Friday, July 29, 2011

tutti pazzi per Cameron

Tredici anni dopo Tutti pazzi per Mary, Cameron Diaz ormai 40enne di nuovo strepitosa in Bad Teacher (Una cattiva maestra), nei cinema italiani dal 31 agosto. Può un film basarsi sulla bravura di una sola attrice? Sì.

Battute da scuola media inferiore, quindi divertentissime. Justin Timberlake recita se stesso. Una chicca nella colonna sonora: la canzone Nothing from Nothing di Billy Preston, il quinto Beatle (piano elettrico in Get Back e organo in Let it be)

Consigliato alle rifattone.
Sconsigliato agli ammiratori di quella pizza tremenda che è The tree of life.

Scena migliore: quando Cameron vuole rifarsi le tette.
Scena peggiore: quando Timberlake canta una canzone composta da lui

Voto: 7

Thursday, July 07, 2011

Le tre agenzie che controllano il mondo

dall'inviato a New York Mauro Suttora

Oggi, 29 giugno 2011

A tradurle letteralmente, hanno nomi ridicoli. Perché Moody in inglese significa «squilibrato mentale», Fitch «puzzola», e lo Standard Poor è un «poveraccio cronico», senza speranza di miglioramento. Invece le tre agenzie di «rating» (valutazione del credito) tengono in pugno il mondo intero: in cinque secondi possono cambiare il destino di centinaia di milioni di persone. Italiani compresi: se bocciano il nostro debito pubblico ci condannano alla bancarotta, come la Grecia. O l’Argentina nel 2001.

Ce ne siamo accorti pochi giorni fa, quando è bastata la voce di un «downgrading» (abbassamento del voto) per le nostre banche a farle crollare in Borsa del 10 per cento. Poi si sono parzialmente riprese, però l’episodio è stato drammatico. Ma chi sono questi misteriosi giudici che ci danno i voti, e che ci governano forse più dei politici che eleggiamo?

Per capirlo siamo andati a New York, nella punta sud di Manhattan, dove le tre agenzie hanno le loro sedi centrali. E abbiamo scoperto che sono vicine di casa: i palazzi di Standard&Poor’s (S&P) e Fitch stanno a poche decine di metri l’uno dall’altro, mentre Moody’s è 500 metri più in là, a Ground Zero.

«I ragazzi di Moody’s vengono qui a mangiare in pausa pranzo», ci dice un barista di Greenwich Street, che porta verso il Village omonimo. «Ma naturalmente non i big brass, i pezzi grossi: quelli si fanno portare il cibo direttamente su nelle loro suite dal catering».

Ha un nome inquietante, l’edificio dove Moody’s occupa vari piani (i suoi dipendenti nel mondo sono 4.500, e fatturano ben due miliardi di dollari): World Trade Center 7. Sì, questo è uno dei cinque grattacieli più bassi che attorniavano le Torri Gemelle. Scampato al disastro, ora di fronte c’è il cantiere della nuova Freedom Tower, che però arranca a ritmi italiani: non sarà pronta per il decennale dell’11 settembre. La verità è che pochi vogliono tornare a lavorare qui, e gli uffici restano invenduti.

Parliamo con un cordiale impiegato 35enne di Moody’s, che però non può darci il nome: «È vietato parlare con esterni del nostro lavoro, soprattutto con giornalisti. Trattiamo affari delicati da miliardi di dollari: quando una multinazionale emette obbligazioni, il loro valore dipende dal nostro giudizio. I fondi che le acquistano si fidano solo di noi».

Fanno bene? Il maggiore azionista di Moody’s è, con il 33 per cento, l’80enne Warren Buffett: il miliardario più ricco d’America assieme a Bill Gates (Microsoft) e all’altro leggendario speculatore, George Soros. La sua holding Berkshire Hathaway per decenni ha garantito ai soci guadagni siderali del 10-20% annuo, reggendo bene anche alla crisi del 2008. Un bel conflitto d’interessi: chi garantisce gli altri fondi che le preziose informazioni di Moody’s non vengano spifferate in anteprima al suo padrone?

È su questo che puntano i concorrenti S&P e Fitch per aumentare le proprie quote di mercato (oggi rispettivamente al 40 e 16%,contro il 39 di Moody’s). Oltre a cercare di sottrarre all’avversario gli analisti migliori. Che non sono le formichine come il nostro simpatico interlocutore, il quale non ha problemi a dirci il suo stipendio: «Non mi lamento, prendo 100 mila dollari l’anno. Ma ai piani alti si va sui milioni. Gente che arriva in limousine dai loro attici nell’Upper East Side con vista su Central Park».

Andiamo a vedere la concorrenza. Superiamo la stretta Wall Street e arriviamo in un altro luogo ben conosciuto dai turisti: l’imbarcadero del ferry per Staten Island e la Statua della Libertà. I palazzi di S&P e Fitch sono qui di fronte. «Ma probabilmente i responsabili del desk italiano stanno a Londra o Francoforte, nelle nostre filiali europee», ci dice un altro anonimo. Insomma, impossibile vedere in faccia chi fa salire e scendere il valore dei nostri risparmi.

«Ma non chiamateci pescecani. Anzi, siamo proprio noi a difendere i pensionati che hanno investito nei fondi previdenziali. Dicendo loro se si possono fidare dei titoli pubblici dei vari Paesi, o delle azioni delle società private».

Insomma, nessun complotto? «Non è colpa nostra se l’Italia ha il terzo maggiore debito del mondo, dopo Giappone e Usa. È come prendersela con un prof che dà un brutto voto se lo studente è svogliato, o con il termometro per la febbre».

Vero. Ma è anche vero che tutte le agenzie di rating (a proposito: il fondatore di Fitch nel 1913 non era socio di Abercrombie) sono statunitensi. E che agli americani non piace che l’euro minacci il dollaro come valuta di riferimento mondiale. Per questo la piccola procura di Trani sta indagando i tre analisti Moody’s che seguono l’Italia. Reati ipotizzati: aggiotaggio e divulgazione di notizie false che turbano il mercato finanziario. Davide contro Golia.

Mauro Suttora