Thursday, October 30, 2008

Roberto Saviano

ITALIA ADDIO io devo e voglio vivere

il simbolo della lotta contro la camorra andrà forse all' estero

"Non ce la faccio più a continuare così", dice Roberto Saviano, autore del bestseller "Gomorra", diventato un film candidato all'Oscar. Da due anni si nasconde protetto dai carabinieri. Tra minacce e calunnie

di Mauro Suttora

Oggi, 29 ottobre 2008

"Se avessi una famiglia, se avessi dei figli, potrei conservare un equilibrio. Avrei un casa dove tornare, un affetto da difendere, una nostalgia. Tutti i miei "angeli custodi", gli uomini della scorta, hanno almeno tre figli. Ma per me non è così".
Ha compiuto 29 anni il 22 settembre, Roberto Saviano. Ma per il nostro maggior scrittore (un milione e mezzo di copie vendute del suo primo libro Gomorra in 43 Paesi, il film omonimo candidato all' Oscar) è stato un compleanno amaro. Le minacce di morte da parte della camorra si sono infittite. È arrivata anche la notizia (poi smentita) di un attentato entro Natale sull' autostrada Napoli Roma. Lo preparerebbe il camorrista latitante Giuseppe Setola, sfuggito alla retata contro i killer dei sei africani a Casal di Principe (Caserta). E Saviano, che la crede autentica, pare voglia rifugiarsi all' estero. Sarebbe una sconfitta per tutta l' Italia.

Ma lo scrittore non ce la fa più. Ha perso la fidanzata: "Ricordo Serena, una ragazza che è andata via perché la mia vicinanza la lerciava". Questa è la confessione cui Roberto, sempre riservatissimo sulla propria vita privata, si è lasciato scappare di fronte al pubblico del Festival della letteratura di Mantova, nel settembre scorso. I sei minuti d' applausi lo hanno rincuorato, la solitudine rimane.

La donna giusta ? Fuggita

"La sua fidanzata Serena era la donna giusta, l' unica in grado di sopportarlo oltre alla madre", ha svelato il padre, medico. "Non è facile vivere come Roberto, non può venire mai da noi per ragioni di sicurezza. L' anno scorso è morta mia madre, sua nonna. Lui non ha potuto vederla viva l' ultima volta, ma ha preteso di esserci per il funerale. Al paese però è successo di tutto: strade bloccate, un poliziotto con la pistola perfino sull' altare". Una famiglia deflagrata, quella d' origine di Saviano: anche il fratello è stato costretto a trasferirsi in una località segreta del nord Italia.

"Roberto non è mai stato ragazzo", ha raccontato il padre a La Stampa. "Anche quando era piccolo era serio, acuto, pungente. A tredici anni ha letto Il Capitale di Marx e a quattordici si è fatto regalare per il compleanno l' Iliade e l' Odissea. Come vorrei che ci fosse ancora il suo nonno materno, il colonnello Carlo che lo ha cresciuto con il mito della legalità e che adesso scoppierebbe di fierezza".

"Voglio una vita, ecco"

"Fanculo il successo", si è sfogato Roberto su Repubblica. "Voglio una vita, ecco. Voglio una casa. Voglio innamorarmi, bere una birra in pubblico, andare in libreria e scegliermi un libro leggendo la quarta di copertina. Voglio passeggiare, prendere il sole, camminare sotto la pioggia, incontrare mia madre senza paura e senza spaventarla. Voglio avere intorno i miei amici e poter ridere e non dover parlare di me, sempre di me come se fossi un malato terminale, e loro fossero alle prese con una visita noiosa eppure inevitabile. Cazzo, ho soltanto 29 anni !".

"Come dice Von Clausewitz, a un nemico puoi togliere tutto, ma non la rabbia. I camorristi mi hanno tolto la possibilità di una vita normale, perché a me piace rotolarmi nella realtà, lavorare sporcandomi. Ma la rabbia rimane", ha ribadito in una memorabile intervista al programma tv Matrix.

"Non riesco più a scrivere"

"Voglio ancora scrivere, scrivere, scrivere, perché è quella la mia passione e la mia resistenza. Ma io, per scrivere, non posso vivere come sterilizzato in una camera iperbarica, dentro una caserma dei carabinieri oggi qui, domani lontano duecento chilometri spostato come un pacco senza sapere che cosa è successo o può succedere. In uno stato di smarrimento e precarietà perenni che mi impedisce di pensare, di riflettere, di concentrarmi, quale che sia la cosa da fare. A volte mi sorprendo a pensare queste parole: rivoglio indietro la mia vita".

Lo scorso aprile Saviano è stato invitato a New York, al congresso mondiale degli scrittori del Pen Club. Lì ha ricevuto i complimenti di Salman Rushdie, il romanziere condannato a morte vent' anni fa dai fondamentalisti musulmani per avere insultato Maometto. Oggi Rushdie commenta: "I camorristi sono più pericolosi dei terroristi islamici". Due anni fa, quando dovettero dargli una scorta dopo l' improvviso successo di Gomorra, a Roberto fu proposto di trasferirsi a New York. "Ma rifiutai. Avrei potuto anche scrivere di altro. Sono restato in Italia, ma per quanto tempo dovrò portare questa croce ?".

"Niente casa in affitto"

Come Oriana Fallaci, Saviano si aggrappa al suo lavoro: "Ho soltanto le parole, oggi, a cui provvedere, di cui occuparmi. E voglio farlo, devo farlo. Come devo ricostruire la mia vita lontano dalle ombre. Anche se non ho il coraggio di dirlo ai carabinieri di Napoli, che mi proteggono come un figlio. Ma né lì né a Roma trovo qualcuno disposto a darmi una casa in affitto".

Il boss Francesco Schiavone detto Sandokan, in carcere a Opera (Milano) da anni, qualche mese fa ha chiesto ai suoi avvocati di querelare Saviano: lo avrebbe "diffamato". Che cosa voglia dire questa surreale minaccia è presto detto: il 5 ottobre a Casal di Principe viene ucciso Stanislao Cantelli, zio di due pentiti. Di lui Sandokan aveva parlato durante un processo dicendo: "Gli ho sempre voluto bene". Una sentenza di morte ? "I camorristi si spacciano per eroi, ma in realtà sono dei codardi. Ammazzano persone innocenti, indifese, giovani e anziani che non c entrano nulla", spiega Saviano, nero in volto.

