonial superpagata per qualche marchio, Kate Moss non ha dovuto spiegare nulla sulle sue avventure con cocaina, anoressia e mariti vari di scarsa qualità (altro che i partner fiammeggianti di una Liz Taylor o di BB).

Così i giornali tabloid possono sfogarsi solo mostrandone le bucce d’arancia sulle gambette stortignaccole, e lei può continuare a folleggiare nei party privati della sua Londra. Tanto, è un’icona.
Mauro Suttora   

   

Daverio: Il museo immaginato


MUSEO IMMAGINATO: IL SECOLO LUNGO DELLA MODERNITA'

di Mauro Suttora

Oggi, 5 dicembre 2012

«Eugene Delacroix racconta la Rivoluzione parigina del 1830 con un dipinto che diventa un’icona mondiale della libertà dei popoli. Delacroix era allora considerato il capofila dei romantici. Il gesto vigoroso e convinto delle pennellate è travolgente».
Così Philippe Daverio descrive il quadro 28 luglio: la Libertà guida il popolo che celebra la rivoluzione “borghese” di Luigi Filippo nel suo nuovo libro: Museo immaginato, il secolo lungo della modernità (Rizzoli).

Un anno fa il poliedrico critico d’arte, professore universitario (ordinario di Disegno industriale ad Architettura a Firenze), conduttore tv (Passepartout su Rai3, Emporio Daverio su Rai5) ed ex politico (assessore leghista  alla Cultura a Milano negli anni ’90) aveva ottenuto un enorme successo con Il museo immaginato: 100mila copie vendute.

Intreccio di arte, politica e storia

Ora Daverio torna in libreria con il seguito di quel libro, scritto con lo stesso stile vivace ed eccentrico in cui mescola indissolubilmente arte, politica e storia. E immagina di dover riempire un museo di opere dal 1800 al 1914.

Ecco, per esempio, come descrive un altro quadro-simbolo: Il Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo: «Nel 1901 il cammino dei lavoratori sembra avere intrapreso una strada gloriosa. Gli equilibri dell’Italia postunitaria si sono rotti; il partito socialista fondato a Genova nel 1892 è diventato Psi nel 1895. A Milano le fortissime tensioni del 1898 si conclusero con le cannonate sparate sulle barricate dal generale Bava Beccaris. Oltre trecento i morti. Turati e i politici di sinistra vengono arrestati. Il dipinto di Pellizza è la risposta solida e matura alla situazione in corso. Nel vasto giro dei postimpressionisti non v’è dubbio che il gruppo dei divisionisti occupi l’area più attraente e innovativa».

Il gioco di Daverio, nel suo museo personale di fantasia, è quello di proporre coppie ardite come quella fra Delacroix e Pellizza. Seguono le Demoiselles d’Avignon, con cui Pablo Picasso nel 1907 inaugura il cubismo, accanto alla Morte di Sardanapalo di Delacroix di 80 anni prima: «I due dipinti hanno un’intrigante assonanza. Sono ambedue opere di rottura. Non le troverete mai vicine in un museo tradizionale, dove le categorie sono state stabilite definitivamente un secolo fa».

Fra le tante Veneri nude da accostare alla celeberrima di Ingres del 1848, Daverio  sceglie Il sonno con «le due amiche, considerate sconce, che Gustave Courbet avrebbe dipinto nel tepore baudelairiano stile Fleurs du mal d’una stanza chiusa, ragffigurando la sua amante irlandese in una compagnia più dolce di quella che egli stesso le poteva fornire».

Daverio documenta anche casi di vero e proprio plagio, che tuttavia lui definisce educatamente “citazione”: «La Statua della Libertà di New York è senza dubbio alcuno la più nota del secolo XIX, anche se non necessariamente la più bella. Fu offerta dalla Francia agli Stati Uniti per celebrare i cent’anni della loro indipendenza nel 1876, e inaugurata dieci anni dopo. Il progetto fu affidato allo scultore Auguste Bartholdi. Strutturista fu l’ingegnere Gustave Eiffel, quello della futura torre.
Evidente è la citazione del balcone nuovo del Duomo di Milano. Sulla sinistra vi è la scultura La legge nuova di Camillo Pacetti realizzata nel 1810, che regge la fiaccola della Fede. Sulla destra c’è la Legge vecchia di Luigi Acquisti, sua contemporanea, che regge nella mano sinistra le Tavole mosaiche.
Se si sommano le due statue ne viene fuori automaticamente, come per incanto, la Statua della Libertà».

Daverio non calca la mano contro Bartholdi, forse perché lo scultore era alsaziano come lui e nel 1870, quando Alsazia e Lorena furono cedute dalla Francia alla Germania, si ritrovò senza patria d’origine.

da Milano a New York

Anzi, lo giustifica: «Era assai comprensibile che un patriota francese ritrovasse le sue origini nella Milano  ancora francese (nel 1810) e retta dal Beauharnais. In fondo la Statua della Libertà non è altro che la nuova e romantica versione della Legge nuova combinata con quella antica ebraica, a New York».

E così via. In ogni pagina di questo stupendo libro di Daverio c’è una curiosità, un ragionamento sottile, un paradosso che ne rendono la lettura un piacere.
Mauro Suttora