Monday, September 26, 2005

TiVo

Arriverà mai in Italia il telecomando che elimina gli spot pubblicitari?

Oggi, 28 settembre 2005

risponde Mauro Suttora, corrispondente da New York

Forse. La società TiVo, fondata in California nel 1997 e quotata in Borsa, vende al costo di 50 dollari, più 13 di affitto mensile, un apparecchio che permette di registrare digitalmente, su hard disk, tutti i programmi televisivi. Ormai sono quasi quattro milioni i clienti negli Stati Uniti, i quali possono saltare gli spot azionando il tasto fast forward. La differenza con i normali videoregistratori a cassetta è che i comandi sono istantanei, e si possono applicare a programmi ancora in onda. Se, per esempio, un film è iniziato da un'ora, si può già cominciare a vederlo «purgandolo» della pubblicità. L'unica cosa che non si può fare, ovviamente, è precedere la visione prima dell'effettiva messa in onda.

TiVo ha avuto un tale successo che la parola è diventata un verbo, sinonimo di registrare ("Ti tivo la partita"). Però la questione della pubblicità è assai delicata, e TiVo si è inimicata parecchi settori: pubblicitari, inserzionisti, e anche le reti tv che trasmettono spot. Così, anche se eliminare la réclame è il secondo motivo per l'acquisto di Tivo, dopo quello ufficiale di vedere i programmi all'ora che si vuole, la società non parla mai di questa caratteristica. E in Gran Bretagna, unico Paese europeo dove era sbarcata, ha dovuto fare marcia indietro: non vende più nuovi apparecchi, si limita a gestire quelli già in circolazione.

Stan Lee

I MIEI SUPEREROI? FANTASTICI E FRAGILI

Oggi, 28 settembre 2005

Dietro il film del momento c'e' Stan Lee, che a 82 si diverte ancora a creare personaggi: "Il prossimo si ispira a Ringo Starr", anticipa. E, mentre si gode il trionfo de "I Fantastici Quattro", svela: "I miei beniamini sono amati perche' non sono invincibili"

Los Angeles (Stati Uniti)

Uomo Ragno, X-Men, Hulk, I Fantastici Quattro, Thor, Devil, Silver Surfer, Punisher, Elektra, Capitan America: tolti Batman e Superman, è lui il padre di tutti i super-eroi più famosi dei fumetti e del cinema. Stan Lee, 82 anni, guida dagli uffici di Los Angeles della sua società Pow Entertainment un impero plurimiliardario (in dollari) secondo soltanto a quello della Walt Disney, che fa divertire e sognare i ragazzini (e non solo) del mondo intero.
Da qualche giorno sono arrivate sugli schermi italiani le sue ultime creature, I Fantastici Quattro: un film che ha già sbancato il botteghino negli Stati Uniti e negli altri Paesi in cui è uscito. Ne parliamo con lui (vero nome Stanley Lieber, figlio di immigrati ebrei a Brooklyn) in questa intervista esclusiva.

Mister Lee, lei negli ultimi anni ha battuto ogni record di Hollywood: Uomo Ragno (Spiderman) è fra i dieci film che hanno incassato di più nella storia del cinema, anche gli X-Men sono stati un incredibile blockbuster, e ogni sequel ha tanto successo che subito se ne mette in cantiere un altro. Non è che anche lei si è trasformato segretamente in un super-eroe, o per lo meno in una miniera d'oro?

«Beh, il successo dei miei personaggi continua a stupire anche me. C'è da dire però che non li ho inventati tutti di recente: sono il prodotto di una vita intera di lavoro. Più che il padre, quindi, mi sento ormai il loro nonno... I Fantastici Quattro, per esempio, li ho concepiti ben 44 anni fa, nel 1961».

E perchè sono approdati sullo schermo così tardi, quasi trent'anni dopo il primo Superman, per esempio, e facendosi precedere anche da Batman?

«Per questioni legali con la Marvel, la società per cui ho lavorato per mezzo secolo, e della quale oggi sono ancora presidente emerito. Ci sono voluti dieci anni per definire il progetto, trovare la giusta sceneggiatura, gli attori e così via. Ma forse è un bene che sia così, perchè le tecnologie digitali con cui sono stati filmati gli effetti speciali sono le più avanzate: ancora un anno fa non esistevano».

Lei ha inventato la figura del super-eroe moderno, facendo rivivere un'industria - quella del fumetto - che alla fine degli anni Cinquanta era in declino, e creando una vera e propria mitologia seguita settimana dopo settimana da milioni di giovani in tutto il mondo, lettori affezionati fino al fanatismo. Come ha partorito i suoi supermen?

«Facendoli simili alla vita reale, senza identità segrete. I miei personaggi, a differenza di altri, hanno i loro problemi personali. Non sono affatto invincibili. O, per lo meno, i lettori e gli spettatori non sono sempre sicuri che alla fine possano veramente vincere».

Le è rimasto qualche super-eroe nel cassetto?

«Oh, molti. La mia società ha in cantiere parecchi progetti, con personaggi vecchi e nuovi. Faremo film per lo schermo, film per dvd, serie tv, videogiochi. Uno dei prossimi personaggi si ispirerà a Ringo Starr, il batterista dei Beatles. Un altro verrà dal mondo del rap, dell'hip-hop, sarà un eroe urbano. E Pamela Anderson potrebbe essere Stripperella, spogliarellista dotata di poteri sovrumani».

Lei, come il regista Alfred Hitchcock, figura spesso in piccole apparizioni-cameo nei suoi film. La vediamo anche nei Fantastici Quattro?

«Certo. Sono Willie Lumpkin, il postino, e per la prima volta parlo. Ma sono molto fiero anche di essere stato un venditore di hot dog in X-Men, un commerciante in Spiderman, un passante che attraversa la strada in Daredevil, un guardiano in Hulk...»

Partecipa anche alla scrittura di sceneggiatura e dialoghi?

«No. Per quello ci sono dei bravissimi professionisti, e io stesso mi stupisco ogni volta per la loro capacità».

Qual è il suo eroe preferito?

«Non ne ho. Sono come un padre, amo tutti i miei figli in modo eguale».

Ma quello che le ha dato più soddisfazioni?

«Beh, l'Uomo Ragno è sicuramente il più famoso, e infatti Spiderman è il film che ha ottenuto il successo maggiore».

Lei porta benissimo i suoi 82 anni. Qual è il suo segreto per mantenersi in forma?

«Nessuno. Non penso mai alla mia età, e adoro il mio lavoro. Per me è come giocare, mi diverto. Non
faccio jogging o altre attività fisiche, ma cammino molto. Ogni volta che ne ho occasione, nel mio tempo libero. Penso di essere l'unica persona che ogni tanto va a piedi a Los Angeles...»

Qual è stato il momento più difficile della sua vita, quello in cui avrebbe desiderato il pronto intervento di un super-eroe?

«Quasi cinquant'anni fa alla Marvel dovetti licenziare tutti, perchè gli affari non andavano bene e l'editore decise di chiudere la società. Ero disperato, perchè eravamo quasi tutti amici, oltre che colleghi. Fortunatamente, dopo qualche mese fui in grado di riassumerli».

Nel mondo c'è bisogno di super-eroi?

«Certamente. Ma esistono già: molte persone normali, quando ne hanno l'occasione, si comportano in modo eroico. Penso ai pompieri, a certi poliziotti».

E quali degli eroi moderni somogliano ai suoi?

«Qualcuno ha trovato delle analogie fra l'agente Nick Fury e l'attore John Wayne».

Ogni super-eroe ha una caratteristica, dei poteri speciali, un costume che lo definisce. Lei si è ispirato a qualcuno conosciuto nella realtà? Chi sono i «veri» Mister Fantastic, Torcia Umana, Donna Invisibile...?

«Ogni cosa che ho visto, sentito o letto è entrata nel mio subconscio, e prima o poi è tornata alla luce nella mia fantasia. Ma non ne sono conscio, non so perchè. Non mi sono mai ispirato ad alcuna persona in particolare. Solo dopo, qualcuno viene a dirmi "Ma sai, quello assomiglia a..."»

I costumi: a parte la formidabile arte dei suoi disegnatori, c'è qualcuno che l'ha ispirata? Magari qualche star di Hollywood?

«No, non ho molto a che fare neanche con i costumi. Ma i miei disegnatori sono dei geni: io spiego loro quel che ho in mente, e loro lo realizzano cento volte meglio».

La Cosa e Hulk sono due aberrazioni della natura. Pensa che ognuno di noi abbia dentro quella parte inespressa e mostruosa?