Rosaria Capacchione

Il 14 marzo di quest' anno, nell' aula bunker di Poggioreale (Napoli) durante il processo "Spartacus", è stata data lettura di una missiva di Francesco Bidognetti (all' ergastolo) e Antonio Iovine (latitante), con la quale i due capi cosca chiedevano di spostare la sede del processo inquinato dallo "pseudogiornalista" Roberto Saviano, dalla giornalista del Mattino Rosaria Capacchione e dall' allora pm anticamorra Raffaele Cantone. "Non prendi più un treno, non sali più su una macchina che non sia blindata. Cosa fai, con chi esci ?", si sfoga Saviano.

La sorella del boss Cicciariello ha detto in Tv: "Cosa gli abbiamo fatto noi di Casale di Principe ? Gli abbiamo violentato la fidanzata, ammazzato un fratello ?". È difficile addormentarsi con queste parole nella testa, spiega Saviano: "Ti distruggono la quotidianità, ti fanno capire che anche le persone intorno a te sono in pericolo". vendette "fredde" Quindi ricorda come, il giorno stesso di quel servizio televisivo, fu ucciso un uomo che aveva denunciato i camorristi nove anni prima, e a cui era stata appena tolta la scorta. Come nel proverbio napoletano Tardariello ma mai scurdariello.

"I camorristi oggi investono a Roma, Parma, Milano, al nord. Si autodefiniscono "imprenditori". Non sono più un problema solo per la mia terra, il sud, ma per tutta l' Italia", avverte Saviano. Tutta l' Italia. Quell' Italia che oggi non vorrebbe vederlo andar via.

Mauro Suttora

Wednesday, October 29, 2008

Pechino: congresso sui pioppi

PIOPPO SUPERSTAR

Un congresso in Cina celebra l'albero più utile. Ma i massimi esperti sono nel Monferrato

di Mauro Suttora

Libero, mercoledì 29 ottobre 2008

Termina domani a Pechino il 23° Congresso mondiale del pioppo. E fate attenzione prima di dire: «Chi se ne frega». Il pioppo, infatti, è l’albero più utile della Terra. Perché cresce più veloce di tutti (in dieci anni arriva a 25 metri), e fornisce legno per ogni uso: mobili, imballaggi, compensato, confezioni di camembert, fiammiferi, cassette della frutta, carta. Senza il pioppo, non potreste leggere questo articolo. Di pioppo era fatta la croce di Cristo, per lo meno secondo una canzone dei minatori del Michigan di cent’anni fa. E su legno di pioppo Leonardo dipinse la Monna Lisa. Insomma, il congresso dei pioppicoltori è in realtà uno degli avvenimenti più importanti del mondo.

Se il massimo organismo di governo per gli umani è il Consiglio di sicurezza dell'Onu, si può sostenere che la Commissione internazionale del pioppo lo è per gli alberi. Questa Commissione è nata 60 anni fa e, come le Olimpiadi, anche i suoi congressi si tengono ogni quattro anni. Il suo presidente, presso la Fao a Roma, è un italiano: il professor Stefano Risoffi. E l’ambasciatore Paolo Ducci coordina i rapporti con la Farnesina.

Quest’anno il congresso si tiene a Pechino perché la Cina, come in molte altre cose, anche nei pioppi sta superando tutti. La sua superficie coltivata è esplosa negli ultimi anni: oggi ha raggiunto i sei milioni di ettari. La Francia, maggior produttore europeo, ne ha trenta volte di meno: 200 mila ettari. L’Italia centomila. «La metà rispetto a vent’anni fa, perché i pioppi sono l’unica coltura non sovvenzionata dall’Unione europea», ci spiega il conte Federico Radice Fossati, uno dei massimi pioppicoltori italiani: «Riceviamo solo un incentivo al momento della piantumazione, poi nulla. Così gli agricoltori preferiscono tenere i terreni liberi e scegliere cosa seminare di anno in anno a seconda dei contributi di Bruxelles, piuttosto che immobilizzarli per dieci anni con i pioppi».

Esposto alla globalizzazione e al libero mercato, il pioppo italiano non se la passa granché bene. Continua a fornire la metà del legno prodotto in Italia, pur coprendo solo il 3,5% della superficie forestale. Però i nostri falegnami e industriali del mobile che devono comprare pannelli di compensato trovano più conveniente farli arrivare dalla Cina.

Ciononostante, l’Italia rimane il centro mondiale dei pioppi. E questo grazie a un laboratorio di Casale Monferrato (Alessandria), dove operano gli scienziati più bravi del settore. Fino a un anno fa si chiamava Istituto di sperimentazione per la pioppicoltura. Poi qualche burocrate ha cambiato il nome in «Consiglio per la Ricerca e la sperimentazione in Agricoltura, Unità per le Produzioni Legnose Fuori Foresta». Ma fa niente, l’eccellenza è rimasta.

Casale Monferrato è per i pioppi quel che la Silicon Valley rappresenta per i computer, o Hollywood per il cinema. Qui arrivano ricercatori cinesi, cileni e turchi per imparare a selezionare sementi e talee del pioppo, a studiare la genetica, a imparare cure e clonazioni. E i nostri scienziati vanno in giro per il mondo a insegnare il loro prezioso know-how, accumulato da quando nel 1939 le cartiere Burgo fondarono l’Istituto per sconfiggere una malattia che devastava i pioppi.

Per questo oggi gli italiani sono fieri dell’exploit cinese: perché è opera di consulenti italiani. Uno di loro, il professor Bisoffi, l’anno scorso è stato premiato dal governo di Pechino per avere selezionato le varietà di pioppo più adatte al clima locale. Ed è stato eletto presidente della Commissione internazionale della Fao. I 300 mila pioppi attorno alla capitale cinese, per esempio, producevano troppo polline e provocavano asma e allergie? Sono diventati transessuali: con iniezioni agli alberi maschili hanno letteralmente cambiato sesso.

«E grazie a Ogm italiani sempre in Cina vengono risanati terreni salini dove non si possono coltivare cereali», racconta Radice Fossati. Insomma, anche se non fa notizia e lo vediamo di meno ai bordi delle nostre autostrade, la notizia è che il pioppo italiano continua a dominare il mondo.

Mauro Suttora

Monday, October 27, 2008

intervista al ministro Alfano

"Farò giustizia mettendo il turbo ai processi"

di Mauro Suttora

Oggi, 22 ottobre 2008

Cognome: Alfano. Nome: Lodo. Ministro, lo sa che rischia di passare alla storia così ?
"Ma io non pretendo di entrare nella storia. Mi accontenterei di riuscire a fare qualcosa di buono per questo Paese...".

