Friday, April 21, 2006

Condi Rice musicista

CONDI RICE: GUERRA DA SOLA, MUSICA IN COMPAGNIA

Grazia, 21 aprile 2006

Sarà anche la dura teorica della guerra unilaterale, degli Stati Uniti che attaccano da soli, ma quando si dà alla musica Condoleezza Rice si trasforma, si addolcisce, e riesce a suonare soltanto se accompagnata. Da tre anni la segretaria di Stato americana si rilassa eseguendo musica da camera al pianoforte assieme a un quartetto d’archi composto da amici avvocati e professori di diritto: “Non mi diverto più a suonare da sola”, ha confidato al New York Times.

Si riuniscono nei week-end, ogni volta che possono, quando la donna più potente della Terra (terza nella gerarchia di Washington dopo il presidente George Bush e il vice Dick Cheney) non si trova in giro per il mondo. La prima domenica di aprile, per esempio, l’abituale appuntamento è saltato: lei era a Bagdad assieme al collega ministro degli Esteri britannico Jack Straw per sollecitare i governanti iracheni a mettersi d’accordo su un premier, quattro mesi dopo le elezioni. E anche il prossimo fine settimana Condi sarà in missione. Nel solo 2005 ha visitato 49 Paesi con 19 viaggi, percorrendo una distanza superiore a quella fra la Terra e la Luna.

Ma quando resta a casa, nel proprio spazioso appartamento del palazzo Watergate, la Rice non dimentica mai di convocare quelli che ormai “sono diventati i miei migliori amici, fanno quasi parte della famiglia”: due violinisti, un suonatore di viola e un violoncellista. Eseguono brani complicati anche per dilettanti di lusso come loro: Shostakovich, Schumann, Brahms. “Il mio sogno è di imparare un giorno il secondo concerto per piano di quest’ultimo, lo considero la miglior musica mai scritta, appassionata ma non sentimentale”, confida Condi, alla quale la nonna materna insegnò a leggere le note quando aveva quattro anni.

La Rice si ricorda il momento in cui le esplose dentro questa passione: “Fu quando mia madre portò a casa un disco con la Marcia trionfale dell’Aida di Verdi”. In febbraio è corsa al teatro dell’Opera della capitale per assistere alla Turandot di Puccini, messa in scena dal teatro Kirov di San Pietroburgo. Ma non disdegna di salire sul palco anche lei, in occasioni speciali. Lo fece la prima volta a Washington nel 2002, quando accompagnò al piano il celebre violoncellista Yo-Yo Ma durante una premiazione. Fino al college era questo che voleva fare: musicista professionista. “Poi però mi accorsi che per avere successo in questo campo l’impegno non basta: bisogna essere geniali”. E figurarsi se Condi, bambina-prodigio entrata all’università a soli 15 anni, avrebbe rinunciato a primeggiare. Così cambiò subito curriculum di studi, dalla musica alla sovietologia. Da lì l’impegno sulla politica estera che l’ha portata alla guida dell’unica superpotenza mondiale.

Ma l’amore per la musica, e per le armonie che si intersecano con perfezione matematica, le è rimasto. Anche perchè la Rice non ha famiglia, non le si conoscono avventure sentimentali, a 51 anni è rimasta un’elegante zitellona, quindi di tempo libero ogni tanto se ne trova fra le mani. Lo impiega con rigore, svegliandosi presto al mattino per far ginnastica, pesi, tapis roulant. La sua forma è perfetta, le gambe affusolate, il povero Ariel Sharon prima di entrare in coma ne andava pazzo: “Se le guardo perdo il filo del discorso”, confessò pubblicamente.

Quando non risponde accigliata alle domande difficili dei reporters e alle obiezioni di avversari e alleati, o non digrigna i denti minacciando l’Iran (pochi giorni fa ha ribadito di “non escludere l’opzione militare” contro Teheran), Condi coltiva la sua femminilità civettuola. Lo stesso giorno dell’uragano Katrina sfortuna volle che lei si trovasse sulla Quinta avenue di Manhattan a far incetta di borse nella maxiboutique di Ferragamo: “Cosa ci fa qui mentre a New Orleans annegano?”, le urlò una passante. Poveraccia, che c’entrava? Le sue responsabilità riguardano l’estero, non certo la protezione civile interna.