«Tutti abbiamo un carattere, più o meno buono, più o meno forte. E quando perdiamo le staffe, alcuni di noi possono provocare danni, anche gravi. Esattamente come i miei personaggi, anche se magari in scala minore...»

Lei è religioso? Crede in Dio? E i suoi personaggi?

«No, assolutamente. Non credo in Dio, e non mi piace alcuna religione. Le religioni hanno provocato più male che bene, nella storia: molte guerre, troppi morti. L'unico principio in cui credo è: "Non fare agli altri quello che non vorresti gli altri facciano a te". Basta questo: se ci limitassimo a seguire una regola così, non ci sarebbero più furti, omicidi, cattiverie. Detto questo, non posso neanche affermare che Dio non esiste. Anzi, speriamo che esista. Sicuramente c'è una forza potentissima, da qualche parte, che ha creato le meraviglie che ci circondano, e che noi con la nostra intelligenza non riusciamo neppure a immaginare».

Mauro Suttora

Sunday, September 25, 2005

Saud al Faisal

INTERVISTA AL PRINCIPE SAUD AL FAISAL, MINISTRO DEGLI ESTERI DELL'ARABIA SAUDITA

mercoledi 21 settembre 2005

Il Foglio

New York. "Americani e inglesi stanno consegnando l'Iraq all'Iran. Nel sud del Paese, che è in larga parte pacificato, emissari iraniani installano i loro uomini a capo delle amministrazioni locali, e organizzano milizie private. Come potete permetterlo? Nel 1991, dopo aver combattuto assieme, rinunciammo a marciare su Bagdad proprio per evitare un risultato simile".

Il principe Saud Al Faisal, 65 anni, ministro degli Esteri dell'Arabia Saudita ininterrottamente dal '75 (record mondiale), lancia questo monito al Council on Foreign Relations. "Non darei alcun consiglio sull'Iraq al presidente Bush in pubblico, ma sarebbe bene che gli Stati Uniti individuassero con precisione l'obiettivo da ottenere, e che poi facessero seguire i fatti alle parole, invece di farsi trainare dai fatti. Non è un problema di elezioni o di costituzione. Si parla di sciiti e sunniti come se fossero due entità separate, ma sono tutti arabi. Le differenze religiose percorrono ogni tribù. E i sunniti non sono i 'cattivi'".

Il direttore di Newsweek Fareed Zakaria chiede al principe: "Cosa pensa dei discorsi di Bush all'American Enterprise Institute e per l'inaugurazione del secondo mandato, in cui ha identificato la principale causa del terrorismo nei regimi tirannici?" "Il terrorismo purtroppo esiste anche nelle democrazie - risponde Saud - e viceversa una dittatura come l'Urss non ha prodotto terroristi durante la Guerra fredda. Quindi non sono d'accordo". Il principe, laureato a Princeton nel '64, indossa giacca e cravatta e fa parte dell'ala occidentalista della famiglia reale saudita. Così come il nuovo ambasciatore negli Usa, Turki Al Faisal, studi a Georgetown prima dei flirt pericolosi con Osama Bin Laden. Ma l'estremismo wahabita è attizzato da molti predicatori in Arabia Saudita. "Abbiamo dichiarato guerra agli estremisti - assicura Saud - e introdotto il reato di istigazione al terrorismo. Siamo stati colpiti duramente anche noi da quei fanatici, ma siamo riusciti a sventare 55 attentati. Il terrorismo è un problema mondiale, ha bisogno di una cooperazione globale. Soprattutto fra gli Stati Uniti, unica superpotenza, e il nostro Paese, culla dell'Islam".

Come definirebbe il terrorismo islamico? "Uso le parole pronunciate dal giudice John Roberts durante le audizioni al Senato quando gli hanno chiesto di definire la pornografia: 'So cos'è quando la vedo'. E' inutile perdere tempo a cercare di definire il terrorismo, è necessario piuttosto individuarne le cause. Il che è importante quanto combattere i terroristi, come ha concluso la conferenza antiterrorismo tenuta a Riyadh lo scorso febbraio con 60 Paesi". E qui il principe si lancia nell'abituale requisitoria contro Israele. Con toni moderati, tuttavia, stando attento a bilanciare le "sofferenze" patite dal popolo palestinese con quelle del popolo israeliano.

Per l'Arabia Saudita la soluzione al problema palestinese resta quella presentata da re Abdullah al summit della Lega Araba a Beirut: riconoscimento immediato di Israele da parte di tutti gli stati arabi in cambio della rinuncia totale ai Territori. "Il ritiro da Gaza è un barlume di speranza - dice Saud - ma le recenti dichiarazioni di Ariel Sharon all'Onu, su Gerusalemme sotto controllo totale di Israele e sul muro di separazione, non sono i segnali giusti da dare in questo momento cruciale." Quanto alla modernizzazione del regime saudita, "la nostra non sarà una democrazia nell'accezione occidentale, ma stiamo ampliando la partecipazione dei cittadini con le elezioni".

Mauro Suttora

Friday, September 16, 2005

Hitchens vs Galloway

HITCHENS VS GALLOWAY

Il Foglio, venerdi 16 settembre 2005

Duello a New York tra due inglesi tanto diversi. L'unica cosa che non hanno fatto è stato picchiarsi

Non si sono picchiati. Ma è l'unico scambio che è mancato, l'altra sera al Baruch College di New York, fra due corpulenti e sanguigni cittadini britannici. Totalmente privi di flemma, Christopher Hitchens e George Galloway hanno cominciato a darsele già da prima che iniziasse il dibattito, nella sala stracolma di tifosi paganti 12 dollari. Tema: "La guerra in Iraq". Hitchens, uomo di estrema sinistra, leggendario fustigatore di Henry Kissinger, ma oggi convinto sostenitore della della guerra, distribuiva un volantino con le ultime frasi-shock pronunciate da Galloway, deputato alla Camera dei Comuni, il più feroce oppositore alla guerra che si trovi al mondo. "Mai nel Senato degli Stati Uniti sono state pronunciate parole talmente antiamericane", commentò Wolf Blitzer della Cnn lo scorso maggio, quando Galloway riuscì a trasformare un suo interrogatorio sui coupon incassati per Oil-for-food in un comizio anti-Bush.

Quando sono saliti sul ring, scintille fin dalla prima frase di Hitchens: "Chiedo un momento di silenzio per le 160 persone che sono state sadicamente assassinate stamane a Bagdad mentre andavano a lavorare o a registrarsi per le prossime elezioni..." "Volgare demagogia", ha ribattuto Galloway, "perchè non chiedi lo stesso silenzio anche per le migliaia di vittime dei soldati americani a Falluja o l'altro ieri a Tal Afar?"

"Se negli ultimi 15 anni avessimo seguiti i consigli dei pacifisti", argomenta Hitchens, "oggi avremmo un Kuwait annesso all'Iraq, Slobodan Milosevic al potere in Serbia con il Kosovo ripulito etnicamente, i talebani che opprimono l'Afghanistan ospitando i terroristi di Al Qaeda, e Saddam Hussein padrone di quel campo di concentramento in superficie con fosse comuni sottoterra che era il suo Iraq. Non siamo quindi noi favorevoli alla guerra a dover dare spiegazioni, visto che il diritto internazionale la permette se uno stato ne aggredisce un altro, se viola ripetutamente il Trattato di non proliferazione nucleare, se non rispetta la convenzione contro il genocidio o se ospita bande di criminali internazionali. Tutte condizioni presenti nel caso di Saddam, la cui tirannia avrebbe prima o poi fatto implodere l'Iraq, con la Turchia a invaderne il nord, l'Iran che interviene per proteggere gli sciiti e l'Arabia Saudita che avrebbe fatto altrettanto in difesa dei suoi sunniti salafisti wahabiti. Invece, grazie a quella nobile impresa che è stata la liberazione di Bagdad, e nonostante le straordinarie difficoltà che sta incontrando, sono stati raggiunti i seguenti risultati: l'uomo che ha pianificato e ordinato vari genocidi è oggi in carcere, e seguirà Milosevic e Augusto Pinochet nel buio; è in corso un libero dibattito sulla costituzione in un Paese dove fino a due anni fa c'era la morte per chi avesse osato parlare di costituzione; i curdi, la più grande minoranza senza stato, sono liberi e quello straordinario personaggio che è Jalal Talabani è il presidente liberamente eletto dell'Iraq; la Libia ha confessato di essere cliente di quel supermercato delle bombe atomiche che era l'organizzazione pakistana di Qadeer Khan, e ha disarmato."

