Tuesday, March 29, 2011

Santanché: non era un master Bocconi

(ANSA) - ROMA, 29 MARZO 2011
"Altro che master. Quello conseguito da Daniela Santanchè alla Bocconi nel 1993 non era neppure un corso post-universitario: era aperto anche ai non laureati. E non è durato un anno, come sostiene la sottosegretaria: i giorni di lezione in aula furono appena 24. Tre ogni mese, per otto mesi".

Il settimanale Oggi torna sulla vicenda che il settimanale definisce del "falso Master Sda Bocconi" che la Santanchè afferma di avere conseguito nel proprio curriculum sul sito internet ufficiale del governo italiano. L'università milanese ha già confermato che la sottosegretaria non l'ha mai ottenuto, afferma il settimanale anticipando il contenuto del suo nuovo articolo che riporta le dichiarazioni del Professor Mario Mazzoleni che per dodici anni (fino al 2004) ha diretto il programma dei master Bocconi:

"Trovo le affermazioni della Santanchè offensive verso tutti coloro che il master lo hanno davvero conseguito con tanti sacrifici", ha dichiarato a 'Oggi' il professore. "Non prendiamoci in giro. Un Mba è qualcosa di serio e molto difficile: otto ore al giorno per sedici mesi. E costa decine di migliaia di euro. Non si possono confondere le due cose. Poi, uno può millantare quel che vuole. Tutti i miei ex studenti Mba (Master Business Administration) sono infuriati. Il progetto Gemini frequentato dalla Santanchè era un'iniziativa seria, indirizzata a giovani imprenditori. Ma non era nemmeno un corso di specializzazione", conclude.

"Una settimana fa, conclude il settimanale, la sottosegretaria aveva promesso di mettere subito on line sul proprio sito l'attestato di frequenza al suo corso. Non l'ha fatto. E sul sito del governo appare ancora l'affermazione: 'Consegue un master alla Sda Bocconì". (ANSA).

Wednesday, March 23, 2011

Bocconiana di panna

Daniela Santanchè colta in castagna

La sottosegretaria, sul sito del governo, dice di avere un master dell'università Bocconi. Falso. Si dimetterà, come accade in Germania?

di Mauro Suttora

Oggi, 23 marzo 2011

All'ufficio stampa dell'università sono indulgenti: «Cosa vuole, c'è un sacco di gente che si spaccia per bocconiano. Ci siamo abituati». Questa volta, però, la bugia non è stata detta da una qualunque. E, soprattutto, non è stata scritta - nero su bianco - in un posto qualunque.

Non sarà reato di falso in atto pubblico, perché il sito Internet del governo italiano non ha questo status. Ma Daniela Santanchè l'ha egualmente combinata grossa. Nominata un anno fa sottosegretario di Stato alla Presidenza del Consiglio con delega all’Attuazione (sotto il ministro Gianfranco Rotondi), l’estrosa signora così esordisce nel lunghissimo curriculum che ha fatto inserire sul sito del governo: «Laureata in Scienze politiche, consegue un master alla SDA Bocconi».

Ma alla Scuola di Direzione Aziendale del prestigioso ateneo milanese di lei negli archivi non c’è traccia: «Abbiamo verificato, e dalla nostra banca dati alumni [gli ex studenti, ndr] non risulta abbia frequentato un nostro master o mba. Non possiamo escludere, ma non abbiamo modo di verificare, che abbia frequentato un corso breve».

Sì, perché la SDA Bocconi organizza in continuazione seminari di aggiornamento per manager che durano uno o più giornate. E di queste decine di migliaia di persone non conserva traccia. Ma sono corsi che non possono essere certo confusi con un master.

IL RITORNO ALL’OVILE

La Santanchè si è laureata in Scienze politiche nel 1987 all’università di Torino con una tesi sull’«Evoluzione della figura del manager industriale nelle nuove tecniche imprenditoriali». Negli studi ha conservato il suo cognome di famiglia, Garnero.

A soli 21 anni ha sposato il chirurgo estetico Paolo Santanchè, che lascia nel ‘95 per il nuovo compagno Canio Mazzaro, imprenditore farmaceutico di Potenza. Poi è stato Mazzaro a lasciarla per Rita Rusic, ex di Vittorio Cecchi Gori.

Nel ‘99 la scoperta della politica: Ignazio La Russa la fa eleggere consigliere provinciale a Milano per An. Tre anni fa si candida premier per la Destra di Francesco Storace, in forte polemica con Silvio Berlusconi. Infine il ritorno all’ovile.

In coda ai curriculum di tutti i sottosegretari (e ministri) pubblicati su www.governo.it appare un «disclaimer»: «Biografia fornita dallo staff del sottosegretario». Un’educata presa di distanza. Come dire: se loro scrivono inesattezze, il governo non c’entra.

Pochi giorni fa l’astro nascente della politica tedesca, il ministro della Difesa Karl-Theodor zu Guttenberg, ha dovuto dimettersi perché si è scoperto che aveva copiato parti della tesi di dottorato.

Anche altri politici, di recente, hanno lasciato il posto per peccati che in Italia sono considerati veniali: la ministra della Cultura svedese Cecilia Chilo perché pagava la baby sitter in nero, mentre non pagava il canone; la francese Michèle Alliot-Marie perché era stata ospite in vacanza del presidente tunisino Ben Ali. Chissà se adesso la signora Santanchè mollerà la sua poltrona.

Mauro Suttora

Riforma della giustizia

Domande di Oggi

23 marzo 2011

risponde Mauro Suttora

1) Davvero Berlusconi vuole leggi che lo favoriscano?

La riforma costituzionale presentata dal governo la scorsa settimana mette tutti d' accordo soltanto su una cosa: avrà una portata «epocale». Infatti, mentre il centrodestra è convinto che servirà a limita re lo «strapotere» di una «casta», quella dei magistrati, il centrosinistra ritiene che si tratti di una ripicca del premier Silvio Berlusconi per i continui processi c he subi sce da quando è entrato in politica 17 anni fa. Per cambiare la Costituzione ci vogliono tempi lunghissimi, con doppia votazione di ogni ramo del Parlamento a mesi di distanza. E se non viene raggiunta la maggioranza dei due terzi, ci sarà un referendum. Quindi per questa riforma, se mai andrà in porto, ci vorranno anni.

Nelle foto qui sopra il ministro Angelino Alfano mostra una statistica secondo cui il numero dei processi civili è per la prima volta in diminuzione, grazie alle misure «acceleratrici» attuate dal gover no. Ment re Berlusconi fa vedere che d' ora in poi il giudice penale (in rosso) sarà imparziale fra accusa e difesa, mentre adesso «fa comunella» con l' accusa (il pubblico ministero, in nero). «Potremmo anche discutere di riformare la giustizia», dice Pier Luigi Bersani, «ma non con un premier imputato in quattro processi». La distanza quindi è grande.

2) È vero che già Gelli propose di separare le carriere?

Sì. Il cosiddetto «Piano di rinascita democratica» sequestrato nel 1981 fra le carte della loggia massonica segreta P2 guidata da Licio Gelli prevedeva la separazione fra magistrati dell' accusa (pubblici ministeri) e magistrati giudicanti.