Mai un capello in disordine, mai una piega sul tailleur, la Rice vuole tenere tutto sempre sotto controllo. Nel suo ufficio privato ha fatto installare due specchi: uno per vedersi davanti, l'altro per controllarsi in ogni momento anche dal didietro. Perfetta e perfezionista, impiega ore a scegliere un vestito nello showroom privato newyorkese del suo stilista preferito, Oscar De La Renta. Adora lo shopping: “Alla domenica mattina, dopo aver guardato ‘Meet the Press’ (il talk show politico più importante d’America, ndr), mi piace girare in incognito dentro a qualche centro commerciale attorno a Washington”, ha rivelato.

Quale futuro politico ci sarà per Condi Rice? Qualcuno sogna un duello presidenziale tutto femminile tra due anni: lei per i repubblicani contro la democratica Hillary Clinton. Ma Condi continua a smentire ogni velleità di farsi eleggere, anche perchè non lo ha mai fatto: è sempre stata nominata a tutte le cariche che ha ricoperto. È perciò priva di una base politica. Difficile anche che continui a guidare la politica estera sotto un altro presidente, seppure del suo partito. Più probabile che Rudy Giuliani o John McCain se la scelgano come vice. Oppure che lei riesca a coronare un altro sogno: quello di diventare presidente della Nfl (National football league). Perchè Condi vanta grande dimestichezza anche con la palla ovale. Solo come tifosa, però: le sue domeniche pomeriggio appartengono a Brahms.

Thursday, April 20, 2006

Il presidente cinese visita gli Usa

PER TRATTARE CON LA CINA BUSH S’ISPIRA AL PING PONG DI NIXON

Il Foglio, 20 aprile 2006 pag III

Ping, pong. Sono passati 35 anni dall’inizio della diplomazia omonima, con cui Henry Kissinger e Richard Nixon aprirono alla Cina. Ma oggi il presidente George Bush si trova nello stesso dilemma in cui si trovavano loro allora, e nel quale si dibattè anche suo padre quando per un anno, nel 1975, Gerald Ford lo inviò ambasciatore a Pechino. Sfidare o contenere? Arrabbiarsi o ammonire? Il presidente cinese Hu Juntao arriva in queste ore a Washington: dopo aver incontrato a Seattle l’uomo più ricco del mondo, Bill Gates, parla con quello più potente. L’unico ‘sgarbo’ che questa volta gli Stati Uniti si permettono di fare a quello che resta un dittatore, è che non è prevista alcuna cena ufficiale. Quindi, non è una visita di Stato. Per il resto, Hu ha ottenuto tutto quello che dopo la strage di Tien an men dell’89 i suoi predecessori non erano riusciti a strappare. Comprese le 21 salve di cannone sul prato della Casa Bianca.

Ping, pong. Fra alti e bassi di rapporti politici, quelli economici diventano ogni giorno più stretti. Ormai l’oceano Pacifico settentrionale è diventato un corridoio dove transitano, in viavai continuo, le navi container che trasportano merci made in China nella West Coast. I porti californiani sono così sovraccarichi che i mercantili, per evitare ritardi nello scarico, trovano conveniente passare il canale di Panama approdando in scali meno affollati, fino a New York. E’ il più grosso switch industriale della storia: la Cina che cresce del dieci per cento annuo mentre gli Stati Uniti rinunciano all’attività manifatturiera.

In questo quadro, continuare a insistere di liberalizzazione risulta superfluo. Bush richiama a Washington il suo fidato rappresentante per il commercio estero Rob Portman, nominato appena un anno fa, e lo promuove direttore del budget (ministro del Bilancio). Portman è stato lo sparring partner di Dick Cheney per i dibattiti vicepresidenziali 2000 e 2004. Pazienza se i negoziati di Doha, senza di lui, languiranno senza prospettiva: “Portman dovrà assicurare che il governo spenda saggiamente il denaro dei contribuenti, e che il deficit si dimezzi entro il 2009”, dichiara Bush.