"Caro Christopher", ribatte Galloway, "ricordi quel discorso che facesti 25 anni fa nella mia Scozia, lodando la città di Dundee che si era gemellata con Nablus in Palestina? Non era facile avere certe idee allora, e parteggiare per il Fronte di liberazione della Palestina che aveva inaugurato il terrorismo di massa con la strage di Monaco... Ringrazio egualmente Hitchens per la sua coraggiosa opposizione alla guerra contro l’Iraq nel ‘91. Era molto difficile essere contro quell'invasione, dopotutto l'Iraq era governato da uno che si chiamava Saddam Hussein ed erano passati appena tre anni dal massacro di Halabja, effettuato con quelle armi chimiche di cui tu affermi sentire ancora l’odore quando vai in Curdistan... Coraggiosamente, fanaticamente potreste dire, Hitchens si oppose all’invasione del presidente George Bush. Cosicchè quella cui oggi assistiamo è la prima metamorfosi al contrario, da farfalla a baco, e uso apposta questo termine, perchè i bachi lasciano dietro di sè una scia di bava disgustosa."

"Sei tu ad avere posizioni repellenti", replica Hitchens, "e dopo aver leccato il culo per anni a Saddam il 30 luglio sei andato a Damasco rendendo omaggio al macellaio Assad, che scatena le sue squadre della morte in Libano... La Siria è l'unico Paese ancora guidato dal partito Baath, e tu ti sei trovato un nuovo padrone. Oggi la sinistra laica irachena sta combattendo contro la violenza fascista, e tutti in Medio oriente, da Saad Ibrahim, il Nelson Mandela d'Egitto, al leader socialista libanese Walid Jumblatt, riconoscono che la liberazione dell'Iraq è stata per loro come la caduta del Muro di Berlino..."

Pubblico diviso, applausi a entrambi.

Thursday, September 15, 2005

No Sex in the City/9

New York Observer, September 19, 2005, page 2

MAURO OF MANHATTAN
 
“I’ve been Norman Mailered …. ”
 
The words of a 1966 Simon & Garfunkel song surfaced in my sleepy mind at 5 a.m. two weeks ago, when a costume designer at the Waldorf-Astoria told me: “You’ll be Norman Mailer, so you’ll wear a raincoat.”
 
I had arrived at the hotel one hour before, in order to perform as an extra for the day in a new Richard Gere’s movie, The Hoax. “Upscale people needed for Richard Geere’s The Hawks,” had e-mailed me a spelling-challenged casting-agent friend.
 
Why not?
 
“Do you want to extra for a gala at the Waldorf?” I asked Barbara, my Italian lady friend. She declined immediately, having been an actress herself in Italy: “I still remember the boredom you’ve got to endure while shooting.”
 
Nor did the words “Richard Gere, gala, Waldorf” resonate with her. To my surprise, she wasn’t impressed at all: “I’d rather meet him in a real gala …. ”
 
I had gone to the casting in a dirty Tribeca loft carrying my own tuxedo. It was one of the hottest days in the summer. I found myself emerging from the subway in the middle of nowhere, surrounded by the Canal Street traffic. I began to suspect Barbara was right. After a one-hour wait I had to change in a rundown toilet, before passing the test.
 
I received a phone call from the casting agency on Saturday in the Hamptons villa of the Califanos, a really nice couple (she is a journalist for the main Italian daily, Corriere della Sera, he a scientist professor at Columbia): “Please be at the Waldorf at 4 a.m. on Monday morning.”
 
“Well, you know, I have to do a movie with Richard Gere,” I boasted. The rest of the weekend I was joked around about my “new film career.” I have to confess this was not my first contact with the movie business on the other side of the camera: Besides interviewing stars in America for the largest Italian weekly magazine, I had already been an extra last year in The Interpreter, with Nicole Kidman and Sean Penn (and Catherine Keener, a secret passion of mine).
 
Having forgotten the pain of that experience, here I was again trying to please my mom, who loves to see me onscreen. On that weekend, I forced Barbara to skip the Southampton Madame Tong's after-midnight dancing: “I have to prepare myself for the early-morning wake-up …. ” I set up the alarm at 3 a.m., the time we usually come back from parties. I slept only two hours. While getting up I awoke Barbara, who nastily mumbled: “Yeah, the great actor …. At best, they’re going to make you play the double for Richard’s dick …. ”
 
As I entered the Waldorf, a group of stunning beauties was flocking out of the Park Avenue door in loafers and rollers. They headed to a van parked in front of the Café St. Bart’s, which was distributing breakfast for the “talent.” It looked like some crazy scene from La Dolce Vita: For a moment, I was proud to be part of the ordeal. The Empire Room was filled with 150 chairs and a dozen makeup armchairs in front of the wall mirrors. While queuing up to fill a voucher, I was befriended by a retired fireman from Brooklyn. Another veteran 60-years-old extra was sitting right behind me, already dressed up in his tux. He was telling the story of his life to his neighbor: “ … And this morning I took the bus from Asbury Park, N.J., at 12:45 a.m., arrived at Port Authority, slept there a while and then walked to the Waldorf …. ”
 
It’s incredible how talkative some people can be with strangers so early in the morning. Knowing that 70 percent of the extras’ time on set consists in waiting, I had brought with me I Am Charlotte Simmons, the Tom Wolfe novel so long that I am always some hundreds pages short of finishing. I was about the only one with a book in the room. We got live music all along, though, a wonderful string quartet rehearsing joyfully since 4:30 a.m.
 
Shooting started only at 9. I knew that, and I was confirmed in my suspicion when, around 5, a wardrobe man whispered to a colleague: “Slow down, we still have four hours.” But during this time I witnessed the incredible transformation that many ordinary women went through, thanks to their 60’s makeup, hairdo and dress. It’s out of question: that was the decade of Beauty. Everybody looked so wonderfully upgraded, scores of Sophia Lorens and Brigitte Bardots by 7 a.m.
 
That was also the time when I suddenly got de-Mailered: “He’s too tall to be Norman Mailer, and doesn’t have curly hair,” the costume director sentenced, downgrading me from “celebrity” to regular extra. From Norman to normal.
 
So, I had to leave the V.I.P. section, where sat the impersonators of Frank Sinatra and Mia Farrow (married at the time), Lee Radziwill and others. The gala to be shot was a re-enactment of the legendary Black-and-White Ball which Truman Capote organized at the Plaza 40 years ago. During which Norman Mailer kept his raincoat on the tux. In the morning we shot the cocktail scene, with the arrivals and Mr. Gere fending the crowd. He plays Clifford Irving, the man who went to prison for selling a bogus Howard Hughes’ biography. He wore a mask, like everybody else. He looked rather small to me, despite the two inches gained thanks to shoes with inside and outside heels. Italian premier Silvio Berlusconi uses the same trick to enhance his not so statesmanlike stature.
 
In the afternoon we transferred to the Hilton Room, with the gala tables and the dancing scenes. We were given cigarettes to smoke (“It was the 60’s, folks!”), which the vast majority of extras refused with disgust. I was placed at the table with Truman Capote and Mia Farrow: “Massage Mia’s shoulders, you are supposed to be her manager.” Which I did, after watching over my shoulders the jealous Frankie’s whereabouts. An assistant director warned us: “Do not talk to Richard in between the scenes. He won’t remember you from Unfaithful, anyway. And don’t keep looking at him, he was a nobody in that party.”
 
We are all nobodies in this party, I was reminded at 7 p.m., when I signed the payment form and finally went home. As a non-union extra, I earned $75 for a day’s work. Because the working hours were more than 12, the amount was raised to $85. Minus 10 percent for the casting agent, minus the 8 percent FICA (Federal Insurance Contributions Act). Which sounds funny in Italian: FICA is the name for the female sex. First time in my life I had to pay for it.

Mauro Suttora


traduzione:

MAURO OF MANHATTAN

"Sono stato Norman Mailerizzato...": queste parole di una canzone di Simon e Garfunkel del 1966 ("A Simple Desultory Philippic") mi sono tornate in mente alle cinque del mattino di due settimane fa, quando nell'hotel Waldorf-Astoria di New York un costumista mi ha annunciato: "Lei sara' lo scrittore Norman Mailer, quindi dovra' indossare un impermeabile".

Ero arrivato all'albergo un'ora prima, per fare la comparsa nel nuovo film di Richard Gere "The Hoax" (La Truffa). "Cercasi gente elegante per 'The Hawks' (I Falchi, ma in inglese si pronuncia uguale) di Richard Geere", mi aveva avvisato tramite e-mail un'amica agente di casting, assai debole nello spelling.