Oltre alla responsabilità civile dei giudici per i propri errori. Il programma della P2, che alla fine degli Anni 70 cercò di attuare un colpo di Stato lento e incruento, arruolando adepti fra i dirigenti di forze armate, politica e giornali, era però molto vasto e dettagliato. Conteneva anche proposte ragionevoli per modernizzare il Paese, oltre a quelle per instaurare un governo più autoritario. Durante gli Anni 80, per esempio, Bettino Craxi fu bollato come «decisionista» perché proponeva il presidenzialismo. Ma presidenzialisti sono molti Stati di antica democrazia, come Francia e Usa.

Trent'anni dopo, la coincidenza fra alcune proposte della P2 e del governo Berlusconi viene ancora utilizzata come argomento critico da settori della sinistra. Anche perché Berlusconi stesso aveva fatto domanda di ammissione alla loggia. E piduisti furono alcuni attuali dirigenti del Pdl, come Fabrizio Cicchitto.

3) Perché i magistrati si sentono puniti dalle nuove regole costituzionali?

È ovvio che la responsabilità civile dei giudici venga avversata dall' Anm (Associazione nazionale magistrati). Introdotta da un referendum radicale nel 1987 dopo l'ingiusta condanna di Enzo Tortora, è stata poi disciplinata da una legge d'attuazione che scarica sullo Stato il pagamento dei danni agli imputati condannati da sentenze sbagliate.

Il Csm (Consiglio superiore della magistratura) sanziona i casi più gravi di incapacità dei magistrati. Ma questo avviene in casi rari, anche perché il Csm è un organo di «autogoverno »: è composto i n maggioranza assoluta da magistrati. Per questo Berlusconi vuole che il Csm sia composto per metà da membri di nomina politica.

La separazione delle carriere fra magistrati inquirenti e giudicanti non è di per sé punitiva, ma secondo l'Anm mette le procure sotto il controllo del governo. Idem per la polizia giudiziaria, che indagherà senza sottostare ai pm. E per l'obbligatorietà dell' azione penale: dovrebbe essere il Parlamento a stabilire ogni anno a quali reati dare la precedenza.

4) Gli assolti in primo grado non rischiano più l'appello?

Sì. È questo il cambiamento più grosso per i processi penali, quello che inciderà di più nella vita concreta di tutti noi. O, perlomeno, di coloro che hanno a che fare con la giustizia. Se subiamo una sentenza di condanna in primo grado, potremo sempre chiedere l'appello, e poi ricorrere a un terzo grado di giudizio in Cassazione. Se invece veniamo assolti, il pubblico ministero (l'accusa) non potrà più appellarsi, se non in casi gravissimi «previsti dalla legge». Insomma, per chi viene riconosciuto innocente in primo grado, l'assoluzione è definitiva. Come negli Usa. «Un bel regalo per i delinquenti» , commentano i dipietristi. « In dubio pro reo è un principio cardine di civiltà giuridica», ribatte il centrodestra: in caso di dubbio, l'accusato dev'essere assolto. E quale dubbio più grande di una sentenza di assoluzione?

Se questa norma fosse in vigore, 25 poliziotti non avrebbero potuto essere stati condannati in appello a 100 anni di carcere per le violenze al vertice G8 di Genova del 2001, perché in primo grado erano stati assolti.

Già nel 2006 il centrodestra aveva approvato la legge Pecorella per l'inappellabilità delle assoluzioni, in mancanza di nuove prove. Ma l'allora presidente Carlo Azeglio Ciampi l'aveva rimandata alle Camere per dubbia costituzionalità. E la Corte Costituzionale ne bocciò larghe parti l'anno successivo, con la motivazione che si viola il «principio di eguaglianza fra le parti».

Mauro Suttora

Wednesday, March 16, 2011

A volte le monarchie sono preziose

PER LA LIBIA UNA SOLUZIONE SPAGNOLA?

di Mauro Suttora

Oggi, 16 marzo 2011

Nella storia recente ci sono casi di monarchie felicemente restaurate dopo le dittature. La più famosa è quella spagnola. Il dittatore fascista Francisco Franco, che governò dal 1937 fino alla morte al 1975, decise di preparare con molto anticipo una transizione morbida dal suo regime a quello della monarchia parlamentare. Per questo volle accanto a sè il giovane Juan Carlos di Borbone, che allevò come successore. Tutto filò liscio, tranne il farsesco tentativo di golpe del tenente colonnello Antonio Tejero nel 1981, che irruppe nell’aula del Parlamento. Fu ripristinata la democrazia con tutte le libertà fonamentali, e la figura del re servì per placare le paure dei franchisti anche dopo l’arrivo dei socialisti al potere.

C’è poi il caso di re rientrati in patria dopo un lungo esilio vincendo elezioni col proprio partito. È accaduto a Simeone di Bulgaria, sovrano dal 1943 al ‘46, e poi premier dal 2001 al 2005.
Nel caso della Libia, un re senussita servirebbe da figura unificante non solo dal punto di vista politico, per conciliare Tripolitania e Cirenaica, ma anche per ragioni religiose.

I Senussi tornano in Libia?

CHI SONO IL PRINCIPE IDRIS AL SENUSSI, NIPOTE DEL RE SPODESTATO NEL 1969, E IL CUGINO MUHAMMED

Oggi, 16 marzo 2011

di Mauro Suttora

Porto di Trieste, notte del 21 marzo 1971. Un commando di uomini armati si sta imbarcando in gran segreto sul battello Conquistator XIII. Destinazione: Libia. Dove due anni prima il 27enne Muammar Gheddafi ha spodestato il 79enne re Idris Senussi, che governava pacificamente dal 1951. Nome in codice dell’operazione: Hilton Assignment. La spedizione è finanziata da Abdallah Senussi, il «principe nero» braccio destro e nipote di re Idris. Il quale, non avendo figli, lo ha indicato come erede al trono.

Entrambi si trovavano all’estero al momento del golpe: re Idris in Turchia, il 50enne principe Abdallah in Italia, a Montecatini. A Tripoli era restato un altro nipote di Idris, Hassan: finì sul trono per un giorno, poi i militari golpisti proclamarono la repubblica. Esattamente come aveva fatto il loro eroe, Gamal Nasser, in Egitto nel ‘52. Re Faruk aveva riparato in Italia. Il libico Hassan rinunciò al trono e finì agli arresti domiciliari.

L’Italia blocca il blitz

Ora da Trieste partiva la riscossa della monarchia senussita, che aveva garantito libertà, benessere e moderazione alla Libia per vent’anni. Con grande tolleranza: gli ex coloni italiani vivevano tranquilli; cristiani, islamici ed ebrei si rispettavano anche dopo la terza guerra arabo-israeliana del ‘67, che invece negli altri Paesi arabi aveva provocato esodi di israeliti.

D’altra parte, la Senussia è tuttora una delle grandi correnti dell’Islam. Gestisce la seconda maggiore moschea alla Mecca, è aperta alla modernità. Anche la tradizionale rivalità fra la Cirenaica legata all’Egitto e la Tripolitania più maghrebina era stata risolta dai Senussi conferendo anche a Bengasi lo status di capitale della Libia. Insomma, ancor oggi, dopo i 42 anni di delirio gheddafiano, i libici ricordano con nostalgia quell’epoca. E infatti hanno subito adottato la vecchia bandiera monarchica per la loro nuova Libia liberata.