Comunque vada, Angelino Alfano un record l' ha già conquistato: a 37 anni, è il più giovane ministro della Giustizia nella storia d' Italia. Mentre aspetto che torni dal fine settimana a Palermo, guardo i ritratti di tutti i suoi predecessori nel corridoio principale del ministero di via Arenula. Molti non hanno nome, ma alcuni si riconoscono: Palmiro Togliatti, Aldo Moro, Claudio Martelli. Il più buffo: Roberto Castelli, con sciarpone verde da leghista.
Alfano viene dalla punta opposta d' Italia: suo padre era vicesindaco dc di Agrigento. Appena nominato, a maggio, ha fatto imbestialire l' opposizione con il suo "lodo", che garantisce l' immunità (impunità, secondo gli avversari) al presidente del Consiglio Berlusconi e alle altre tre più alte cariche dello Stato: i presidenti di Camera, Senato e Repubblica.

Ministro, ammetta che questo "lodo" non è il massimo: altro che cittadini uguali di fronte alla legge, si torna ai tempi del sovrano assoluto, cioè ab solutus, sciolto dagli impicci dei tribunali.
Ma Alfano, placido come i democristiani che oggi quasi rimpiangiamo di fronte a certi isterici in Tv, risponde tranquillo, seduto sul divano: "No, guardi, è una buona legge che consente a chi governa di svolgere serenamente il proprio mandato, e di essere giudicato poi dagli elettori. Gli eventuali processi non si annullano, si sospendono".

Ma se Berlusconi rimane premier per tutta la legislatura e poi viene eletto al Quirinale, la sospensione dura dodici anni: fino al 2020. Perfino il presidente Clinton ha dovuto rispondere alle accuse di Monica, in Italia nulla ?
"Questo non sarà possibile: i mandati non sono cumulabili. E poi fino a 15 anni fa l' immunità copriva tutti i parlamentari, ma nessuno contestò i padri costituenti per avere introdotto questa garanzia".

Sul lodo Alfano deciderà la Corte costituzionale, e forse un referendum. Invece l' altra sua iniziativa, la riforma della giustizia, pare sia stata accolta bene.
"Sì, è già passata alla Camera e ora è al Senato. Serve ad accelerare il processo civile, e a smaltire i quattro milioni di procedimenti pendenti. Ora i tempi sono così da lumaca che si dice "fammi pure causa, poi vediamo". È più facile passare a miglior vita che ottenere una sentenza: le udienze oggi vengono fissate al 2012".

E quindi ?
"Introduciamo un massiccio uso di Internet. Puniamo chi gioca ad allungare i tempi. Vogliamo semplificare i rapporti, diminuendo i riti, eliminando una trentina di strade da percorrere per arrivare al giudizio".

Altre novità: la pausa estiva sarà di trenta giorni, e non più di un mese e mezzo. Il valore delle cause di competenza dei giudici di pace aumenterà a 7.500 euro, e a 25 mila per i risarcimenti su veicoli e barche. Le sentenze non verranno più pubblicate sui giornali, ma sul sito del ministero. Velocità e risparmi, insomma. Anche nel penale ?
"Certo. Subiamo condanne dell' Unione europea per la nostra lentezza, che in campo penale significa non certezza della pena. L' inefficienza tiene in carcere troppi detenuti in attesa di giudizio, con costi sia per i contribuenti, sia per gli imputati poi giudicati innocenti. E spesso il condannato la fa franca".

Che cosa farete, quindi ? Più giudici ? Fra togati e onorari, l' Italia ne conta 22 ogni 100 mila abitanti, contro i 68 della Germania...
"No, i magistrati italiani sono sufficienti. Ne stiamo assumendo 500 con un concorso a novembre. Il problema è restituire efficienza alle procedure, eliminando i tempi morti".

Anche perché i magistrati costano. I loro stipendi, tre anni dopo il concorso, sono già di 3.200 euro netti al mese. E arrivano automaticamente a seimila dopo 20 anni di carriera. Alfano ha accantonato, per ora, la riforma più spinosa promessa dal centrodestra: la separazione delle funzioni fra magistrati giudicanti e dell' accusa.
"Ci vuole parità fra accusa e difesa. I protagonisti del processo sono tre: pm, avvocati e giudici. Però se due di questi fanno il concorso assieme, hanno gli uffici vicini, frequentano lo stesso bar e magari nelle piccole città di provincia vanno pure a casa assieme, alla fine si danno del tu. Mentre l' avvocato deve dare del lei a entrambi. E lì finisce la parità".

Lei è andato a Bucarest con l' obiettivo di far scontare la pena nel loro Paese ai condannati stranieri. Quando succederà ?
"Un detenuto nelle carceri italiane costa parecchio allo Stato...".

Seimila euro al mese.
"A parte la cifra, il dato è che 38 carcerati su cento sono stranieri. Dobbiamo quindi trovare accordi bilaterali per trasferirli nei loro Paesi d' origine, a patto che scontino effettivamente la pena. È un problema che riguarda tutta l' Europa. Che sia quindi l' Unione europea a stringere accordi quadro con i Paesi in questione, come i nordafricani".

Altre novità ?
"Cè un' iniziativa cui tengo molto: i bimbi da zero a tre anni, figli delle detenute, non dovranno più stare in cella, ma in ambienti più accoglienti. Sempre custoditi, assieme alle loro mamme, ma senza dar loro l' impressione di stare in un carcere".

Intanto la vita è diventata un carcere per lei: scorta obbligata per un ministro della Giustizia, e per di più siciliano.
"Appena diventato ministro ho cambiato casa a Roma, quella di prima non era sorvegliabile senza bloccare mezzo quartiere. Mia moglie e i miei figli restano a Palermo, loro preferiscono così. Tiziana mi ha seguito prima a Milano all' università Cattolica, poi è tornata giù per seguire me". Quando ha chiesto di sposarla ? "Ricordo esattamente dove e quando: fu un momento magico. Eravamo a Londra".

Che passatempi avete ?
"Il mare, la musica. Avrò visto sei volte Guccini in concerto, anche se è di sinistra. Autogrill è una canzone straordinaria, ma ne so molte di sue a memoria".

Lei ha fama di secchione. Per diventare ministro, meglio far carriera da deputato o entrare nello staff di Berlusconi ?
"Io ho fatto entrambe le cose, dopo essere stato eletto consigliere provinciale e regionale, e deputato nazionale per Forza Italia. Ma, soprattutto, ho studiato, studiato, studiato...".

Com' è Berlusconi da vicino ?
"Un lavoratore incredibile. Comincia alle 7 del mattino, e a quell' ora ha già letto tutti i giornali. Quelli che non ha scorso alle due di notte, appena stampati".