Perchè no? "Vuoi fare la comparsa in un ricevimento di gala al Waldorf?", ho proposto a Barbara, la mia compagna italiana. Lei ha declinato immediatamente, perchè ha già fatto l'attrice in Italia: "Mi ricordo ancora la noia durante le riprese, le attese interminabili fra una scena e l'altra". Né si è fatta impressionare dalle parole "Richard Gere" e "Waldorf". Sorprendentemente, mi ha risposto: "Preferirei incontrarlo a un gala vero..."

Sono andato alla selezione del casting in un loft sporco di Tribeca, portando il mio smoking. Era uno dei giorni più afosi della tremenda estate newyorkese. Mi sono trovato a emergere dalla metropolitana in mezzo al nulla, circondato dal traffico di Canal Street. Ho cominciato a sospettare che Barbara avesse ragione. Dopo aver aspettato un'ora ho dovuto cambiarmi in uno squallido gabinetto, prima di passare l'esame.

La telefonata dell'agenzia di casting è arrivata sabato, mentre ero ospite nella villa agli Hamptons dei Califano, una coppia elegante (lei, Simona Vigna, fa la giornalista per il Magazine del Corsera, lui è uno scienziato che insegna alla Columbia University): "Presentarsi al Waldorf lunedì alle quattro del mattino".

"Ragazzi, devo fare un film con Richard Gere", ho cercato di vantarmi. Ma per il resto del week-end tutti hanno preso in giro la mia nuova "carriera cinematografica". Devo confessare che questo non è stato il mio primo contatto col cinema dall'altra parte della cinepresa: oltre a intervistare le star di Hollywood per il settimanale Oggi, sono già apparso un anno fa ne "L'Interprete", con Nicole Kidman e Sean Penn (e Catherine Keener, una mia passione segreta).

Avendo dimenticato quella dolorosa esperienza, eccomi di nuovo a fare il clown per la mia mamma, cui piace (intra)vedermi sullo schermo. Quel week-end ho obbligato Barbara a rinunciare alle feste danzanti nel locale Madame Tong di Southampton, che cominciano dopo mezzanotte: "Devo andare a letto presto, per prepararmi alla levataccia di lunedì mattina..." Ho messo la sveglia alle tre, l'ora in cui di solito torniamo da parties. Ho dormito solo due ore. Alzandomi ho svegliato Barbara, che ha mormorato sarcastica: "Si', il grande attore... Al massimo ti fanno fare la controfigura dell'uccello di Richard..."

Mentre entravo al Waldorf, un gruppo di belle ragazze stava uscendo in bigodini e pantofole su Park Avenue. Si sono indirizzate verso un furgone parcheggiato lì di fronte, che distribuiva la colazione agli artisti. Mi è sembrata una scena folle della "Dolce Vita": per un momento, ero quasi contento di essere lì. La sala Empire al piano terra del Waldorf era stata riempita con 150 sedie per noi comparse, e una dozzina di poltrone riservate al trucco davanti agli specchi delle pareti. Mentre facevo la fila per riempire un modulo, un pompiere in pensione di Brooklyn ha attaccato bottone. Un altro sessantenne, comparsa veterana, era seduto proprio dietro di me, già tutto in tiro nel suo smoking. Stava terminando di raccontare la storia della propria vita al vicino: "... E questa notte ho preso la corriera da Asbury Park nel New Jersey all'una meno un quarto, sono arrivato alla stazione dei pullman Port Authority di Manhattan, ho dormito un po' li', e poi mi sono incamminato verso il Waldorf..."

E' incredibile come certe persone riescano a essere così chiacchierone con dei perfetti sconosciuti così presto al mattino. Sapevo che il 70 per cento del tempo le comparse sul set lo passano ad aspettare. Quindi mi ero portato "I am Charlotte Simmons", l'ultimo romanzo di Tom Wolfe, così lungo che mi manca sempre qualche centinaio di pagine per finirlo. Ma ero l'unico con un libro in tutta la sala. E alla fine confesso che ho finito pure io ad ammazzare il tempo con i sudoku. Alle quattro e mezzo ha cominciato a suonare uno stupendo quartetto d'archi, che provava le musiche per il gala.

Le riprese sono cominciate soltanto alle nove. Lo sapevo. Il mio sospetto ha trovato conferma verso le cinque, quando ho sentito un costumista mormorare a un collega: "Tranquillo, tanto abbiamo ancora quattro ore". Ma in questo lasso di tempo sono stato testimone di un'incredibile trasformazione: quella di cui hanno beneficiato molte comparse donne non particolarmente avvenenti, grazie al trucco, ai capelli e ai vestiti anni Sessanta. E' proprio vero, quello fu il decennio della Bellezza. Tutte mi sono apparse improvvisamente migliorate: verso le sette la sala era piena di tante Sophie Loren e Brigitte Bardot.

Quella è stata anche l'ora in cui improvvisamente mi hanno de-Mailerizzato: "E' troppo alto per fare Norman Mailer, e poi non ha i capelli ricci", ha deciso il direttore dei costumi, retrocedendomi così da "celebrità" a comparsa normale. Da Norman a normal.

Così ho dovuto spostarmi dall'area Vip, dove sedevano i sosia di Frank Sinatra e Mia Farrow (allora sposati), Lee Radziwill (sorella di Jacqueline Kennedy) e altri. Il Gala in questione, infatti, era una ricostruzione della leggendaria Festa mascherata che lo scrittore Truman Capote organizzo' all'hotel Plaza (oggi chiuso) quarant'anni fa. Durante il quale Norman Mailer tenne sempre l'impermeabile sopra lo smoking. Durante il mattino abbiamo girato la scena degli aperitivi, con gli arrivi degli ospiti e Richard Gere che fende la folla. Nel film lui fa la parte di Clifford Irving, un tizio che finì in prigione per aver venduto una biografia falsa di Howard Hughes. Gere indossava una maschera, come tutti. Mi è sembrato piuttosto basso, nonostante i cinque centimetri guadagnati grazie a scarpe con tacchi interni ed esterni. Il premier italiano Silvio Berlusconi usa lo stesso trucco per aumentare la sua statura, non esattamente da statista.

Nel pomeriggio ci siamo trasferiti nell'adiacente salone Hilton, fra i tavoli della cena di gala, per le scene di danza. Ci hanno dato sigarette da fumare ("Erano gli anni Sessanta, ragazzi!"), che però la grande maggioranza delle comparse ha rifiutato con disgusto. Mi hanno messo al tavolo con Truman Capote e Mia Farrow: "Massaggia le spalle di Mia, tu ora fai la parte del suo manager". Ordine eseguito, non prima di aver controllato alle mie spalle dove fosse il gelosissimo Frankie Sinatra. Un aiuto regista ci ha intimato: "Non rivolgete la parola a Richard fra una scena e l'altra. Non si ricorda di voi, in ogni caso, anche se avete fatto le comparse nel suo precedente film 'Amore infedele'. E non continuate a guardarlo durante le riprese, lui era uno sconosciuto a quel party".

Siamo tutti sconosciuti in questo party: me ne sono reso conto alle sette di sera, quando finalmente ho firmato il modulo di pagamento e me ne sono tornato a casa. Come comparsa non sindacalizzata, ho guadagnato 75 dollari lordi per un giorno di lavoro. Poichè abbiamo lavorato per più di dodici ore, la cifra è stata aumentata a 85 dollari. Meno il dieci per cento per l'agente di casting, e detratto anche l'8 per cento dei contributi FICA (Federal Insurance Contributions Act), Il che suona buffo in italiano: fica e' il nome del sesso femminile. Prima volta in vita mia che ho dovuto pagarla.

Freedom House

giovedì 15 settembre 2005, pag. II

GIRO DEL MONDO CON FREEDOM HOUSE. GIUDIZIO SEVERO SULLA RUSSIA, UNA PICCOLA SGRIDATA PER L'IRAQ

New York. Mai nella storia tanti presidenti, premier e re hanno partecipato a un'Assemblea generale dell'Onu. Peccato che la maggioranza di loro occupi abusivamente la propria poltrona. Nel senso che guida un Paese non libero. Sono 89, secondo Freedom House, i Paesi "liberi" oggi nel mondo. Una minoranza, rispetto ai 54 solo "parzialmente liberi" e alle 49 dittature. La grande novità (negativa), nel rapporto 2005 dell'istituto universalmente apprezzato che misura minuziosamente il grado di libertà nel mondo, è la scivolata della Russia fra le nazioni non libere. E' la prima volta che accade dalla scomparsa dell'Urss. Ai Paesi liberi viene assegnato un punteggio da 1 (il massimo) a 2,5. Le dittature vanno da 5,5 a 7. In mezzo stanno i "quasi liberi".