La storia sarebbe stata diversa se quella notte d’inizio primavera a Trieste i servizi segreti italiani non avessero improvvisamente bloccato la spedizione del principe Abdallah. Niente sbarco in Libia, niente liberazione dei partigiani senussiti incarcerati da Gheddafi. L’Italia non voleva una restaurazione della monarchia, nonostante i 30 mila connazionali cacciati da Gheddafi l’anno prima. E l’allora ministro degli Esteri italiano Aldo Moro pochi mesi dopo poté vantare quello «stop» direttamente con il dittatore libico, inaugurando una politica quarantennale di «appeasement» e amicizia. Che, prima del recente «bacio dell’anello» da parte di Berlusconi, ebbe un altro picco: l’avviso, da parte del premier Bettino Craxi nell’86, che gli Stati Uniti stavano per bombardare la caserma di Gheddafi (uccidendone la figlia adottiva).

Il blitz «Hilton Assignment» fatto abortire dagli 007 italiani è stato confermato da Arturo Varvelli, ricercatore dell’Ispi (Istituto per gli studi di politica internazionale), nel suo libro L’Italia e l’ascesa di Gheddafi (ed. Dalai Baldini Castoldi, 2009).

I Senussi non hanno mai abbandonato il sogno di tornare in Libia. Re Idris è morto in esilio al Cairo nell’83, suo nipote Abdallah cinque anni dopo. Il testimone è passato al principe Idris, figlio di Abdallah e omonimo del nonno: al momento del golpe del ‘69 era dodicenne in collegio a Londra.

Oggi Idris Senussi vive fra Roma e Washington, fa il mediatore d’affari. Conosce tutti i monarchi del Medio Oriente, di alcuni è parente (cugino dei re marocchino e giordano). Dalle prime nozze con un’americana ha avuto la figlia Alia. Poi si è risposato con la nobildonna spagnola Ana Maria Quinones. Ha messo a frutto i suoi contatti per far ottenere grosse commesse a Eni, Snam, Condotte, Ansaldo.

Ha preparato la rivolta del 17 febbraio in stretto contatto con i parenti rimasti in Libia. Il 4 febbraio aveva lanciato un appello pubblico a Gheddafi, invitandolo ad aperture e riforme dopo le liberazioni di Tunisia ed Egitto. Nessuno, un mese fa, immaginava che la rivoluzione si sarebbe estesa subito anche alla Libia. Lo avevamo intervistato (Oggi n.7), Senussi sperava ancora in una mossa intelligente (o almeno furba) da parte del dittatore: «Gheddafi nell’ultimo anno ha effettuato alcune liberalizzazioni nel campo del commercio, ha restituito qualche proprietà privata confiscata». Ma avvertiva che anche i giovani libici, come i tunisini e gli egiziani, erano arrivati al limite della sopportazione.

Dopo l’inattesa liberazione di Bengasi il principe Idris è felice: «Hanno assaltato e liberato il palazzo dove sono nato, che Gheddafi aveva trasformato in caserma». Bene introdotto al Dipartimento di stato statunitense, è volato a Washington dove ha fornito preziose informazioni ai dirigenti della politica estera americana. Intervistato dalla Cnn, avverte che ormai Gheddafi è finito: «Dopo le stragi che ha commesso non c’è più possibilità di negoziato». Sua figlia, la 26enne principessa Alia, raccoglie fondi per la Croce/Mezzaluna Rossa.

Nel frattempo, a Londra compare un altro pretendente al trono libico: Muhammed Senussi, 48 anni, figlio di Hassan. Gheddafi permise a suo padre di espatriare soltanto nell’88.
Muhammed ingaggia una costosa agenzia di relazioni pubbliche, si fa intervistare da Al Jazeera. E i suoi sostenitori scatenano una battaglia via internet contro Idris: cambiano il suo ritratto su Wikipedia, l’enciclopedia online. Un conflitto fra cugini che ricorda quello fra i nostri Vittorio Emanuele di Savoia e Amedeo d’Aosta.

Il ramo dinastico di Muhammed si fa forte di quel 30 settembre ‘69, unico giorno sul trono di suo padre Hassan. Il ramo di Idris risponde che proprio l’immediata abdicazione cancella ogni diritto. A complicare le cose, infine, ecco Hashem Senussi, 60 anni, fratello maggiore del principe Idris: pure lui, che vive a Roma, si proclama erede al trono in due interviste al Tempo e al Corriere della Sera.

Questo proliferare di pretendenti significa che ci sarà veramente un trono libico su cui sedersi? Più passano i giorni, più si capisce quanto sia grande il vuoto che il quarantennio di Gheddafi ha provocato in Libia. Il nuovo governo provvisorio di Bengasi è composto da persone rispettabili, in certi casi eroiche. Ma lo stesso fatto che i capi della Libia libera debbano riciclare ex ministri e generali del dittatore dimostra la carenza di classe dirigente. E il vuoto a quelle latitudini è pericoloso, perché può essere riempito da fanatici religiosi, o da Al Qaeda.

L’esempio afghano

Prima o poi a Tripoli emergerà una nuova leadership. Ma per ora la struttura della Libia sembra simile a quella dell’Afghanistan, diviso fra decine di tribù. A Kabul oggi molti rimpiangono di non aver rimesso al suo posto il vecchio re Zahir (che regnò dal 1933 al ‘73, prima dell’esilio a Roma) dopo la liberazione dai talebani nel 2001. Avrebbe potuto garantire l’unità di una nazione fratturata meglio del presidente Karzai, e forse adesso l’Afghanistan non sarebbe più in guerra.

I Senussi tornerano a regnare in Libia, ovviamente in regime democratico costituzionale? «Se il popolo lo vorrà, siamo disponibili», è la risposta. Il plurale è maiestatis, ma almeno su questo l’accordo fra i tre prìncipi è unanime.

Mauro Suttora

Thursday, March 10, 2011

Libia: che può fare l'Italia?

Oggi, 9 marzo 2011

Cosa sta succedendo?

1) GUERRA CIVILE

Inutile giocare con le parole: in Libia è guerra civile. A Ovest Gheddafi controlla la Tripolitania, e ha attaccato le città ribelli Zawiya e Misurata. A Est è sorto un nuovo governo con capitale Bengasi che si estende su tutta la Cirenaica. Il fronte è fra Sirte e Ras Lanuf. Gli insorti chiedono un solo aiuto: la «No fly zone». Non vogliono un intervento terrestre.

Cosa può fare l’Italia?

2) NO FLY ZONE

«È urgente impedire di volare agli aerei ed elicotteri assassini di Gheddafi», avverte Bernard-Henry Lévy, unico intellettuale europeo andato a Bengasi. La «no fly zone» è già stata applicata dall’Onu negli anni ’90 all’Iraq, per evitare che Saddam Hussein bombardasse i curdi al nord e gli sciiti al sud. E nel ’99 dalla Nato per proteggere i kosovari dai serbi di Slobodan Milosevic. Il veto russo impedì che la protezione del Kosovo dal genocidio avesse anche l'imprimatur dell'Onu, ma Mosca venne immediatamente coinvolta dall'allora presidente Usa Clinton, che affidò ai russi una zona di occupazione del Kosovo liberato.