Se non avesse fatto politica ?
"Mi sarebbe piaciuto il giornalismo".

Sempre stato democristiano ?
"Mio padre. Io ho avuto una militanza giovanile da ragazzino, ma ho messo piede nelle istituzioni con Forza Italia, cui ho aderito nel 1994. Quando Leoluca Orlando era sindaco di Palermo per la Dc, noi giovani eravamo molto attratti da lui".

Oggi Orlando è un durissimo avversario di Berlusconi.
"Sì, ma quella stagione ci segnò tutti. Avevo 12 anni quando ammazzarono Dalla Chiesa, 22 ai tempi degli omicidi Falcone e Borsellino. Siamo una generazione naturalmente antimafiosa. Il nostro eroe è Rosario Livatino, il "giudice ragazzino".
Parola di "ministro ragazzino".

Mauro Suttora

Tuesday, October 14, 2008

Ponti inutili a Roma

VENTI MILIONI PER DUE PONTI CICLOPEDONALI
L'eredità folle di Rutelli e Veltroni

Libero, martedì 14 ottobre 2008

di Mauro Suttora

Il Comune di Roma butta quasi venti milioni di euro per costruire due ponti che non servono a nulla. Oggi cominciano i lavori per il Ponte della Musica (11,8 milioni) e quello della Scienza (6,2 milioni). Dio solo sa quanto il traffico di Roma abbia bisogno di ponti sul Tevere per alleggerire la fiumana di auto che blocca la città. Soprattutto nelle zone dove i ponti sorgeranno: il primo a nord, fra il lungotevere Flaminio e il Foro Italico, il secondo a sud, fra i quartieri Ostiense e Portuense. Lì c’è veramente carenza di collegamenti fra le due rive, perché i ponti più vicini distano quasi due chilometri.

Ebbene, l’assessore all’Urbanistica Marco Corsini oggi inaugura invece due ponti «ciclopedonali». Sui quali le auto non possono passare, e men che meno tram e bus. Quindi inutili, perché da quelle parti pedoni e bici non si avventurano. Roma ha già tre bellissimi ponti pedonali antichi: il Milvio reso famoso dai lucchetti degli innamorati di Moccia, e in centro quelli di Castel Sant’Angelo e il Sisto, che da Trastevere porta a Campo dei Fiori. Servono a turisti e cittadini, sono stretti, vietarli alle auto è stato saggio.

Questi nuovi ponti, invece, sono una follia. Uno spreco di soldi pubblici. La colpa non è dello sventurato assessore Corsini: i progetti «ecologissimi» sono infatti un’eredità di Rutelli e Veltroni. Il bando di concorso risale al 2000, ben otto anni fa. E la nuova giunta Alemanno non può buttare nella pattumiera tutti i progetti del passato, come ha fatto col parcheggio del Pincio. Tuttavia, sfidiamo chiunque ad andare sul lungotevere Cadorna o sotto il gasometro Ostiense e contare le persone, i cani e le bici che vi transitano ogni giorno, non vedendo l’ora di attraversare il Tevere.

Il ponte della Musica è stato leggiadramente battezzato così perché, nei piani fantasmagorici di Rutelli e Veltroni, dovrebbe collegare l’Auditorium della Musica, il nuovo museo Maxxi e perfino il parco di Villa Glori (molto più indietro) al Foro Italico, attraverso via Guido Reni. Peccato che si tratti di un percorso lunghissimo perfino per i clienti con zaino dell’ostello della Gioventù, che infatti ci arrivano in bus.

Ma le vette della poesia si raggiungono per l’altro ponte, chiamato «della Scienza» perché in quelle aree industriali oggi dismesse, dove si rischia lo stupro, invece di utili case il Comune minaccia di costruire un ennesimo museo, della Scienza appunto.

Ecco come i tre progettisti dello studio APsT presentano il loro ponte, in puro stile «architettese»: «Il ponte metafora del collegamento, dell’unire, si pone come mezzo attraverso il quale tentare una “ricucitura” con le due parti della città, ma soprattutto con il tempo perduto. Il rapporto con il luogo viene, infatti, istituito mediante l’individuazione di corrispondenze atte a rivelare una percezione emotiva, un carattere, una presenza anziché un riferimento più o meno diretto. L’intenzione alla base della concezione del progetto è quella di cercare, di preservare e rendere evidente questo carattere negato, obliato. L’idea che il tempo si sia fermato e che quest’area custodisca un tempo “altro” da quello che si vive quotidianamente, attribuisce notevole interesse e valore al progetto del ponte della Scienza.

« (…) La strategia del progetto del ponte, mediante la concezione di una struttura portante “scarnificata” sin nei minimi termini, appesa ad un filo, vuole testimoniare non un atto d’intelligenza bensì una violenza subita che ci toglie la calma e ci induce alla ricerca di un significato che ristabilisca una condizione di equilibrio che procede per opposizioni e corrispondenze. L’interpretazione di questi segni, della loro realtà noumenica è come un alfabeto senza fine. L’obiettivo è quello della risemantizzazione della forma architettonica attraverso un vocabolario di dissonanze che sottolineano la complessità percettiva e costruttiva. Questa metodologia diacronica ed asimmetrica viene applicata dalla scala urbana a quella di progetto fin nei dettagli (…)»
Italiani popolo di poeti, più che di costruttori…

Mauro Suttora

Friday, October 10, 2008

Consiglio d'Europa: giustizia lenta

Processi: siamo i peggiori d'Europa

In Italia cinque milioni di giudizi aperti, cinquecento giorni per una sentenza e il record di avvocati per abitante

Libero, 10 ottobre 2008

di Mauro Suttora

Per fortuna il Consiglio d’Europa pubblica il suo Rapporto sull’efficienza della giustizia soltanto ogni quattro anni, perché ogni volta per l’Italia sono dolori. Il disastro sta tutto in tre numeri. Il primo, tre milioni e 688 mila, è la quantità delle cause civili pendenti. Il secondo è l’arretrato dei processi penali: un milione e 200 mila. Il terzo è il tempo che occorre in media per ottenere giustizia: 507 giorni prima di una sentenza civile di primo grado. I dati risalgono al primo gennaio 2007. Da allora sono peggiorati.