Abitanti. Sono 2,8 miliardi (il 44% della popolazione mondiale di 6,4 miliardi) i fortunati che vivono in Paesi liberi. Quasi 1,2 miliardi risiedono in quelli "quasi liberi", mentre 2,4 miliardi sono oppressi da dittatori. Il miglioramento, comunque, è costante: nel 1974 i Paesi liberi erano soltanto 41, aumentati dieci anni dopo a 53. Nel '94, grazie al crollo del comunismo, i "liberi" sono diventati 76 (con 1,1 miliardi di abitanti). Il grande salto nel numero delle persone libere è avvenuto nel '98, quando l'India è stata promossa con il suo miliardo di abitanti.

Aung San Suu Kyi. La Nobel per la pace da 15 anni agli arresti in Birmania dopo aver vinto le elezioni non ha di che gioire. I suoi 50 milioni di connazionali sono oppressi da uno dei peggiori regimi del mondo. Freedom House registra le purghe interne alla giunta dei generali che detiene il potere dal 1962, la caduta del premier Khin Nyunt considerato troppo morbido, e il fallimento dei negoziati promossi troppo timidamente dall'Onu. La Cina continua a sostenere la dittatura birmana.

Cina. Freedom House infligge un severo 6,5 a quella che, nonostante gli exploit economici, continua a essere una feroce dittatura: "Il controllo del partito comunista è completo. Proibita qualsiasi elezione al di sopra del livello dei villaggi, enorme corruzione fra i funzionari di partito, il governo possiede tutte le tv e radio, e quasi tutti i giornali, i quali comunque non possono criticare i leader del partito. Trentamila agenti controllano le comunicazioni internet. I sindacati sono illegali, i gruppi di meditazione come Falun Gong vengono repressi severamente". Nei campi di concentramento lavorano 250mila prigionieri, molti dei quali politici e senza processo.

Cuba. Il dittatore Fidel Castro è il più longevo della Terra: 78 anni, da 45 al potere. La timida apertura economica del '93 non ha portato frutti politici. Nonostante il petrolio regalato dal Venezuela cento fabbriche hanno dovuto chiudere, e le maggiori fonti di reddito sono turismo e rimesse degli emigrati. Il progetto Varela è finito nel nulla, nelle carceri languono trecento dissidenti. Uno di loro, un bibliotecario, è stato condannato per avere "offeso le autorità": aveva gridato "Abbasso Fidel!". L'Avana non permette l'accesso della Croce Rossa e di qualsiasi altro organismo umanitario alle sue prigioni.

Disastro Medio Oriente. In quest'area l'unico Paese libero è Israele. Quattro lo sono solo parzialmente: Giordania, Bahrein, Kuwait, Yemen. L'Egitto, nonostante il voto, non ha raggiunto ancora la libertà, anche se in miglioramento: dal 6 dell'anno scorso a 5,5. Anche altri otto stati a maggioranza islamica hanno fatto progressi: Afghanistan, Comore, Giordania, Malesia, Marocco, Niger, Qatar, Turchia. Viceversa, ben cinque fra le otto peggiori dittature del mondo (voto 7) sono islamiche: Arabia Saudita, Libia, Siria, Sudan e Turkmenistan (gli altri "pessimi" sono Birmania, Cuba e Corea del Nord.

Giappone. Vuole entrare nel Consiglio di sicurezza Onu come membro permanente, ma intanto incassa un imbarazzante 2 per le libertà civili. La colpa è dei tre milioni di burakumin, discendenti degli intoccabili dell'era feudale, e della minoranza Ainu, che soffrono di discriminazioni de facto. Ma tutti gli stranieri in genere, e in particolare i coreani, non hanno vita facile nell'altrimenti civilissimo impero.

Grecia. E' l'unico Paese Ue a non ottenere il massimo dei voti. Le viene inflitto un 1,5 per le vessazioni a una radio privata che trasmetteva in lingua slavo-macedone (proibita), per il divieto di proselitismo religioso (mormoni e testimoni di Geova arrestati), per le vessazioni contro gli zingari e per l'illegalità dell'uso della parola "turco" nel nome di una qualsiasi associazione. Il servizio civile di 36 mesi è considerato troppo lungo e quindi punitivo rispetto alla naja obbligatoria di 18 mesi.

India. La democrazia più popolosa del mondo viene ampiamente promossa (voto 2,5), anche se bacchettata per i suoi politici, eletti con voto trasparente ma mascalzoni: cento dei 545 deputati sono sotto processo penale. La corruzione è tremenda: l'India risulta al 90esimo posto nella classifica di Trasparency International. Il terrorismo di 40 gruppi tribali in sette stati mette a dura prova lo stato di diritto, e naturalmente sopravvive la discriminazione delle caste in teoria proibita dalla costituzione. Ma insomma...

Iran. Voto 6, e "peggioramento accelerato nell'ultimo anno, con l'ala dura del potere clericale che si è impadronita del controllo del Parlamento grazie a elezioni farsa". Ma gli incassi record del petrolio e l'apatia generale permettono agli ayatollah di imporre la propria autorità senza provocare grandi proteste. "Il regime teocratico è però completamente fuori sintonia rispetto all'opinione pubblica", nota speranzosamente Freedom House, "e alcuni iraniani rimangono cautamente ottimisti sul lungo termine". Migliaia di persone sono arrestate arbitrariamente, la tortura è in teoria proibita ma un prigioniero ha avuto le mani amputate dopo essere stato appeso troppo a lungo con i polsi legati.

Iraq. Considerato ancora "non libero", nonostante le elezioni e la sufficienza (5) nel campo "libertà civili". Freedom House giustifica così il severo giudizio: "Nonostante i significativi progressi, la campagna di violenza estremista rallenta molto la ricostruzione e provoca brutali massacri". Il che sarebbe come imputare le Br al governo italiano o l'Ira a quello britannico. Il rapporto comunque ammette: "Gli iracheni non soffrono più limitazioni nel campo delle libertà civili".

Israele. Ottiene 2, una media fra l'1 per i diritti politici e il 3 delle libertà civili. Viene citato il caso di Mordechai Vanunu, cittadino israeliano liberato dopo 18 anni di carcere per spionaggio sulle attività nucleari, ma che non può nè emigrare nè concedere interviste: un giornalista inglese che lo ha fatto è stato arrestato. I matrimoni civili sono proibiti, gli ebrei che sposano non-ebrei devono andare all'estero.

Italia. Ha il massimo dei voti come tutti i Paesi della Ue, tranne la Grecia. Vengono registrate asetticamente le critiche dell'opposizione (comprese le dimissioni di Lucia Annunziata e della "star television broadcaster Lili Gruber") alla legge Gasparri e alla presenza dei tremila soldati in Iraq. Anche la legge sul conflitto d'interessi viene semplicemente definita "controversa". "Rimane un problema la corruzione politica", nota Freedom House, "ci sono state accuse di uso eccessivo della forza da parte della polizia, con rinvii a giudizio per le proteste di Genova nel 2001, e le carceri continuano ad essere sovraffollate e antiquate".

Monaco. Il minuscolo stato non ottiene il voto massimo perchè il principe Alberto è troppo potente: solo lui, infatti, può cambiare il governo (il premier dev'essere un francese proposto dal governo di Parigi) e proporre nuove leggi al Parlamento di 24 membri. E Freedom House lancia un'altra frecciata "In mancanza di informazioni finanziarie, il livello di corruzione è difficile da misurare". Un paradiso, insomma. Fiscale.

Russia. Perchè quest'anno Freedom House boccia Vladimir Putin e getta i 144 milioni di russi fra i "non liberi"? Il verdetto è drastico: "Ha eliminato tutti i maggiori partiti di opposizione, e con il pretesto della strage di Beslan ha concentrato ulteriormente il potere nelle sue mani". Le tv sono ormai sotto controllo governativo, e il processo al miliardario Michail Khodorkovsky è solo uno dei tanti che ha attirato la riprovazione internazionale. I gruppi per i diritti umani hanno protestato in particolare per la condanna a 15 anni dell'accademico Igor Sutyagin, e per i 14 anni di Siberia inflitti al fisico Valentin Danilov (accusati entrambi di spionaggio).