La No fly zone è il minimo che la comunità internazionale può fare per proteggere gli insorti della Cirenaica. I quali stanno combattendo una guerra asimmetrica: in ogni momento sono vulnerabili dal cielo, privi come sono di aerei e dotati solo di contraerea artigianale. Gheddafi non si farà scrupolo di colpire anche i civili (lo ha già fatto a Zawiya, lo sta facendo a Misurata). Inoltre occorre bloccare l’arrivo di merci e mercenari dal cielo, soprattutto nell’aeroporto di Sebha, nel deserto del Fezzan.

C’è poi l’opzione «serba»: bombardare le basi militari di Gheddafi, o almeno le piste dei suoi aeroporti, per impedire il decollo dei bombardieri. In Serbia ci furono danni «collaterali» (morti di civili), ma in Libia il deserto permette colpi più chirurgici. In ogni caso, l’Italia da sola non può far nulla. Ma deve sollecitare Onu e Nato, e soprattutto mettere a disposizione le nostre basi per gli aerei Usa, come fece per il Kosovo 12 anni fa.
In mancanza di un «ombrello» Onu, a causa dei veti di Cina (preoccupata per i suoi «affari interni» Tibet e Xinkiang) e Russia (Cecenia), la Nato deve assicurarsi almeno un endorsement di Lega Araba e Unione Africana.

Se la comunità internazionale non interviene in Libia, potrebbero verificarsi stragi come quelle in Ruanda (1994) e Bosnia (1995).

3) RICONOSCERE IL NUOVO GOVERNO

I politici italiani hanno qualcosa da farsi perdonare: il trattato d’amicizia con Gheddafi del 2009 (votato anche dal Pd). Possono rimediare riconoscendo subito il governo provvisorio della Libia libera, nato a Bengasi. Abbandonare le cautele diplomatiche è il minimo che politici lungimiranti possano fare per proteggere non solo donne e bambini della Cirenaica, ma anche i nostri interessi economici.

Essere i primi a dichiararci amici della nuova Libia, dopo essere stati gli ultimi ad abbandonare l’«amico» Gheddafi: un riconoscimento che porterà riconoscenza. Per i nuovi contratti, ma anche per i futuri controlli dei clandestini su frontiere e coste. È un rischio? Forse. Ma c’è un precedente incoraggiante: la Germania nel ’90 riconobbe per prima le neonate Slovenia e Croazia. Che oggi sono – economicamente – province tedesche.

Qualsiasi presenza non militare nella Libia libera (come la nave Libra) è positiva: medici, cooperanti, tecnici, volontari. Tenendo però presente che la Libia è un Paese ricco, grazie al petrolio. Quindi non offendiamoli portando roba da Terzo mondo. Astenersi anche affaristi, almeno per un po’: che saltino un giro.

4) RIFUGIATI

Troppo tardi. Non c’è più tanto bisogno del progettato Villaggio Italia alla frontiera Tunisia-Libia: i rifugiati (lavoratori stranieri scappati dalla Libia) sono quasi tutti tornati a casa. Comunque l’idea è buona. Al di là della retorica umanitaria, infatti, stare in Tunisia ci fa ottenere quattro risultati:
A) Ricucire i rapporti con l'Agenzia Onu dei profughi, finora polemici. Ora l'Italia mette soldi e infrastrutture, regalando all'Unhcr la gestione.
B) Mettere il piede in un Paese che, dopo la cacciata del dittatore Ben Ali, soffre un vuoto di potere. Potremo controllare direttamente, alla fonte, coste e partenze di clandestini.
C) avvantaggiarsi sulla Francia, tradizionale «madrina» di Tunisi come ex potenza coloniale, ma ora in difficoltà Ben Alì era appoggiato da Parigi. La potente ministro degli Esteri Michèle Alliot-Marie ha dovuto dimettersi per le sue vacanze natalizie tunisine pagate dal dittatore.
D) Bypassare la Ue, la cui inefficiente commissaria agli Aiuti umanitari è stata quasi presa a botte alla frontiera Tunisia/Libia per la sua inerzia.

Il Villaggio Italia potrà servire in caso di guerra civile prolungata in Libia, sempre che Gheddafi non sigilli le frontiere. Ma solo temporaneamente: i sei milioni di libici (pochi, in confronto agli 80 milioni di egiziani) non hanno interesse a lasciare il proprio Paese, dove grazie al petrolio si pagano pochissime tasse, sanità e istruzione sono gratis, e non occorre (quasi) lavorare, se non in impieghi dirigenziali pubblici e ben retribuiti. Tutto il resto lo facevano gli stranieri. Che torneranno, quando tornerà la pace.

Mauro Suttora

Wednesday, March 09, 2011

Il castello di Oria

Oria (Brindisi), marzo
PIER SILVIO BERLUSCONI SMENTISCE LE NOZZE IN PUGLIA

Oggi, 25 febbraio 2011

di Mauro Suttora

Niente da fare, altro che Jimmy Fontana: il «bianco castello fatato» pugliese di Oria non ospiterà le nozze che già s’immaginano fastosissime fra il figlio dell’uomo più ricco e potente d’Italia e la sua Cenerentola.

Pier Silvio Berlusconi ha ormai 41 anni, e ormai da dieci sta con la presentatrice di Verissimo (ogni sabato pomeriggio su Canale 5), nonché ex letterina di Passaparola Silvia Toffanin da Marostica (Vicenza). La quale, dopo essersi laureata in lingue alla Cattolica (tesi con Aldo Grasso sui telefilm americani), l’anno scorso ha dato a Pier Silvio il figlio Lorenzo Mattia.

Tempo di regolarizzare una situazione e coronare un sogno, quindi. Ma a questo punto cominciano anche i sogni dei proprietari dei siti adatti allo storico evento. Non capita tutti i giorni, un matrimonio del primogenito di Berlusconi.

Si scatenano quindi le voci sulle location più prestigiose: i laghi Maggiore e Como, Portofino dove il vicepresidente Mediaset ha una villa, tiene lo yacht ed è un habitué, oppure il castello Odescalchi di Bracciano (Roma) dove cinque anni fa si sposarono Tom Cruise e Katie Holmes?

Niente di tutto questo: due settimane fa filtra la voce che il luogo destinato a diventare per un giorno l’ombelico d’Italia sarà il castello federiciano di Oria, paesone di 15 mila abitanti fra Brindisi e Taranto.

La coppia smentisce, e la cosa sembra morta lì. La scorsa settimana, però, il settimanale Gente torna alla carica dedicando addirittura la copertina alla falsa notizia.

A questo punto Berlusconi junior si spazientisce, e diffonde un comunicato durissimo: «La coppia smentisce nuovamente e con fermezza la falsa notizia relativa a presunte cerimonie di nozze previste in un complesso turistico. Denuncia l’uso illegittimo dei loro nomi e della loro immagine per promuovere un’operazione immobiliare. Annuncia di aver dato mandato ai propri legali di procedere nei confronti degli autori del raggiro, e diffidano chiunque dal darne nuovamente notizia.