Il dramma è che siamo di gran lunga soli al comando in tutte queste classifiche. Sui 47 Stati che compongono il Consiglio d’Europa (compresi Azerbaigian e Georgia), nessuno riesce a far peggio. Anzi, per la verità sì: in Bosnia il processo civile dura 701 giorni, e in Croazia un mese più che in Italia. Ma il confronto con l’Europa anche balcanica è impietoso.
Lasciamo perdere gli inarrivabili scandinavi, con arretrati di appena settemila processi in Norvegia e 17 mila in Svezia. La Francia, seconda in classifica e con gli stessi nostri abitanti, ha un milione di cause pendenti: un terzo dell’Italia. La Germania mezzo milione, e 287 mila sono i suoi processi penali (meno di un quarto). Ma tutti, proprio tutti, ci surclassano: dalla Spagna alla Turchia, dalla Polonia alla Russia (25 giorni per una sentenza a Mosca).

Di chi è la colpa? L’unico innocente è forse l’attuale massimo responsabile del carrozzone Giustizia, il ministro Angelino Alfano, da troppo poco in carica: cinque mesi. La sua riforma è passata alla Camera, ora è al Senato. Semplificherà e velocizzerà, ferie estive ridotte da 45 a trenta giorni, una trentina di riti aboliti, aumentate le cause smaltite dai giudici di pace.

Intanto, però, prendiamocela anche con noi stessi. Siamo i più litigiosamente incontinenti del continente: quasi tre milioni di nuove cause all’anno, e quindi un arretrato che aumenta di 200 mila ogni dodici mesi. Vantiamo il record degli avvocati, 290 ogni centomila abitanti. Ci superano solo i greci che però ne contano dodici per ogni giudice, mentre noi ne abbiamo più del doppio. I Paesi normali come la Francia hanno sette avvocati per giudice, sei Germania e Svizzera, tre Svezia e Inghilterra. A Londra gli azzeccagarbugli sono quattordici volte meno dei nostri, a Parigi un quarto, a Berlino la metà: «Causa che pende, causa che rende».

Dobbiamo fare di necessità virtù, cosicché svettiamo nella graduatoria del minor numero di divorzi contenziosii: appena 34 ogni centomila abitanti, contro 90 dei secondi classificati Portogallo e Austria, 127 in Spagna, 170 in Francia, 285 in Svezia e addirittura 368 in Lettonia.

I nostri divorziandi si vogliono ancora bene, ed evitano quindi di litigare? Macchè. Il problema è che la durata media di una nostra causa di divorzio è di ben 634 giorni, quasi due anni. E quindi tutti cercano la consensuale: ci si mette d’accordo prima, i giudici servono solo per il timbro. Nella libertina Olanda invece basta aspettare 25 giorni. Ma non è questione di religione, perché la cattolicissima Lituania scioglie i matrimoni in 39 giorni. Tre mesi ci mettono i danesi, cinque i turchi.

Siamo indietro con i computer, spendiamo solo l’1,7 del bilancio giustizia, contro l’otto dell’Irlanda, il sei dell’Austria e il 2,2 della Germania. In compenso, il 69% va in stipendi di magistrati e cancellieri, contro il 57% in Germania, il 47 in Francia, il 45 in Irlanda.

Sulle retribuzioni dei nostri magistrati nel rapporto di Strasburgo c’è un piccolo trucco. Vengono indicate solo quelle degli appena assunti (37 mila euro annui) e i massimi, da giudici di cassazione (seimila netti al mese). Dimenticando che appena tre anni dopo il concorso i magistrati incassano 3.200 mensili, che dopo tredici anni tutti, bravi e asini, scattano automaticamente a 4.500, che per il massimo di seimila bastano vent’anni d’anzianità. Che i giudici amministrativi ci arrivano già dopo otto anni. E che le indennità per le «sedi disagiate» al Sud, in discussione proprio in questi giorni, ammontano a ulteriori 45 mila euro annui, più undicimila per il trasloco.
Intanto, però, in certi uffici mancano perfino i soldi per i toner delle stampanti.

Chiunque di noi, d’altronde, entrando in un qualsiasi tribunale, ha la sensazione di tornare non al secolo scorso, ma a due secoli fa. Come nell’Ottocento, infatti, i fascicoli vengono accatastati nelle cancellerie, l’informatizzazione è un sogno, e gli avvocati civilisti sono costretti a scrivere da soli i verbali, con la penna. A volte la biro sostituisce la stilografica. Ma non sempre…

Mauro Suttora

Wednesday, October 08, 2008

Sinistra in alto mare

La crisi dell'opposizione

Oggi, 8 ottobre 2008

di Mauro Suttora

Silvio Berlusconi gradito al 60 per cento, Partito democratico che invece rischia di andare sotto il 30 per cento. Questo dicono i sondaggi. Il centrosinistra non è mai stato così male. «La cosa insolita, mai accaduta prima», ci dice il sondaggista Renato Mannheimer, «non è il consenso a Berlusconi, ma una luna di miele così prolungata con il nuovo governo: ormai sono passati cinque mesi, e il gradimento dei sondaggi non accenna a scendere. Per recuperare, la sinistra deve apparire concreta e propositiva. L’immagine di Berlusconi si basa sulla positività: dalla spazzatura di Napoli all’Ici, dai soldati nelle strade al sette in condotta, dà l’impressione – giusta o sbagliata che sia – di “fare”. Quindi l’opposizione non può commettere l’errore di criticarlo senza proporre soluzioni alternative. Accentuare l’aggressività degli attacchi a Berlusconi non porta a niente».

«Ma la sinistra non ha ragion d’essere se insegue Berlusconi nell’abbraccio del libero mercato», obietta Massimo Fini, editorialista e scrittore. «Se lo fa, la sua crisi è irreversibile, perché la destra il liberismo ce l’ha nei geni. La sinistra, al contrario, deve liberarsi dal mito industrialista della crescita continua del Pil».

«I dirigenti del centrosinistra, poi», aggiunge Fini, «sono rovinati dal loro atteggiamento spocchioso. Sembrano sempre pronti a farti la morale e la lezione. Questo poteva avere un senso ai tempi del vecchio Pci, con personaggi come Amendola che avevano una storia dietro, e quindi inducevano a un rispetto spontaneo. Oggi invece risultano solo irritanti. I politici di destra hanno un approccio più normale e colloquiale, sembrano più disponibili, a cominciare dal loro leader. Sarà anche solo paraculismo, ma appaiono più simpatici. A sinistra invece abbondano i radical chic, con il cuore a sinistra e il portafogli a destra».