Mauro Suttora

Friday, September 09, 2005

Ivana Trump

Oggi, 14 settembre 2005

NELLA GUERRA DEI GRATTACIELI IVANA VOLA PIU' IN ALTO DI DONALD

L'ex signora Trump costruira' a Las Vegas una megatorre per vip

Con ottanta piani sara' il palazzo dei record nella capitale americana del gioco, e superera' anche la Trump International Tower dell'ex marito. Pronto nel 2008, avra' 943 appartamenti extralusso

Il bidet c’è soltanto nelle suites più spaziose: Nizza, Positano e Amalfi. Perchè nei Paesi anglosassoni non si usa, è considerato un’eccentricità un po’ ambigua e decadente dell’Europa continentale. Quindi anche nel nuovo grattacielo Trump a Las Vegas, che sarà pronto alla fine del 2008, la maggior parte dei bagni ne sarà sprovvista. Per il resto, però, gli ottanta piani di quello che si annuncia come il palazzo più alto nella capitale del gioco statunitense verranno arredati lussuosamente: rubinetti dorati, vetrate con viste mozzafiato, rifiniture in legno pregiato. Com’è tipico dello stile Trump, rutilante fino all’eccesso.

Solo che questa volta a costruirlo non sarà il miliardario Donald Trump. E’ infatti scesa in campo Ivana, la sua ex moglie cecoslovacca 56enne, che debutta firmando il suo primo grattacielo. I 943 appartamenti sono già in vendita, sotto lo slogan ambivalente “Size matters” (“La misura conta”). Faranno concorrenza ai 64 piani di un’altra torre, la Trump International Tower, questa tirata su dal Donald originale. Il quale non è per nulla contento dello scherzetto giocatogli dalla sua ex: un po’ perchè ha invaso il suo campo di specializzazione, ma soprattutto per lo schiaffo dei sedici piani in più.

«Sono due progetti diversi, non paragonabili», attacca lui. «Il mio è in centro, proprio nel cuore di Las Vegas, vicino al nuovissimo casinò appena aperto da Steve Wynn. Ho già venduto in anticipo tutti i miei 1.268 appartamenti, con anticipi del dieci per cento sui prezzi, che vanno dagli 800 mila agli otto milioni di dollari l’uno. Il palazzo di Ivana invece è troppo a nord, alla fine della Strip, in quello che una volta era il centro di Vegas, ma che ora è diventato periferia».

Anche Ivana, però, sembra avere successo. Il suo socio Victor Altomare assicura di avere già venduto la metà degli appartamenti, che hanno un ventaglio più ampio di prezzi: dal mezzo milione di dollari per i monolocali, ai 35 milioni del superattico. E la pubblicità è appena iniziata. Come anticipo, tuttavia, lei si accontenta di appena diecimila dollari per unità. In ogni caso, sarà un progetto colossale: i soli costi di costruzione si aggirano intorno ai 500 milioni di dollari. A quanto ammonta la quota di Ivana, non è dato sapere. Ma quel che conta è che sul grattacielo ci sia la sua firma, con la sottolineatura in color rosa rossetto che è il simbolo degli altri suoi prodotti: profumi, vestiti, accessori.

Ivana conservò il diritto all’uso del cognome Trump quando si separò nel 1992, dopo quindici anni di matrimonio e tre figli. Si fece liquidare con 25 milioni di dollari: allora fu il divorzio più costoso della storia, dopo quello di
Steven Spielberg. Per questo oggi la bionda signora può tranquillamente rispondere, all’ex marito il quale insinua il sospetto che Ivana si faccia usare dai costruttori per il suo cognome: «Sono contenta che Donald si preoccupi per me, ma non sono proprio il tipo di persona che si fa usare...»

Ivana divide il proprio tempo fra le magioni a New York, Londra e Saint Tropez e il suo yacht. E’ attratta dagli uomini italiani: tutti i partner con cui si è accompagnata dopo il divorzio sono nostri connazionali. Prima Riccardo
Mazzucchelli, sposato in un albergo di New York alla fine del ‘95 e lasciato ventidue mesi dopo. Poi il principe Roffredo Gaetani di Laurenzana dell’Aquila Lovatelli d’Aragona, concessionario Ferrari a New York incontrato al ballo della Croce Rossa a Montecarlo. Infine, da tre anni e mezzo, il trentenne romano Rossano Rubicondi.

Nel frattempo, l’ex signora Trump si è costruita un proprio piccolo impero economico, Ivana Inc., che fattura 50 milioni di dollari l’anno e vende vestiti col marchio House of Ivana. Approdata a Capri, si è fatta conquistare dai
cameo dell’antica ditta Scognamiglio di Torre del Greco e ora li vende sul suo sito internet. Con l’aiuto di un ghost writer ha scritto tre libri: due romanzi e la guida per le prime mogli The Best Has Yet To Come (Il Meglio deve Ancora Venire), con il sottotitolo Come affrontare il divorzio e godersi di nuovo la vita. Tiene conferenze per signore separate in tutti gli Stati Uniti, è in prima fila alle sfilate di moda a Parigi e New York, risponde ai lettori di un settimanale di gossip, frequenta il festival di Cannes e ora - dopo il mattone - vuole sfidare l’ex marito anche in campo televisivo: è pronto per lei l’ennesimo reality show, Ivana Young Man.

Donald Trump ha avuto un grande successo nelle ultime due stagioni con il reality L’Apprendista, in cui ogni settimana elimina senza pietà un giovane aspirante businessman: «You are fired!», sei licenziato, è lo slogan ormai trasformatosi in tormentone, che Donald ha perfino appeso su un lenzuolo appeso alla facciata del suo grattacielo più famoso, la Trump Tower della Quinta Avenue a Manhattan. Dopo aver divorziato dalla seconda moglie Marla Maples a gennaio si è sposato per la terza volta, con la modella slovena Melania Knauss.

«Le donne sono come le bustine di the», recita una delle frasi preferite di Ivana, «non ti accorgi mai di quanto sono forti finchè non entrano nell’acqua bollente». Per lei ora la sfida è rappresentata da quel grattacielo di Las
Vegas, la città che si sta espandendo più velocemente negli Stati Uniti assieme a Phoenix in Arizona e a Naples in Florida, anch’esse nella «cintura del sole» che attrae i ricchi pensionati. «Ivana manhattanizzerà Las Vegas», urlano i titoli dei giornali, riferendosi all’altezza del suo palazzo. Sarà in buona compagnia: sono addirittura un centinaio i grattacieli attualmente in progetto nella capitale del poker, con seimila appartamenti già in vendita e prenotazioni
per altri dodicimila. Finora lei aveva pubblicizzato un resort di lusso in Australia e il condominio Bentley Bay Miami, ma non si era mai spinta fino a battezzare con il proprio nome un intero palazzo.

L’abbiamo incontrata al Fizz di New York, il club privato più chic del momento dove ha dato il via alla campagna marketing per il suo grattacielo grigio-rosa. «Parecchi italiani hanno già prenotato», dice sorridendo, a noi e alla folla di fotografi che ci assedia. I suoi tre figli ormai sono grandi, Ivanka è anch’essa entrata nel jet set dei «figli di», come l’ereditiera Paris Hilton, «famosi solo per essere famosi».

Lei, emigrata prima in Canada e poi negli Usa dai poveri monti Tatra boemi, si è arrampicata e ce l’ha fatta, prima grazie a quel cognome, poi per merito della propria intraprendenza. E ora la sfida passa nel campo del cemento armato. «Voglio bene a Donald, lo considero ancora parte della mia famiglia», giura lei. Le crediamo, anche perchè in tanti anni assieme sicuramente si è rinforzata anche con qualche tondino d’acciaio. Lui l’aveva messa a capo del leggendario hotel Plaza subito dopo averlo acquistato. E lei ha imparato (troppo bene) la lezione.

Mauro Suttora

Thursday, September 08, 2005

New Orleans/4

A NEW ORLEANS SONO RIMASTI SOLAMENTE GLI ALLIGATORI

Oggi, 8 settembre 2005

dal nostro inviato Mauro Suttora

Le principali nemiche di Nancy Snyder ora sono le zanzare: «Guardi qua, mi hanno massacrato la schiena...» Però le zanzare c'erano anche prima. «Sì, ma mi sembra che dopo l'inondazione siano aumentate. O forse sono diventate più cattive. Il problema è che quando lavoravo, me ne stavo in un negozio con l'aria condizionata per sei giorni alla settimana e otto ore al giorno, e delle zanzare proprio non mi preoccupavo. Ora invece, con tutto questo tempo libero...»