Chi sono i colpevoli? Tre anni fa l’imprenditore veneto Giuseppe Romanin (porte blindate) ha comprato il castello del 1200 assieme alla moglie pugliese Isabella Caliandro. A venderlo, per quasi otto milioni di euro, i proprietari storici: la famiglia nobile Martini Carissimo. Il comune di Oria lo scorso dicembre ha negato a Romanin il permesso per aprire dentro al castello, che è monumento nazionale, un bar e ristorante. Magari le nozze vip potevano servire a far rilasciare la licenza...

Mauro Suttora

I tanti vedovi di Gheddafi

In 40 anni quasi tutti i politici italiani (e del mondo) hanno gareggiato nel baciare la babbuccia al satrapo. Moro e Craxi gli salvarono perfino la vita

di Mauro Suttora

Oggi, 2 marzo 2011

Facile dirlo adesso: pazzo, criminale, tragico buffone. Ma fino a due settimane fa quasi tutti i politici italiani hanno blandito Muammar Gheddafi. Forse perché è un nostro connazionale: il dittatore libico, infatti, nasce in un villaggio di cammellieri vicino a Sirte nel giugno 1942. Allora la Libia era nostra. Ancora per pochi mesi, fino alla sconfitta di El Alamein. Incredibile: Gheddafi all’anagrafe è cittadino italiano.

Quinto maschio di dieci figli, genitori anzianotti, vita di stenti. È l’unico a sopravvivere, con tre sorelle più anziane. I Gheddafi sono una delle 180 tribù che, allora come oggi, compongono la Libia. Il piccolo Muammar cresce ascoltando le storie di guerra che suo padre gli racconta mentre gli animali pascolano. L’eroe è Omar al Mukhtar, partigiano impiccato dai colonizzatori italiani. Gheddafi si è appiccicato la sua foto sulla divisa quand’è venuto a Roma nel 2010.

Dopo la madrassa (scuola coranica) nel villaggio, va a Sirte a fare le medie. È così povero che dorme e mangia in moschea. I compagni lo prendono in giro: «Beduino!». Ma lui diventa il primo della classe. E ogni estate, invece di godersi le vacanze, fa transumare i cammelli per 500 chilometri, fino alle oasi del Fezzan. Frequenta il liceo a Sebha, in mezzo al deserto.

Intanto la Libia è diventata indipendente, sotto il re Idris Senussi. Gheddafi però adesso ha anche un altro eroe: il colonnello Gamal Nasser, che nel 1952 ha cacciato re Faruk dall’Egitto. Nel ‘56 segue per radio la crisi di Suez, la guerra contro Israele, poi le lotte anticoloniali algerine. Il suo animo s’infiamma, partecipa a cortei, viene schedato. Ciononostante negli anni ‘60 riesce a entrare all’accademia militare, per imitare il suo idolo. Lo mandano a specializzarsi in Inghilterra e ad Atene.

Il primo settembre 1969 rovescia il vecchio re con un golpe incruento. A 27 anni, diventa il più giovane dittatore della storia: Napoleone ne aveva 30 quando divenne primo console, Fidel Castro conquistò Cuba a 32. Il 1969, pensateci: cinque settimane dopo lo sbarco sulla Luna. Sembra un’altra era. «Cosa sono 42 anni?», ha chiesto Gheddafi cinque giorni fa, provocatorio come sempre: «Dicono che governo da troppo tempo. Ma la regina Elisabetta è al potere da molto più a lungo».

Aveva dei bellissimi rayban, nel ‘69, il capitano Muammar subito nominato colonnello e mai diventato generale per rispetto verso Nasser. La passione per gli occhiali gli è rimasta, l’ultimo fantastico modello panoramico lo ha inforcato nel penultimo discorso, col mantello marrone da beduino. Per tutti gli anni ‘70 e ‘80 l’Occidente lo ha sopportato perché c’era il blocco sovietico, e si voleva evitare che finisse con i comunisti come Assad in Siria e Saddam in Iraq. Poi, è campato grazie alla minaccia islamica e alla sua eccentrica laicità che ha (em)arginato Al Qaeda.

Lui però ne ha combinate di tutti i colori. Ha fornito armi, soldi e addestramento a ogni terrorista della terra: dalle Br all’Ira, dall’Olp alla Raf, dall’Eta al Settembre Nero della strage alle Olimpiadi di Monaco ‘72. Ha mosso guerra al Ciad e alla Francia, litigato con quasi tutti gli altri capi arabi in ogni vertice, incarcerato per anni infermiere bulgare accusate di aver diffuso l’Aids, ospitato Idi Amin, appoggiato Bokassa, ammazzato l’imam libanese Mussa Sadr. Qualunque banda armata in Africa è stata aiutata dalla Libia: nel Sahara Occidentale (contro i «fratelli» marocchini), in Liberia, in Sierra Leone. E se Mao ha scritto il «libretto rosso, Gheddafi ha composto un altrettanto indigesto «libro verde» pieno di teorie egualmente strampalate.

Nel 1986 passò il segno: un agente libico provocò tre morti e 250 feriti (fra cui molti soldati Usa) con una bomba nella discoteca La Belle di Berlino. Ronald Reagan bombardò Tripoli e Gheddafi sarebbe stato sepolto sotto le macerie come la sua figlioletta adottiva, se Bettino Craxi non lo avesse avvertito mezz’ora prima. Si vendicò sparacchiando due missili su una base Usa a Lampedusa: mancarono il bersaglio di due chilometri e finirono in mare.

Non era la prima volta che l’Italia salvava Gheddafi. Nel ‘71 il blitz segreto Hilton Assignment, ideato dal nipote del re deposto (e padre dell’attuale erede al trono libico, il principe Idris Senussi) fu fatto fallire da Aldo Moro, allora ministro degli Esteri. E questo nonostante l’anno prima 20 mila italiani fossero stati espulsi dalla Libia perdendo ogni bene, le basi angloamericane chiuse, le compagnie petrolifere nazionalizzate. Ma Muammar era considerato il male minore, un baluardo anticomunista. Per questo ancora a metà degli anni ‘80 istruttori italiani addestravano segretamente sui nostri Siai Marchetti (usati anche per mitragliare il Ciad) i piloti militari libici, dotati peraltro di Mirage francesi oltre che di Mig russi.

Gheddafi ha torturato e ucciso migliaia di oppositori in questi 42 anni, dentro e fuori la Libia. Nel 1988 il suo massimo crimine (finora): i 270 morti del jumbo Londra-New York fatto esplodere su Lockerbie (Scozia) da agenti libici. Ai parenti il colonnello ha pagato 2,7 miliardi di dollari (10 milioni ciascuno) in cambio della fine delle sanzioni economiche. Nel 1989 altra bomba su un aereo Uta Ciad-Parigi: 170 morti, 170 milioni di compensazione.