Il regista Paolo Virzì ai sondaggi non crede molto: «Saranno poi veritieri? Mi permetto di non fidarmi granché. Più che un governo, quello di Berlusconi mi sembra un grande ufficio stampa che passa il tempo a fare annunci propagandistici, tipo le manette alle prostitute. Non sono d’accordo con Nanni Moretti, in Berlusconi non vedo un lato demoniaco. Per me è soltanto ridicolo vedere un anziano signore conciato così, sempre affaccendato fra puttanelle e avvocati. Quando cadrà, il suo scivolone non sarà tragico: soltanto ridicolo. Quanto alla sinistra, non può imitare Berlusconi lanciando facili slogan e semplificando tutto. La società moderna non è semplice, i problemi sono complicati, non basta battere i pugni sul tavolo come Di Pietro. Berlusconi possiede una macchina mediatica potentissima. Se la sinistra per vincere deve abbassarsi al suo livello di demagogia, snaturandosi, quasi preferisco che perda con dignità».

«Il linguaggio è importante», spiega Pierluigi Bersani, uno dei più amati dirigenti Pd, «Berlusconi vince non perché ha le tv, ma perché il suo linguaggio è in sintonia con i suoi elettori. Noi, per esempio, usiamo molto la parola “dialogo”. Che può andare bene tra le Chiese, oppure tra israeliani e palestinesi, ma non va sui temi politici: un partito di opposizione o è d’accordo col governo su una determinata misura, oppure no. E se è in disaccordo, ha un’altra proposta. Altrimenti il Paese non ci capisce. Non dobbiamo buttar via parole come “sinistra”, “popolare”, “uguaglianza”, ma non bisogna neanche avere paura di parole come “liberalizzazione” e “merito”, perché in economia siamo un partito liberale… Insomma: dobbiamo dire meglio chi siamo».

Ci provi lei, sintetizzando al massimo.
«Un partito di centrosinistra ha alcuni punti irrinunciabili. Il primo è la critica alla realtà: non può essere la destra a dire che il mondo non va bene. Poi: un partito universalistico nella risposta ai bisogni fondamentali come salute, sicurezza, istruzione, che non sono delegabili al mercato. Terzo: un partito popolare nel linguaggio. Quarto: un partito che lotta in nome di valori e di un’ideologia».

Ma le ideologie non sono tramontate?
«E il berlusconismo e il leghismo non sono ideologie? Noi dobbiamo far capire che vogliamo una società in cui non si può star bene da soli. Questo è il bacino naturale della sinistra. La destra fa la sua politica, che non ha nulla di sinistra. E questo Paese rischia di passare da un riformismo senza popolo a un populismo senza riforme. I fannulloni non coincidono con la pubblica amministrazione, e gli zingari non coincidono col problema sicurezza. Noi dobbiamo dire che le riforme le vogliamo fare, ma senza agitare lo spettro dei fannulloni per tagliare pesantemente gli stipendi di tutti. Insomma, andiamo al concreto. Il federalismo, per esempio. Come si dice dalle mie parti, il maiale non è fatto tutto di prosciutto. Il federalismo lo vendono in un modo a Varese, in un altro in Sicilia. Il progetto Calderoli non ha i numeri. Attenti alle armi di distrazioni di massa...»

Consigli non richiesti alla sinistra in difficoltà anche da Paolo Guzzanti, senatore forzista: «Devono fare come Obama o Kennedy: proporre un sogno. La sinistra può vincere solo se è capace di essere sexy, di suscitare grandi fantasie. Naturalmente dev’essere un sogno realizzabile, non campato in aria. Di solito i governi di destra risparmiano e quelli di sinistra spendono, ma oggi soldi da spendere non ce ne sono. Però anche nei campi che sono più i suoi, come scuola, cultura, università, ricerca, la sinistra non ha un progetto».

Magari il centrosinistra sta semplicemente aspettando che, così com’è accaduto nel 2006, Berlusconi cada a causa dei propri errori, più che per merito degli avversari. Non c’è il rischio che il troppo successo gli dia alla testa? «Berlusconi ha un ego giustamente spropositato», scherza Guzzanti, «come capita a tutti i grandi uomini. Ma s’è fatto un bel training in questi quindici anni, cadendo e risorgendo tre volte. No, la sinistra non ci speri: governeremo almeno fino al 2013. Quindi hanno tempo per trovare un progetto che li faccia vincere…»

Mauro Suttora

Che abili questi attori disabili

Oggi, 8 ottobre 2008

di Mauro Suttora

«Non ero mai entrato in contatto con disabili prima di questo film. Non ne avevo mai incontrati, né in famiglia né fra amici o conoscenti. Ma sono bastate poche ore per stabilire un rapporto fantastico. Dopo un po’ di tempo non ci si accorge del loro handicap. E il merito è soprattutto loro, perché sono i primi a scherzarci sopra, a prendere tutto con leggerezza, a non lamentarsi, a metterti a tuo agio, ad annullare le differenze».

Alessio Boni, 42 anni, il bello del cinema italiano, ha girato un cortometraggio di dodici minuti con attori disabili: Il Riscatto, regia di Silvia Saraceno, musica di Tony Esposito. Lo ha prodotto l’Accademia Arte nel cuore di Daniela Alleruzzo. Si tratta di una scuola di recitazione, doppiaggio e ballo riservata a persone diversamente abili.

«Inutile girarci attorno», dice Boni, «se un disabile vuole iscriversi a una scuola di arte drammatica non lo prendono, con una scusa o con l’altra. Non per cattiveria, ma funziona così. Perfino i ruoli dei disabili, nei film, vengono affidati ad attori “normali“ che magari fanno figure assurde in carrozzella, perché si capisce chiaramente che non sono abituati. Quindi sono importantissime iniziative come questa. Perché i disabili sono bravi a recitare o a suonare o a cantare esattamente come tutti, e anzi la loro condizione a volte li aiuta a esprimersi con maggiore concentrazione e profondità. Hanno una specie di urgenza interiore...»

Com’è nato il suo coinvolgimento in questo film? «Assolutamente per caso. Ricevo 4-500 mail alla settimana, e anche se non riesco a rispondere cerco di leggerle tutte. Una di queste mi proponeva di girare un corto di Silvia Saraceno con attori non vedenti e paraplegici. Ho subito accettato, anche perché le sfide mi affascinano. E già al primo incontro mi sono sorpreso di come tutti i nostri pregiudizi mentali si appianino nel giro di pochi minuti. Sono stato catapultato in un clima di serenità contagiosa».

Nel film sei ragazzi partono in barca a vela da Civitavecchia, e giunti al largo tirano fuori dalla cabina Boni (che interpreta se stesso) legato e imbavagliato. Vogliono tenerlo prigioniero finché non otterranno un contratto firmato dal produttore della fiction che sta girando Boni. I giovani, in una parodia delle Brigate Rosse, si dichiarano «cellula dell’organizzazione A.A.A., ovvero Azione attori affamati».