La signora Snyder, cinquantenne, è l'ultima sopravvissuta di New Orleans. Ha aspettato l'ultimatum delle ore 18 di giovedì 8 settembre per andarsene. Poi, quando i soldati sono arrivati, non ha opposto resistenza. Ha obbedito all'ordine di evacuazione totale del sindaco, assieme al marito Mike Collins. L'unico suo rammarico: non poter portarsi appresso i due gatti. «Le gabbie le ho, ma mi hanno detto che non si può. Però in questi ultimi dieci giorni li ho ingrassati per benino. Gli ho dato così tanto da mangiare che ora sembrano due elefanti. E anche quegli altri due randagi che sfamavo, dall'altra parte della strada, sopravviveranno».

Fino all'ultimo Nancy è stata seduta, fumando una sigaretta dopo l'altra, sulla sedia a dondolo sotto il portico della sua casa a due piani di Magazine Street. Una bella via alberata proprio nel centro di New Orleans, con le villette di legno colorate in stile sudista. Radio sempre accesa con le notizie in diretta. La sua zona è stata risparmiata dall'acqua, ma non dal tornado: l'albero di fronte si è sradicato, rami pesanti sono caduti sul tetto, quello posteriore è crollato. Però la casa è rimasta in piedi. Così lei e il marito sposato tredici anni fa (raro caso di matrimonio interrazziale) sono rimasti, unici nell'isolato, e per dieci giorni si sono attrezzati contro la mancanza di elettricità: «Ventilatori a batteria, torce elettriche e candele per la sera. Con le scorte d'acqua potabile e cibo potremmo andare avanti un mese. Non chiamateci "rifugiati", siamo sopravvissuti, ecco quello che siamo. Dovrebbero dare a noi il premio da un milione di dollari del reality tv». «Se sono sopravvissuti gli indiani, perchè non dovremmo riuscirci noi?», aggiunge il marito, che non riesce a star fermo e si mette a potare la siepe.

E ora? «Non lo so», dice la signora Snyder. «Non so in quale città ci porteranno. Se avessimo un'auto potremmo scegliere noi, ma così decideranno loro. Se sarà per più di due settimane, mi troverò un lavoro nella nuova città. L'unica cosa che so è che ritorneremo».

Ritorneremo. E‚ questa la parola d'ordine dei sopravvissuti all'uragano Caterina, il più disastroso nella storia degli Stati Uniti. Un milione di «evacuati» (questa è la definizione ufficiale, in un Paese sensibilissimo ai nomi), decine di miliardi di danni, migliaia di morti. La cifra esatta si saprà soltanto quando l'ultimo cadavere verrà dissepolto dal fango. Ci vorrà parecchio tempo, perchè dopo aver riparato gli argini crollati occorrerà pompar via la montagna d'acqua che ha distrutto interi quartieri. A mezzo mese dal disastro, poche pompe funzionano: qualche decina su 150. Un'altra incredibile inefficienza della superpotenza più ricca del mondo, che ha conquistato la Luna e vorrebbe ricostruire intere nazioni come Iraq e Afghanistan, ma poi permette che una delle sue città più belle venga inghiottita da burocrazia e inefficienza, come l'ultimo Paese del Terzo mondo.

«Serpenti d'acqua e alligatori: questo si trova ora nell'acqua che ha invaso la città», dice la signora Snyder. «Una mia amica giura di aver visto addirittura un pescecane, ma probabilmente era solo un enorme pesce gatto». L'acqua circondava New Orleans già da prima. Per raggiungerla, infatti, superati i posti di blocco militari, attraversiamo un lungo viadotto sul «bayou», un misto palude-laguna. Sembra di arrivare a Venezia. Poi, però, c'è solo un impressionante deserto di case vuote. Per chilometri e chilometri, perchè le autorità hanno mandato via anche gli abitanti delle immense periferie residenziali rimaste asciutte. In giro ci sono soltanto i 63mila soldati inviati (troppi e troppo tardi) dal presidente George Bush junior. E' uno spettacolo impressionante e pauroso: tutte le strade sono state devastate prima dal vento dell'uragano, poi dal diluvio dell'acqua, infine dalle scorribande degli sciacalli.

Dormiamo in auto (non si trova una stanza d'albergo nel giro di 300 chilometri) nel centro della città. Di fronte c'è un lussuoso negozio di vestiti Brooks Brothers, la catena ormai di proprietà italiana. Le vetrine sono sfasciate, ma c'è dentro ancora parecchia preziosa mercanzia. Una giovane soldatessa della Guardia nazionale dell'Oklahoma e uno dei trecento poliziotti mandati da New York lo sorvegliano.

Tre isolati più in là, Bourbon Street. Un luogo di valore inestimabile. Qui è nata tutta la musica del Novecento: blues, jazz, rythm and blues. Grazie a Dio il quartiere francese (Nouvelle Orleans è rimasta sotto Parigi fino al 1803, quando Napoleone la vendette agli Usa) è salvo. Ma subito dopo comincia l'inferno: un avvallamento con le case ancora invase dall'acqua. Ci avventuriamo sul liquido puzzolente con un canotto, e scopriamo l'agghiacciante verità: il drenaggio dell'acqua dell'alluvione va a rilento anche perchè si teme che le pompe si intasino di resti umani. Intanto all'acqua di fogna si è aggiunto anche petrolio. I colibatteri fecali sono dieci volte più del consentito. Chi tocca muore: già cinque le vittime dell'infezione.

Per non vomitare torniamo sulla «terraferma». All'angolo di Canal Street un banco dell'Esercito della Salvezza offre vettovaglie e bevande. Ma ormai in città di sopravvissuti non ce ne sono più, quindi i soldati della Salvezza finiscono per sfamare i soldati veri. «Io sono dell'Alleanza delle chiese battiste del Sud», mi dice un tizio dietro al tavolo, allungandomi un tramezzino al prosciutto. Poi mi rifila anche un volantino di propaganda della sua chiesa, «per darmi speranza», dice. «Hope? In Italy we already got the Pope..», noi abbiamo già il Papa, gli rispondo in rima, snobbando il proselitismo.
Nessuno osa dirlo perchè non è politicamente corretto, ma certi ambienti non così isolati della destra religiosa americana considerano New Orleans, la «Big Easy» (Grande Facile), città piena di casini e casinò, sesso, soldi e musica, un posto vizioso e quindi degno di fare la fine di Sodoma e Gomorra. Come lo tsunami, che ha distrutto l'industria del porno turistico thailandese e delle perversioni pedofile in Sri Lanka.

Dietro l'angolo il cadavere gonfio di un uomo di colore giace sulla strada. Avvertiamo un poliziotto, ma il giorno dopo il corpo è ancora lì. «Dobbiamo occuparci prima dei vivi», si giustificano alla Protezione civile. Ma la temperatura supera di molto i trenta gradi, l'umidità è soffocante. I cadaveri si decompongono immediatamente, c'è un rischio colera.

La polemica sulle colpe continua, e andrà avanti per anni. Il sindaco e la governatrice della Louisiana, di sinistra (partito democratico), danno la colpa al governo di destra (repubblicano) di Bush e al suo capo della protezione Civile. I quali ribattono che spettava al sindaco sorvegliare gli argini crollati. Una cosa è certa: se quegli argini avessero protetto un quartiere di ricchi, sarebbero stati più alti. Parte dei soldi per la manutenzione sono stati stornati verso la guerra in Iraq. E un terzo della Guardia nazionale della Louisiana, invece di dedicarsi alla protezione civile, è finito a Bagdad. Ma anche le colpe locali sono molte: «I primi a entrare a rubare nel supermercato qui accanto sono stati i poliziotti di New Orleans», arriva addirittura ad accusare il signor Collins.

Quel che è certo, è che oggi New Orleans è la città più spettrale dai tempi di Hiroshima. Rinascerà? Può darsi, anche se alcuni (fra cui il capo dei deputati repubblicani) non vogliono ricostruire sotto il livello del mare. Seguendo questa logica, bisognerebbe allora sgomberare metà Olanda. Per ora hanno sgomberato un milione di persone. Nancy e Mike sono stati gli ultimi ad andarsene, ma vogliono essere i primi a tornare.

Mauro Suttora

Monday, September 05, 2005

New Orleans/3

NEW ORLEANS

settimanale Visto, 5 settembre 2005

Warren Reckser, 60 anni, non vuole andarsene. La sua casa è allagata, cinque barche sono già passate per portarlo via. Ma lui, testardo portiere d’albergo, non intende abbandonare i suoi quattro cani: «Ho abbastanza cibo e acqua, datemi solo un po’ di pile nuove per la tv portatile. Questa è casa mia, ci rimarrò fino a quando potrò pulirla. Devo portar fuori i tappeti, sono bagnati...»