Concentriamoci sul deficit interno, ragiona l’amministrazione, visto che su quello commerciale c’è poco da fare: la bilancia import/export continuerà a premiare per centinaia di miliardi di dollari annui Cina ed estremo Oriente, almeno finchè i salari degli operai cinesi saranno un centesimo di quelli statunitensi. L’unico interrogativo è: quando si verificherà il sorpasso? In che anno la Cina diventerà la prima potenza economica mondiale? Per la verità qualcuno non ci crede. Desmond Lachman dell’Aei (American Enterprise Institute) sostiene: “Sono paure esagerate. La crescita cinese non deriva da innovazione e aumenti di produttività, ma dal solo export, in cui viene investito metà del suo pil. Il giochetto per ora funziona grazie al trasferimento della massa lavoro contadina sottopagata nella produzione industriale. Ma finchè la Cina non adotterà riforme di libero mercato, non raggiungerà mai la produttività americana”.

Il presidente Hu spera di calmare i nervosismi Usa sul potere crescente della Cina, sulla sua moneta sottovalutata, sull’enorme fetta di debito americano in mano a Pechino, e soprattutto sulla fame di petrolio che lo ha portato a stringere accordi di fornitura diretta con i peggiori nemici degli Stati Uniti: gli ayatollah di Teheran e Hugo Chavez del Venezuela. Prima della sua visita la Cina ha mollato il contentino di un accordo per l’import di 16 miliardi di dollari in beni Usa. Per ricompensare Gates della collaborazione fornita da Microsoft sulla censura governativa di Internet, Hu si è impegnato a combattere la pirateria sui brevetti elettronici.

Queste concessioni ovviamente non placano i critici della Cina, i quali spostano le proprie critiche su Bush se questi si dimostra troppo conciliante. Frederick Kempe avverte sul Wall Street Journal che “la Cina sta guadagnando influenza mondiale assai velocemente, senza che i suoi governanti abbiano il senso di responsabilità necessario per esercitarla”. Governanti non eletti democraticamente, e quindi secondo la stessa dottrina Bush inaffidabili e forieri di conflitti. Nelle strade di New York si intensificano le proteste di Falun Gong perseguitata dal regime, gli organismi per i diritti umani (Freedom House, Human Rights Watch, Amnesty) non registrano la minima apertura. Che la liberalizzazione economica porti a quella politica è un miraggio smentito dalla storia degli ultimi trent’anni, dopo la morte di Mao (1976).

Per gli Usa è però cruciale ottenere l’appoggio della Cina per premere sull’Iran. Pechino e Mosca porranno il veto a risoluzioni Onu troppo severe contro Teheran, e la diplomazia Usa è al lavoro per allentare questo fronte comune. Ma Pechino aumenta le spese militari con la scusa di Taiwan (la Boeing non vede l’ora di vendergliele), e Hu Juntao si è fatto campione in Brasile di un modello sociale che ridurrebbe la povertà meglio del capitalismo statunitense.

Bush pronuncerà un solo nome nei suoi colloqui con Hu: Kim Chun Hee. E’ una dissidente nordcoreana che aveva chiesto asilo in Cina, ma è stata rispedita indietro. Non si hanno più sue notizie. Gli Usa continuano nella loro politica di perorare casi umani singoli. Ma la base elettorale conservatrice di Bush gli ricorda che in Cina manca ogni libertà elementare: di parola, stampa, riunione, associazione. Dilemma: che fare? Ping, pong.

Tuesday, April 18, 2006

Darfur: parla Barbara Contini

Oggi, 12 aprile 2006

Centomila morti, due milioni di profughi: questo è il bilancio (provvisorio) della grave crisi umanitaria che si sta consumando in Darfur, nel Sudan. Una strage spaventosa, anche perché nascosta nel silenzio e nell’indifferenza della comunità internazionale. L’Italia però è in prima linea nell’affrontare la situazione, grazie all’impegno di Barbara Contini. L’energica 44enne milanese, famosa per essere stata governatrice civile di Nassiriya (Iraq) nel 2003/4, ha infatti trascorso gli ultimi sedici mesi nel Darfur a coordinare gli aiuti italiani.

Spesso gli inviati nelle zone di crisi preferiscono non allontanarsi dalle capitali: un po’ per ragioni di sicurezza, ma anche perché nel Terzo Mondo le condizioni di vita lontano dalle città sono proibitive. La nostra Barbara, invece, con spirito garibaldino ha subito scelto di «andare sul campo», e invece di restare a Khartum si è trasferita a Nyala, capoluogo meridionale del Darfur.