Quell’anno fui invitato da Gheddafi a Tripoli con altri giornalisti per visitare la fabbrica di Rabta: l’Onu lo accusava di confezionarci armi chimiche, lui giurava che fossero solo fertilizzanti. Dopo ore di attesa apparve il colonnello per farsi intervistare: quasi tutte le reporter occidentali si sciolsero al suo cospetto, subendo un misterioso fascino a me incomprensibile. Risultato: quando nel 2003 Gheddafi annunciò che abbandonava i tentativi di costruirsi la bomba atomica (temendo di fare la fine di Saddam), ammise che a Rabta le armi chimiche c’erano.

Finite le sanzioni Onu e Usa e arruolato Gheddafi nella lotta contro Al Qaeda, a Tripoli c’è stata la processione di leader democratici in gara per lucrose commesse: prima Tony Blair, poi Nicholas Sarkozy, infine nel 2008 perfino la bushiana Condoleezza Rice. Silvio Berlusconi ci ha messo maggiore entusiasmo, come sempre. Anche Prodi e D’Alema si sono inchinati davanti al rais del petrolio. Ma Silvio gli ha baciato l’anellone e ci ha inflitto la diretta tv dei disordinati cavalli berberi a Tor Di Quinto. Che hanno sfigurato, rispetto ai perfetti caroselli dei nostri carabinieri. Comunque, il tanto vituperato trattato di amicizia con la Libia del 2009 è stato votato anche dal Pd. Unici contrari: Casini, Pannella, Di Pietro e Furio Colombo. Sono tanti quindi, oggi, i vedovi di Gheddafi.

Non c’entrano invece, nonostante le apparenze, Paolo Conte, autore della deliziosa canzone Tripoli ’69, e Patty Pravo, che la cantò a Canzonissima all’inizio di quell’anno: non vinse, ma fu di buon auspicio per il golpe, regalandogli un’aura di pittoresco esotismo. Quanto a Muammar, gli resta un unico grande rammarico: non avere superato il primatista Fidel Castro nella hit parade mondiale dei satrapi più longevi. Ancora sette anni, e ce l’avrebbe fatta.

Mauro Suttora

Wednesday, March 02, 2011

Berlusconi? Ha i secoli contati

Dopo il rinvio a giudizio su Ruby, il premier non si arrende

«Farà di tutto per rimanere al potere», prevedono gli esperti. «E ci riuscirà», dicono in molti. Ma fino a quando? Per ora, la sua maggioranza si allarga

di Mauro Suttora

Oggi, 2 marzo 2011

«Bisogna chiederlo alla Sfinge. O alla Pizia. Impossibile prevedere alcunché, quando c'è di mezzo Berlusconi». Giovanni Sartori, 86 anni, massimo politologo italiano, per decenni professore alla Columbia University di New York, non riesce a rispondere alla domanda: Silvio Berlusconi è alla fine? Due anni fa gli aveva dedicato il caustico libro Il Sultanato . Ma adesso dice a Oggi: «Il nostro premier è imprevedibile, sfugge a ogni regola. Certo, tutti i politici seguono una loro parabola più o meno lunga di fortune e avversità. Ma per lui i precedenti statistici non funzionano. È un caso unico. Posso solo esprimere la mia opinione personale: per causa sua l'Italia sta vivendo una situazione allucinante».

L'incriminazione per concussione e prostituzione minorile che lo vedrà sotto processo a Milano il 6 aprile non sembra avere intaccato la determinazione di Berlusconi di rimanere al potere: «Governerò fino alla fine della legislatura, nel 2013», ha dichiarato. Ce la farà?

«Berlusconi ha i secoli contati...», scherza Antonio Polito, già senatore della Margherita e direttore del quotidiano Il Riformista. «Ha superato crisi peggiori. Dopo la sconfitta del 2006, per esempio, sembrava finito. Casini e Fini parlavano apertamente di successione. Ma già nel 1996, quando Prodi vinse la prima volta, si diceva che era troppo vecchio, che non era un politico di professione... Insomma, la risposta è nella storia: è rinato altre volte».

«C'era una sola possibilità che Berlusconi cadesse», aggiunge il professor Piero Ignazi , direttore de Il Mulino , «ed era tramite la fronda interna. Come con Mussolini. Ma lo scorso 14 dicembre Fini ha fallito il suo 25 luglio, e ora Berlusconi sta facendo di tutto per rimanere al proprio posto. Riuscendoci, perché i suoi parlamentari non sono eletti, ma nominati da lui in persona. Il suo partito non segue le regole normali della politica, perché è un partito patrimoniale. E lui dispone di risorse infinite, finanziarie e non».

«Se non ora quando», allora? Utilizziamo lo slogan delle donne scese in piazza il 13 febbraio per la «dignità», disgustate dal Rubygate.
«Credo che la parabola di Berlusconi si compirà col ventennio della sua discesa in politica», risponde Marcello Veneziani, editorialista del quotidiano berlusconiano Il Giornale. «Andrà in pensione al compimento dei 19 anni, sei mesi e un giorno. Alla conclusione di questa legislatura, tra poco più di due anni. C'è però la possibilità - o il rischio, a seconda dei punti di vista - che proprio la volontà di farlo cadere prima produca il suo protrarsi sulla scena politica, perfino con un nuovo mandato di governo».

«Ma no, all'80 per cento ci sarà il voto anticipato entro l'anno prossimo», prevede Pierluigi Battista , commentatore del Corriere della Sera. «L'astro berlusconiano è in fase di oscuramento, lo scandalo di Ruby gli ha dato una botta fortissima. Anche il più favorevole dei sondaggi dà il Pdl attorno al 30 per cento, contro il 37 con cui vinse le elezioni tre anni fa. Sommando la Lega Nord il centrodestra arriva al 40. Ma a quel punto il centrosinistra torna competitivo, se riesce a mettere assieme una coalizione che raggiunga quella percentuale. La partita è aperta».

«La partita si riapre solo se si va a elezioni», obietta Polito, «e questo lo deciderà Berlusconi, che adesso è in una posizione di forza. Per tre motivi. Primo, è il padrone indiscusso del partito di maggioranza relativa. Secondo, dispone di una maggioranza parlamentare anche dopo la grave spaccatura di Fini. Anzi, questa maggioranza si allarga poco a poco. Terzo, non vedo la ragione per cui Bossi dovrebbe mollarlo. Direi perfino che alla Lega conviene un Berlusconi indebolito, perché così può ottenere più cose. Viceversa, non penso che Bossi vada con Bersani perché con il Pd il federalismo lo fa meglio... Per tutte queste ragioni, Berlusconi è difficilmente scalzabile».

«In un Paese maturo e civile», dice Veneziani, «si penserebbe a impegnare i prossimi due anni a costruire una credibile alternativa o successione a Berlusconi, lasciandolo governare per il resto del mandato ricevuto dagli elettori, incalzandolo solo sul raffronto tra promesse e realizzazioni, e tra l'azione di governo e le necessità dell'Italia. Si potrebbe guidare una transizione incruenta. Sarebbe un modo responsabile per tutti, nell'interesse del Paese ed evitando spargimenti di sangue da ambo le parti».

Quindi il premier non è in declino?
«Che Berlusconi sia stanco e a volte tradisca segni di declino mi pare vero», ammette Veneziani, «ma finché si permane in questa situazione, l'impressione è che si scelga tra il male e il peggio: tra Berlusconi e il nulla. Quando il fumo dei giorni sarà passato, si farà un bilancio onesto dell'unico leader politico dei nostri anni che passerà alla storia. Nel bene e nel male. Si allontana invece l'ipotesi che possa aspirare al Quirinale».