Boni appare dapprima incredulo, poi preoccupato. I sequestratori filmano il suo interrogatorio con una videocamera, e per aggiungere veridicità gli dipingono con vernice rossa del sangue sotto l’orecchio, per simulare un taglio del lobo. Nel film che verrà inviato al produttore con le richieste del riscatto non manca l’esposizione di un quotidiano, per provare la data delle riprese.

Infine, con un flashback, gli attori disoccupati si svelano per quello che sono: non soltanto senza lavoro, ma pure disabili. Anche se per tutta la durata del film nessuno se n’era accorto.

«Questo film non è fine a se stesso», spiega la regista Saraceno, «è un pilot che vorrebbe trovare finanziamenti per espandersi e diventare un lungometraggio».

Fra gli attori spicca il non vedente Gerolamo Longo (Gerry): «Quando ci siamo incontrati la prima volta lui mi guardava fisso negli occhi», racconta la Saraceno, «e il suo sguardo era così intenso e preciso che gli ho dovuto domandare: “Ma come fai a sapere esattamente dove sono?”»

Le difficoltà più grosse per le riprese, comunque, non sono arrivate dagli handicap degli attori, ma dalle condizioni del mare: il rollio continuo della barca ha provocato non pochi problemi di stomaco.

Alessio Boni, dopo il grande successo del Caravaggio tv della scorsa stagione con le luci di Vittorio Storaro, è in partenza per New York, dove il 7 ottobre alla Carnegie Hall c’è la prima mondiale della fiction Puccini di cui è protagonista, nel 150° anniversario della nascita del compositore lucchese.

«E poi, dopo cinque anni, torno a teatro con Michela Cescon, Anna Bonaiuto e Silvio Orlando: saremo due coppie di genitori nel Dio della carneficina di Yasmina Reza, per la regia di Roberto Andò. Debuttiamo a gennaio, poi in tournée per tutta l’Italia. Così recupererò il rapporto col pubblico, ma anche con il mio lavoro: al cinema e in tv, infatti, il risultato si vede sullo schermo soltanto dopo un anno. E se Il Riscatto diventerà un lungometraggio, sarò felice di tornare a recitare con questi miei nuovi colleghi, attori disabili».

Mauro Suttora

tabella:

DISABILI IN ITALIA

1.100.000 motorî
(di cui 60.000 in carrozzina)
350.000 vista
800.000 udito
750.000 mentali

3.000.000 TOTALE
(una persona su venti)
di cui 1.000.000 sotto i 64 anni

20.000 nuovi disabili ogni anno per incidenti stradali

Wednesday, October 01, 2008

Ultimo appello di Bush

"AGIRE, O GUAI PEGGIORI"

Dopo il no del Congresso al piano da 700 miliardi. Imbarazzo di Obama e McCain

Libero, mercoledì 1 ottobre 2008

di Mauro Suttora

Questa volta ha parlato dalla biblioteca della Casa Bianca, con uno sfondo tranquillo di libri sul caminetto. George Bush ha voluto «dare il tono di una conversazione», come ha spiegato la sua portavoce, al messaggio tv trasmesso ieri mattina a un’ora inusuale: le 8 e 45. Prima dell’apertura della Borsa a New York, per spargere fiducia dopo il crollo (meno 9%) del giorno precedente. Di solito il presidente parla dall’Ufficio ovale, soltanto nel gennaio 2007 aveva preferito la biblioteca. Fu la prima volta che ammise errori nella guerra d’Iraq, ma annunciando l’invio di rinforzi.

Ora invece l’avversario di Bush non si sa bene chi sia. I deputati repubblicani e democratici si rimpallano la responsabilità di avere bocciato il suo piano di salvataggio dei titoli immobiliari, dopo il sì del Senato. Ma il voto negativo è stato trasversale: hanno detto no sia 133 repubblicani, sia 95 democratici. Contro tutti gli accordi di vertice, ha prevalso il vecchio istinto popolare americano del «chi rompe paga». Nessuna salvezza per gli speculatori di Wall Street che si sono arricchiti provocando disastri. Nessun aiuto, soprattutto, con i soldi dei contribuenti. Non tanto per la somma: 700 miliardi di dollari, in fondo, gli Stati Uniti li spendono in un solo anno per le Forze armate. «Ma non potevamo certo prendere la decisione finanziaria più importante nella storia del nostro Paese in così poco tempo, senza spazio per un dibattito serio», si è lamentato John Yarmuth, deputato democratico del Kentucky.

Insomma, il piano di Bush è stato sconfitto più per ragioni di metodo che di merito. I repubblicani hanno infranto la disciplina di partito schifati dall’indigeribile minestra assistenziale statalista, ma anche perché la capogruppo democratica Nancy Pelosi ha fatto di tutto per provocarli: «Con questi soldi rimediamo a otto anni di disastri della presidenza Bush», ha detto prima del voto. E figurarsi se i repubblicani, imbufaliti per quest’accusa, le andavano dietro.

«La verità è che tutti sappiamo che nel giro di due-tre giorni torneremo a votare, e diremo sì dopo che Bush avrà reso più presentabile la proposta», ammette Yarmuth. Lo ha detto anche il presidente alla tv: «Voglio assicurare i cittadini di tutto il mondo che il no della Camera non è la fine del processo legislativo. Siamo in un momento critico e abbiamo bisogno che l’economia americana torni a girare». Quindi un avvertimento ai deputati riottosi: «Se continuiamo in questo modo i danni per l'economia saranno dolorosi e duraturi».
E la spiegazione di buon senso, capace di coinvolgere tutti: «Il crollo drammatico in borsa di ieri avrà un impatto diretto sui fondi pensione e sui risparmi personali di milioni di nostri concittadini».
Siamo tutti sulla stessa barca, insomma. Anche se le barche di alcuni pescecani di Wall Street continueranno a essere yacht, grazie a questo piano di assistenza.

Ormai Bush ha di fronte a sè solo tre mesi di mandato, che lui sia stato sconfitto importa a pochi. Stupisce invece l’evanescenza dei candidati, entrambi imbarazzati e paurosi di perdere voti.
Il democratico Obama propone un’assicurazione statale sui conti bancari fino a 250 mila dollari, auspica che il piano venga approvato, ma precisa subito che «dal mio primo giorno da presidente lavorerò per cambiarlo». Come, non lo dice.
Quanto al repubblicano McCain, deve sfuggire all’abbraccio mortale di Bush e vuole apparire super partes: «Non è questo il momento di incolpare qualcuno».