«Era l’unico modo per avere il polso della situazione», ci racconta, «fuori dai preconcetti e dalle burocrazie. Stare in contatto diretto con chi si aiuta serve per capire quali sono le possibili soluzioni al problema. Nel caso del Darfur, si tratta di un conflitto etnico: gli arabi, che comandano in Sudan, non vogliono cedere neppure in parte alla popolazione locale il controllo di questa immensa regione, grande il doppio della Francia. Islamica anch’essa, ma di pelle nera. Darfur, infatti, significa “terra degli africani”.

«Lì le distanze sono immense, basti pensare che il Sudan è grande quanto tutta l’Europa occidentale. Nyala sta a quattro ore d’aereo da Khartum. E attualmente ospita mezzo milione di sfollati: donne, bambini, vecchi scappati dai loro poveri villaggi rasi al suolo e bruciati dalle bande dei “janjaweed”, tribù di nomadi che fanno piazza pulita di tutto. Molte donne vengono stuprate e poi magari rapite, i maschi sgozzati per non farli entrare nei ranghi della guerriglia.

«Ma sarebbe sbagliato dare tutta la colpa dei massacri a queste tribù. Loro, infatti, vengono mandati avanti, ma il vero interesse sta nelle mani dei governanti locali interessati alle ricchezze del Darfur: petrolio, oro, ferro, rame. Il dissidio fra i nomadi arabi allevatori e gli stanziali neri agricoltori è sempre esistito. Un po’ come nell’America del vecchio West, è quasi naturale che chi migra attraverso tutto il Nordafrica con mandrie di migliaia di cammelli non vada d’accordo con chi recinta i propri campi impedendo il libero passaggio. Ma dal 2004 il conflitto si è acuito, e ha causato vere e proprie stragi».

Il film The Constant Gardener, tratto da un libro di John Le Carré, illustra bene i massacri: bande di guerrieri a cavallo o in dromedario si avventano su villaggi inermi e li distruggono in un battibaleno.

«Il governo italiano ha finanziato trenta progetti di aiuto con quattro milioni di euro», ci spiega la Contini, «ma per farli funzionare abbiamo prima dovuto garantire la sicurezza dell’area. Così ho agito come a Nassiriya: sono andata dai capitribù locali, mi sono fatta conoscere personalmente, ho chiarito che siamo neutrali, e una volta ottenuto l’impegno a non attaccare quell’area abbiamo scavato pozzi, riparato acquedotti e aperto ambulatori e scuole. Con la colletta di mezzo milione raccolta al Festival di Sanremo di Paolo Bonolis l’anno scorso abbiamo costruito un ospedale.

«Ormai sono vent’anni che giro il mondo con gli aiuti umanitari, ho visto bimbi morire a Calcutta e in Bangladesh, purtroppo sono abituata a certi spettacoli drammatici. Ma quel che distingue il Sudan da altri disastri è la dimensione della devastazione: due milioni di persone costrette a vivere tuttora sotto un telo di plastica, anche d’inverno quando la temperatura di notte crolla di venti gradi. Questi profughi non hanno speranza di rientrare nelle loro capanne di paglia e fango, dove vivevano coltivando sorgo, finché non ci sarà un accordo politico.

«Ci sono due movimenti di guerriglieri del Darfur che combattono contro il governo del Sudan: lo Sla (Sudan Liberation Army) e, più a nord, il Jem. Sono in corso trattative ad Abuja, la capitale della Nigeria, ma finchè non si coinvolgeranno anche le bande di nomadi arabi non si arriverà a nulla. L’Italia potrebbe prendere l’iniziativa e convocare tutte le parti a Roma».

Ma Barbara Contini è pessimista: «Non c’è coordinamento umanitario e diplomatico dell’Europa, ora si parla di inviare truppe Nato anche se il problema è politico. Io sono andata in giro con una scorta di due sole persone proprio per non dare nell’occhio: specialisti del corpo speciale Col Moschin che sanno l’inglese e affrontano le questioni non solo con le armi, ma anche con un approccio psicologico. È così che occorre comportarsi in quei posti: pragmaticamente, senza inutili sceneggiate».

Mauro Suttora