Le manifestazioni delle donne del 13 febbraio hanno danneggiato Berlusconi? «Avrei avuto grossi problemi a condividere un'iniziativa che sembrava essere "contro" le prostitute», dice Marina Terragni, commentatrice del settimanale Io donna. «Poi le promotrici hanno aggiustato il tiro, non più le "indignate" contro le "indegne". Certo è che il nostro uomo sembra avere grossi problemi nei rapporti con l'altro sesso. Non parliamo di quelli con l'ex moglie Veronica, ma in generale di come lui si rivolge alle donne. Quando dice "Io non le ho mai pagate", pur di fronte all'evidenza delle buste e degli esborsi del suo ragioniere per le ragazze di via Olgettina, probabilmente è sincero. Perché è fermo a una concezione vecchissima, da residuato bellico anni Cinquanta, del rapporto uomo-donna. Quella del cumenda che fa il "presente" alla favorita, o del playboy che pensa di lusingare le signore con complimenti appicicaticci. Non è mai brutale. Anzi, è gentile, come dimostrano le registrazioni del suo colloquio con la D'Addario dopo la notte insieme. Però questa sua "antichità" di approccio colpisce in Berlusconi, un uomo che invece in molti altri campi, dall'impresa allo spettacolo, è il simbolo della modernità».

Ma le disavventure femminili di Berlusconi degli ultimi due anni, dalla moglie Veronica che lo accusa pubblicamente di essere «malato» di sesso a Noemi, dalla D' Addario alla Minetti e a Ruby, possono spostare il consenso delle sue elettrici?
«Chi lo sa», risponde la Terragni. «Lui è caduto nella trappola in cui cadono tutti i vecchi con le ragazzine: l'illusione che loro subiscano il fascino della maturità, delle tempie brizzolate... Quel che è sicuro è che anche l'altra parte, il centrosinistra, ha grossi problemi con le donne. Per esempio, non si capisce perché non candida premier una come Rosy Bindi, che metterebbe d'accordo tutte le anime della coalizione. E poi c'è quella ex miss Padania seno alto Cadey...».
Prego?
«Ma sì, quella ragazza che la sinistra ha assoldato per presentare la manifestazione contro Berlusconi l'11 dicembre 2010. In piazza San Giovanni a Roma, ma ci rendiamo conto, quella di Enrico Berlinguer! Perché a sinistra il problema della "gnocca" se lo sono posto. Seriamente. Decidendo di imitare il gusto Mediaset».

Allora, Berlusconi forever? «È della Bilancia, come me e Jovanotti. Quindi non mollerà mai», scherza la scrittrice Guia Soncini, autrice di Elementi di capitalismo amoroso. «Questo ritornello del Berlusconi che è finito lo sento dal 1994, bisognerebbe cambiare repertorio. Molto più inquietanti, semmai, sono quelli che gli stanno attorno. E che non scompariranno tutti magicamente, assieme a lui».

«Ora come ora, comunque, Silvio fa il democristiano: galleggia», conclude Polito. «Per dire che è finito dovrebbe uscire da palazzo Chigi. Quindi occorre una crisi di governo. Ma dov'è la maggioranza alternativa? Lui tenterà di evitare il più a lungo possibile il voto anticipato. Prima lo minacciava, ora visti i sondaggi le parti si sono capovolte, ed è la sinistra a chiederlo. Ne riparliamo almeno fra tre o quattro mesi. Ma probabilmente anche molto più in là, nel 2012».

Mauro Suttora

Quanti rischi in Libia

Ipotesi sulle possibili conseguenze, per l'Italia e il resto del mondo, della rivolta popolare contro il regime di Gheddafi

Oggi, 2 marzo 2011

Nel Nordafrica è arrivata la libertà. E forse (speriamo) la democrazia. Ma i pericoli sono ancora tanti. Anche per noi

di Mauro Suttora

Evviva: dopo Tunisia ed Egitto, anche la Libia sembra quasi liberatada un regime e avviata verso la democrazia. Ma per noi italiani si aprono molti interrogativi. Ci sarà un'invasione di profughi? Un pericolo terrorismo? Il prezzo della benzina salirà? E le nostre commesse? «L'Unione Europea deve capire che il problema non è italiano, ma continentale», dice l'ex ministro dell'Interno Beppe Pisanu. «E questo per due motivi. Primo: l'Italia è il confine sud di tutta l'Europa, una volta entrati da qui c'è libertà di circolazione senza più barriere alle frontiere. Secondo: la stragrande maggioranza degli immigrati entrati ultimamente dalla Tunisia non vuole fermarsi in Italia, ma proseguire verso altri Paesi».

Le rivolte in Libia, Egitto e Tunisia provocheranno una valanga di arrivi? C'è chi parla addirittura di 300 mila profughi. Ma è un'esagerazione. Per gli africani che entrano nel sud di questi Paesi per imbarcarsi dalle loro coste, basta ripristinare con i nuovi governi i precedenti accordi di sorveglianza. Cosa che è stata già fatta con la Tunisia, e che potrà avvenire anche in Libia una volta che la situazione si sarà chiarita. Se invece si teme che una parte dei sei milioni di libici fugga da una guerra civile prolungata e sanguinosa, basterà che l'apposita agenzia Onu installi campi profughi alle frontiere con Egitto e Tunisia. Ma tutta la Libia tranne Tripoli ormai sembra libera, e la vita sta tornando alla normalità. Certo, la capitale ha tre milioni di abitanti, cioè metà della popolazione. Ma i giacimenti petroliferi sono soprattutto in Cirenaica, e la produzione (con relativi introiti) potrà continuare a sostenere i ricchi libici. I quali non pagano pochissime tasse, e hanno scuola e assitenza sanitaria gratuita: non sono certo poveracci in fuga.

TERRORISTI

Il figlio di Gheddafi, Saif el Islam, quando le cose iniziavano a mettersi male aveva sventolato la minaccia islamica: «A Bengasi Al Qaida ha già proclamato il califfato». Nulla di vero, anche se qualche sprovveduto - perfino ai piani alti delle diplomazie europee - ha abboccato. Il che non significa che il pericolo del fanatismo non esista. «Ma in Libia ha sempre prevalso la tradizione senussita », assicura il principe Idris al Senussi , nipote dell'ultimo re e pretendente al trono, «cioè una corrente islamica moderata e aperta alla modernità».

Come in tutte le rivoluzioni, non è la prima impressione quella che conta. Il fatto che adesso in Libia - ma anche in Egitto e Tunisia - non si vedano in giro barbette da fanatico e simboli religiosi, non significa che fra qualche mese possa farsi largo e prevalere una fazione estremista. Anche democraticamente: a Gaza le prime elezioni libere del 2006 sono state vinte da Hamas. Negli Anni 80 pure Gheddafi, come i sauditi e gli Stati Uniti, commise l'errore di finanziare e mandare in Afghanistan dei mujaheddin per combattere gli invasori sovietici. Finita la guerra, Osama Bin Laden e i talebani non deposero le armi. Alcuni guerriglieri di origine libica tornarono in patria, ma furono subito incarcerati da Gheddafi. In Libia quindi negli Anni 90 non si ebbe la lotta integralista che insanguinò l'Algeria. Ma ora gli estremisti sono stati scarcerati (apposta?) dal colonnello, e potrebbero ricominciare a fare proseliti.

