Monday, July 30, 2007

Il nostro McInerney nella citta' dell'eros

Nel suo libro 'No Sex in the City' Mauro Suttora riscopre i metodi degli anni '80

recensione del quotidiano 'Libero', 30 dicembre 2006

di Francesco Specchia

La classe non è acqua. E se lo fosse, potrebbe essere solo l'acqua grigia e vanitosa del fiume Hudson. Che a est taglia il New Jersey; mentre a ovest accarezza Manhattan come un sorso di champagne sprizzato in una flute.
Il suo scrosciare echeggia, lieve, fra i jazz club di Bleecker Street, i negozi di Armani e Calvin Klein, il profumo delle librerie antiquarie e quello dei dollari; fino a insinuarsi negli appartamentini del Village. Dove branchi di intellettuali radical chic ticchettano al computer la loro storia.

Uno di quegli intellettuali è Jay McInerney, l'uomo che nel best seller 'Le mille luci di New York' spogliò la Grande Mela, la rintronò d'alcol e cocaina e ne fece un mito degli anni '80. Un altro (meno intellettuale e - vivaddio - più giornalista) è Mauro Suttora, classe '59, moderatamente single, corrispondente del settimanale Oggi e columnist del New York Observer dal "centro esatto del mondo", ossia lo sterno, le viscere e l'inguine di Manhattan.

I due, Suttora e McInerney, non lo sanno ma si somigliano assai. Il primo è stato titolare d'un posto da cronista in una rivista chic, di tre mogli e due fidanzate, tutte modelle (l'ultima, Helen Bransford, è corsivista di Vogue); di due psicanalisti di fiducia; una passione smodata per Joseph Conrad e le storie dei reietti che galleggiano nei docks e la vodka on the rocks.

Il secondo ha vissuto, vent'anni dopo, tra preconcetti neocon e mostre al Guggenheim, donne-mantidi che lo divoravano in taxi o lo piantavano per email; mogli di ambasciatori che cattolicamente si spogliavano e pretendevano di "non essere penetrate"; riunioni condominiali all'insegna dell'equo canone selvaggio; aspiranti futuri suoceri Upper Eastsiders (abitatori di quartieri molto snob) che ritengono il gioco del golf e l'affitto di elicotteri le più nobili delle occupazioni.

Un'avvertenza. Il sesso - quello, vischioso, nelle feste per mannequin e brokers di McInerney e quello giocoso nel Rizzoli bookstore sulla 57esima Strada di Suttora - in questo tipo di letteratura è solo una scusa. O meglio una lente, un fil rouge che intreccia sapide microstorie, un espediente letterario che finisce per raccontare l'anima di New York stessa, la città più citta di tutte, il crogiuolo etnico che Henry James dichiarava "spaventosa, fantasticamente priva d'eleganza, confusamente orrenda".

New York è il cuore, il cervello, l'estremità, il pinnacolo del Nuovo Mondo. Per molti di noi è l'universo passionale dell'architetto Stanford White e Irving Berlin, di Dorothy Parker e dei coniugi Bernstein nel quale tutti ci muoviamo con confusa dimistichezza, una dimensione già descritta nel cinema di Chaplin, Scorsese, De Niro, Pacino, e dalla televisione di 'Sex and the City', del quale il libello di Suttora è la vera, solidamente virile, risposta italiana. L'ironia che annaffia il tutto, perlomeno, è la stessa.

Quando, ad esempio, parla dell'esemplare di fenotipo femminile un po' frigido dell'Upper East Side, Suttora suggerisce che "utilizza il proprio organo sessuale soprattutto per intrattenerci monologhi. Di qui il devastante successo della pièce teatrale sull'argomento: 'I monologhi della vagina'..."
E, forse senza nemmeno rendersene conto, si riaggancia al McInerney di 'Com'è finita', il cinico narratore di mignotte e prosseneti d'alto bordo, ex portaborse di deputati democratici che si mutano in fenomenali voltagabbana, gente che si giustifica ricordando che "Non è stato Kissinger a dire che il potere è afrodisiaco?"

Certo Suttora è meno politico di McInerney; soprattutto non fa del post-yuppismo una categoria dello spirito, non foss'altro perché sarebbe anacronistico. Dal suo "esilio newyorkese" il cronista vede l'eros come inevitabile compagno d'avventura. Gli dà, quasi, una forma socratica.
Quando, citando un indimenticato apologo di Massimo Fini sulla poesia del fondoschiena femminile, attribuisce agli americani la qualifica rozza e volgarotta di "bosomen" (più portati al seno che al culo, contrapposti ai "bottomen"), egli certifica un'innegabile prevalenza culturale europea; e, al contempo, traccia una mappa dei luoghi cittadini visti da dietro: "Quello fra Upper West Side e Central Park è un fondoschiena intellettuale, colloquiale... Il culo di Carnegie Hill è invece nobile: alto, lungo e appena rilevato... i culi popolari, bassi e larghi, sono purtroppo rari a Manhattan".
Come gli scrittori italiani che davvero sanno corteggiarla.

7 comments:

Michele Boselli said...

thank you Mr Mauro for your visit to my blog, where I've linked yours. hoping you'll return the favour.

In the process you might as well get rid of that useless link to some useless "Michele Boselli".

Thanx,

Miss Welby

david santos said...

Bellotrabajo. Muchas gracias.

Michele Boselli said...

ciao Mauro, sempre gentile a passare da me.
oh, c'è questo tipo qui sopra che insegue tutti i miei link per lasciare messaggi!
comunque anche lui ha un bel blog

Unknown said...

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Unknown said...

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menna said...

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وليد العروي said...

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