Come al solito, le Borse hanno capito subito l’aria che tira. Già prima del discorso di Bush quelle asiatiche avevano sì accusato perdite, ma non eccessive. Solo Tokyo giù del 4%, Hong Kong ha perso l’uno, e Seul lo 0,5. Shanghai era chiusa per una festa cinese. Poi sono arrivati i rimbalzi europei, e infine il guadagno di New York, aumentata di oltre il 3%. Perfino Mosca, che prima del discorso di Bush aveva dovuto chiudere per eccesso di perdite, ha finito la giornata con un lieve rialzo.

Mauro Suttora

Pranzo di Ferragosto

IL FILM CON LE NOVANTENNI SBANCA IL BOTTEGHINO

Oggi, 1 ottobre 2008

di Mauro Suttora

Sono di una simpatia travolgente anche nella realtà, le quattro protagoniste di Pranzo di Ferragosto. Le vecchiette che hanno fatto conquistare al film di Gianni Di Gregorio il terzo posto nella classifica degli incassi per sala stanno diventando celebri. Chi le vede al cinema si innamora, e il passaparola ha fatto sì che gli spettatori abbiano già ripagato in pochi giorni il costo del film: 500 mila euro, un’inezia in confronto ai colossal americani.

«Sono un po’ stanca, la celebrità è faticosa», ammette Grazia Cesarini Sforza, 90 anni, appena tornata nella sua casa nel quartiere romano della Piramide dopo una mattina passata da Michele Cucuzza su Raiuno.
Invece la più giovane del gruppo, Marina Cacciotti, 85 anni, è piena di energia e si diverte come una matta: «Ci stanno invitando dappertutto, da Gorizia al Sud. Un bel cambiamento, rispetto alla vita noiosa di prima».

Il film lo hanno girato in cinque settimane, un anno fa, dentro a una casa di Trastevere. E la cronaca di due giorni a cavallo di ferragosto in cui il protagonista (lo stesso Di Gregorio, anch’egli «giovane» debuttante sessantenne alla regia) accoglie nella propria casa, dove vive con la mamma 93enne, altre due signore anziane parenti dell’amministratore del condominio. Poi arriva il suo medico, che lo visita ma gli affibbia la madre. E di fronte a questo poker di ospiti che gli invadono l’appartamento e lo espellono a dormire in una sdraio sul balcone, al povero Gianni non resta che attaccarsi alla bottiglia.

Ma alla fine l’esuberanza delle vecchiette travolge pure lui, e… Non sveliamo il finale, anche se il fascino del film non è nella trama. Fin dalla prima scena, infatti, con la mamma Valeria (De Franciscis, 93 anni, decana del quartetto) che si fa leggere I tre moschettieri per addormentarsi, sono le parole e le facce degli attori (compreso Di Gregorio) a conquistare, con il loro brio malinconico.

La signora De Franciscis, per esempio, ha il vezzo di intercalare le sue frasi con parole francesi: «Peut-etre…», forse, mormora a tavola al figlio insinuando che il suo amico sia un ubriacone. E poi tutte queste sue coetanee parcheggiate a casa sua improvvisamente, «d’emblée”…
Parlando con Valeria scopriamo divertiti che queste interiezioni in francese non erano previste dal copione, perché lei parla veramente così: «Abbiamo improvvisato, e io parlo francese da quando abbiamo avuto una mademoiselle in casa per tenere nostra figlia. L’ho imparato da piccola, mio padre ci teneva che parlassimo francese, perché era una lingua che faceva da trait d’union con l’estero…»

Vedova del giocatore di polo Gianni Bendoni, scomparso nell’81, Valeria è stata reclutata perché da piccolo il produttore del film, Matteo Garrone, abitava nel suo stesso palazzo sulla collina Fleming: «Mi ha preso come comparsa in qualche suo film, e ho partecipato anche a un programma di Gianni Ippoliti in Rai». Ma tutte le protagoniste sono attrici debuttanti, «prese dalla strada» come i bambini di De Sica e Rossellini. Solo che ai tempi del neorealismo loro erano già delle signorine ventenni.

Molto diverso il loro destino. Valeria, «figlia di famiglia» della Roma bene, non ha mai lavorato, e seguiva il marito che giocava a polo a Deauville o Vittel. Le sue due figlie oggi lavorano a Blob e per il musicista Nicola Piovani.
Marina, invece, perse il marito calzolaio di Ostia che aveva trent’anni e due figli da crescere: «Presi in mano il negozio, e assunsi un lavorante. Solo che questo cominciò a farmi la corte, e allora lo mandai via. Ma tutti gli operai che prendevo s’innamoravano subito, così alla fine ne ho sposato uno e buonanotte. Era siciliano, gelosissimo. Poverino, è morto dodici anni fa. Siccome i soldi non bastavano, quando aprirono l’aeroporto di Fiumicino nel ‘61 lasciai a lui il negozio e mi feci assumere. Cominciai facendo le pulizie con strofinaccio e spazzolone, poi mi promossero all’ufficio dogane: controllavo le stecche di sigarette e i liquori e profumi che vendevano sugli aerei. Lavorare mi piaceva, peccato mi abbiano obbligato a pensionarmi a 55 anni».

Ora i suoi figli sono sessantenni, proprio come quelli del film: le è mai capitato di passare il ferragosto da loro? «Ma figurarsi, con le nuore… Semmai sono loro che vengono da me». Frequentatrice del centro anziani sul lungomare di Ostia, la signora Cacciotti non vede l’ora di prendere lezioni di ballo liscio: «Non trovavo mai un cavaliere, ma ora che sono famosa non avrò problemi!»

Grazia Cesarini Sforza, scelta perché è la zia del regista («Sono una raccomandata», scherza), si era laureata in etruscologia prima della guerra. Poi ha insegnato lettere al liceo di Civitavecchia («Ero quasi coetanea dei ripetenti»), infine ha sposato il fotografo Ezio Graffeo e ha lavorato con lui. Nel film fa la parte della golosa che mangia di nascosto le lasagne di notte: «Lo sono anche nella realtà, non ne posso più di stare a dieta».

E non ha dovuto fingere neppure Maria Calì, 87 anni, siciliana, «scoperta» dal regista in un centro anziani sulla Tuscolana. E lei la cuoca delle magiche lasagne di ferragosto: «Ma che siano buone lo dicono tutti, a cominciare dai miei figli», precisa orgogliosa. Che cast, ragazzi.

Mauro Suttora