LO SCENARIO PEGGIORE

Lo scenario peggiore è quello di una resistenza prolungata da parte di Gheddafi a Tripoli, e di una disintegrazione della Libia fra le diverse tribù e fazioni. In mancanza di un forte potere centrale avrebbero la meglio le bande di predoni del deserto nelle zone meno battute, e la Libia si trasformerebbe in una Somalia. Sarebbe il luogo ideale per l'installazione di cellule e basi di Al Qaeda, come avvenne in Afghanistan negli Anni 90.

BENZINA

La Libia produce 1,8 milioni di barili al giorno di petrolio. Sembra tanto, ma è solo il due per cento dell'estrazione mondiale. Quindi gli aumenti di prezzo sia del greggio, sia della benzina alla pompa, sono solo speculazioni, senza rapporto con la realtà. Sulle quotazioni mondiali non possiamo farci nulla, vengono decise nelle borse di Londra e New York. E scontano il clima generale d'incertezza: se le rivolte si propagassero ai Paesi grandi produttori (Arabia, 12 per cento, o Iran, 5), allora potremmo cominciare a preoccuparci. Vero è che un quarto del fabbisogno delle nostre raffinerie proviene dalla Libia. Ma le petroliere possono sostituire i loro punti di rifornimento.

Quanto alla benzina a 1,55 e il gasolio a 1,43, come sempre i petrolieri scaricano immediatamente gli aumenti sul costo finale. Ma il petrolio raffinato per quella benzina l'hanno comprato ai prezzi vecchi. Quindi ne stanno approfittando per ampliare i loro margini. Dovrebbe intervenire il mister Prezzi del ministero Attività produttive. Anche per il gas, niente paura: ci sono varie e valide alternative di approvvigionamento. E poi si va verso la bella stagione, niente più riscaldamento...

COMMESSE

Sono in ballo 12 miliardi di euro all'anno: la somma di import ed export tra Italia e Libia. Siamo il loro principale partner commerciale. Le nostre principali società coinvolte sono Eni, Unicredit, Prismian, Sirti, Ansaldo, Finmeccanica e Impregilo, e hanno tutte perso in Borsa. Il 2 per cento delle azioni Eni sono in mano a Gheddafi. Il quale possiede un'eguale quota in Finmeccanica (produttore di armi), e addirittura il 7 per cento nella Juventus e nella prima banca italiana, Unicredit. L'azienda di costruzioni Impregilo è impegnata in opere colossali, per un un miliardo di euro. Riuscirà a finirle solo se torna la pace.

Mauro Suttora

Tuesday, March 01, 2011

intervista a Lara Comi

"SILVIO, TROVA UNA CHE TI AMA" per la prima volta parla l'eurodeputata pdl accusata di "velinismo"

Oggi, 21 febbraio 2011

di Mauro Suttora 

 Bella, è bella: alta, occhi azzurri. «Ma non ho mai fatto la velina. E non ho niente a che spartire con Sara Tommasi, tranne la laurea alla Bocconi». 
Lara Comi, 28 anni, da Saronno (Varese), dal 2009 è eurodeputata Pdl. Con Barbara Matera e Licia Ronzulli era stata bollata come una delle tre giovani «favorite» che Silvio Berlusconi spedì a Bruxelles. Avrebbero dovuto essere di più, ma la famosa lettera di denuncia della moglie Veronica bloccò l’operazione.

La Comi aveva seguito pure lei il corso di tre giorni sull’Europa tenuto dai ministri Franco Frattini e Renato Brunetta. Poi però le showgirl più vistose e imbarazzanti come Angela Sozio furono depennate. 
«E pensare che Silvio me l’aveva chiesto: “Vuoi darti alla politica o allo spettacolo?”», si lamenta oggi la Tommasi. «E io come una stupida scelsi lo spettacolo. Mentre oggi potrei essere tranquilla all’Europarlamento». Invece di finire nel vortice delle intercettazioni, con l’sms «Spero k krepi kon le tue troie» spedito al premier, che purtroppo rischia di passare alla storia. 

«Io con tutto ciò non ho niente a che fare», dice la Comi, «e tengo a precisare due cose. Primo, con me Berlusconi è sempre stato correttissimo. Sono andata a casa sua sia ad Arcore, sia a Roma. Mai in Sardegna. Ma erano tranquille cene di lavoro con altri politici e imprenditori, uomini e donne...»

Ha visto la discoteca del “bunga bunga”? 
«Due anni fa ho visitato un locale al piano di sotto, ma mi era sembrata una normale sala proiezioni. Nessun palo da lap-dance. Seconda precisazione: io la gavetta l’ho fatta. Non sono una miracolata. Ho lavorato in Forza Italia come attivista da quando avevo 19 anni. Ho volantinato e montato gazebi per passione, conosco bene la politica di base, cosa vuol dire faticare. Dopo la laurea ho lavorato alla Beiersdorf, la società che fra l’altro produce la Nivea, e alla Giochi Preziosi, da cui adesso ho l’aspettativa. Sono stata assistente di Maria Stella Gelmini. E quando lei è diventata coordinatrice lombarda del partito, ho diretto i giovani della regione». 

 Quanto prendeva alla Giochi Preziosi? «Mille e 300 euro al mese».
 
 E adesso, da eurodeputata? «Cinquemila e 500». 

 Un bel salto. Cosa pensa del «cursus honorum»? Già i romani duemila anni fa avevano regole ferree per le carriere politiche: i consoli dovevano essere stati prima tribuni e questori. 
«Giusto. Ma è giusto anche che l’Europarlamento sia rappresentativo di tutte le età e professioni, oltre che di tutte le nazioni. Infatti, non sono l’unica ventenne. Anzi, c’è una danese più giovane di me. E poi, alle europee abbiamo dovuto conquistarci le preferenze una ad una in quattro regioni. Lì non ci sono liste bloccate con elezione garantita».

Cosa pensa del Rubygate?
«Assurdo».

Assurdo che un 74enne paghi per avere a cena delle ventenni?
«Non credo che il presidente abbia pagato nessuno. Ma colpevolizzo più le donne, che ci sono andate per libera scelta».

E Berlusconi?
«Ognuno è libero di comportarsi come crede, nella vita privata».

Ma se suo padre o suo nonno si comportasse così, cosa gli direbbe?
«Di trovarsi una donna fissa che gli vuole veramente bene». E quella gemella che frequentava Arcore avendo un fidanzato indagato per camorra? «Appunto. Berlusconi deve circondarsi di persone che conosce, e di cui possa fidarsi». Cioè il contrario delle ragazze di via Olgettina. «Sì. Però trovo assurdi anche i cortei che strumentalizzano la dignità delle donne. Quella non si conquista urlando per strada, ma portando a casa più ruoli e posti nelle aziende e nelle istituzioni». Mauro Suttora