New Orleans, la settimana dopo l’uragano Katrina. Fa un caldo insopportabile, per la temperatura di 35 gradi ma soprattutto per l’umidità. I poveri, tutti di colore, che abitano il centro della città inondato, si difendevano con le pale che giravano sotto il soffitto, più che con i condizionatori. Ma ora l’elettricità non c’è più, non tornerà per settimane. Nelle zone asciutte le famiglie per stare al fresco si rifugiano nelle loro auto parcheggiate, accendono il motore e si godono l’aria condizionata. I primi giorni non si trovava la benzina, ora il problema è risolto. Ma al signor Dreckser non importa essere privo di auto, di elettricità e di fresco. Lui vuole solo starsene nella propria casa, e da quando i cellulari hanno ripreso a funzionare è tranquillo: ha parlato con sua moglie, lei sta bene, lui pure.

Così l’America dei vinti, i poveri della Louisiana e del Mississippi, comincia a vincere la sua guerra contro Katrina. Nonostante le migliaia di morti, la gente riprende a sorridere, si ritrova, si riabbraccia. Molti, 400mila su mezzo milione solo da New Orleans, hanno dovuto andarsene, rifugiarsi in Texas e anche più lontano. Ma vengono accolti in comunità, e i soccorsi che per giorni non arrivarono ora non mancano. Anche dall’estero: il Paese più ricco e potente del mondo ha dovuto chiedere aiuto all’Europa, e perfino dal Terzo mondo sta arrivando qualcosa. L’odiato Fidel Castro ha offerto 1.100 medici cubani: «Potrebbero arrivare in un’ora, con un aereo dall’Avana», ha detto. Ma gli Stati Uniti, che boicottano Cuba con l’embargo, non hanno neppure risposto.

Il 61enne Joe Shaheen non può più stare nella sua casa senza tetto del famoso quartiere francese, ma neppure lui vuole lasciare il suo cane, Dixie Lee: «Sull’elicottero non lo accettano, e io non posso abbandonarlo qui a morire di fame». I vigili del fuoco passano di casa in casa a controllare che non ci sia più nessuno. A volte trovano qualche sopravvissuto, a volte purtroppo qualche cadavere: «Dobbiamo spicciarci, perchè con questo caldo i corpi imputridiscono in fretta. Bisogna seppellirli subito», avverte Joe Pollard, ufficiale della polizia di New Orleans.

I poliziotti della capitale del jazz nei primi giorni si erano lasciati prendere dalla disperazione. Duecento di loro, sentendosi impotenti senza auto, e senza barche ed elicotteri per salvare i superstiti, avevano dato le dimissioni. Intanto per le strade bande di sciacalli saccheggiavano negozi e supermercati, rubando anche i fucili che negli Stati Uniti sono in libera vendita. Ora l’ordine sembra essere stato ripristinato, ma Cornelius Victor, 52 anni, tiene a precisare: «Si’, c’è stato qualche ladro, qualche violentatore e anche qualche assassino, ma dieci mele marce non possono rovinare la reputazione di mille cittadini onesti». Il signor Victor è stato appena salvato assieme ad altri 24 rifugiati in una scuola da un mezzo anfibio della Guardia nazionale (l’esercito che ciascuno dei cinquanta stati che compongono gli Usa ha in dotazione, con compiti di protezione civile e mantenimento dell’ordine pubblico al proprio interno, e di vero e proprio combattimento all’estero).

Più di un terzo dei 22mila volontari della Guardia nazionale della Louisiana si trova attualmente in Iraq. Ma la tragedia di New Orleans sta facendo chiedere a molti il rimpatrio dei soldati da Bagdad. «La spedizione in Iraq ci costa un miliardo di dollari alla settimana», ricorda il senatore Ted Kennedy, «soldi che il presidente George Bush dovrebbe spendere invece per la ricostruzione». «Abbiamo abbastanza risorse per entrambe le cose», ha risposto Bush. Dopo il ripristino degli argini, le pompe idrovore potranno entrare in funzione e la città si ripopolerà.

Mauro Suttora

Thursday, September 01, 2005

New Orleans/2

LO TSUNAMI D'AMERICA

Oggi, 1 settembre 2005

Migliaia di morti e dispersi, violenze e saccheggi, rabbia e polemiche: dopo "Katrina" e' il caos

«Improvvisamente sono finita sott'acqua, completamente sommersa. Sentivo le urla disperate e poi sempre più soffocate dei vicini. Poi più nulla. Quando sono riemersa, non ero più dentro il mio appartamento. Non vedevo niente. Ma mi sembrava di nuotare in mare aperto. Ero terrorizzata, non riuscivo a capire dov'ero. A un certo punto mi sono accorta che intorno a noi galleggiavano automobili. Abbiamo dovuto scansarle per continuare a nuotare, trascinati dalla corrente».
Joy Schovest, 55 anni, parla con difficoltà, piange, singhiozza. Abitava negli appartamenti di Quiet Water Beach, sul lungomare di Biloxi, nello stato del Mississippi. Un nome ironico: «Spiaggia dell'acqua quieta». Invece è proprio qui che è passato l'occhio del ciclone, ed è qui che si è consumata (per quanto se ne sa finora) la strage peggiore di Katrina, lo tsunami d'America: una trentina di vittime, rimaste schiacciate, intrappolate, soffocate, annegate sotto le pareti di legno del condominio. «Il vento aumentava sempre più, il suo rumore era diventato fortissimo, terrificante», continua la signora Schovest. «Poi abbiamo capito che si stava alzando anche il mare, le onde si sono fatte sempre più grosse, ma era tutto il mare che ci veniva addosso. All'inizio speravamo che la casa tenesse, poi abbiamo capito che era impossibile, tutto si muoveva e tremava, come se fossimo in una scatola di cartone. Ormai era troppo tardi per uscire e scappare. Eravamo intrappolati. Le assi di compensato che alcuni avevano messo alle finestre per proteggere i vetri di sono trasformate nelle pareti delle loro bare. Non ci restava che pregare. Speravamo che prima o poi l'uragano finisse, passasse, o almeno diminuisse di forza. Invece aumentava sempre di più».

Uno dei pochi sopravvissuti di quella maledetta casa di Biloxi è il diciannovenne Landon Williams. E' riuscito a salvarsi, correndo fuori dall'appartamento e trascinandosi dietro la nonna e lo zio prima che il tetto crollasse. Anche loro hanno dovuto nuotare nell'acqua che formava dei mulinelli, facendosi largo fra i detriti: «Il vento era feroce, abbiamo visto la nostra casa che poco a poco si disintegrava. Sentivamo il rumore di grandi pareti di legno che si incrinavano e poi si spaccavano. Non riesco neanche a descrivere a parole quella situazione, avevo troppa paura, l'unico modo per capirla è starci dentro. Tutti i nostri vicini sono morti, hanno recuperato alcuni corpi che galleggiavano nell'acqua putrida. Li ho visti, ma dopo un po' ho dovuto smettere di guardare perchè mi veniva da vomitare. Non so come facciano a lavorare i pompieri che devono affrontare queste cose e portar via i cadaveri...»

Harvey Jackson è disperato. Ha perso la moglie Tonette dopo che l'acqua ha sommerso la sua casa: «Il mare cresceva, cresceva, così siamo saliti sul tetto in cerca dell'ultimo rifugio. Ci tenevamo per mano con il nostro nipotino, ma a un certo punto la marea ha spaccato in due la casa e il tetto. Non ce l'ho fatta più a tenere Tonette, le stringevo la mano fortissimo, più forte che potevo, ma lei veniva trascinata via. Dopo un po' lei stessa mi ha urlato 'Non puoi più tenermi, pensa al bimbo, salva lui!' E' sparita, non l'ho più trovata, neanche il suo corpo... Non so più dove andare, ho perso tutto, non abbiamo più niente, non sappiamo cosa fare».

Sembra di risentire le stesse scene infernali di appena otto mesi fa, quando lo tsunami dell'oceano Indiano spazzò centinaia di chilometri di coste. Ma allora furono colpite zone povere e lontanissime. Questa volta, invece, la furia della natura ha colpito il Paese più ricco e potente del mondo. New Orleans è (era) una delle città più belle e antiche degli Stati Uniti. Un centro turistico e industriale, la culla del jazz. Ma è incredibile come nel giro di poche ore anche zone avanzatissime e dotate di ogni comodità si possano trasformare, tornando all'età della pietra.

«Sembra di essere a Hiroshima», ha mormorato il governatore dello stato del Mississippi sorvolando le zone disastrate. Non funziona più nulla. Non c'è elettricità per milioni di persone, di notte cala un buio pesto. Sono saltate tutte le comunicazioni, telefoni, computer, tv. Anche i telefonini. Funzionano solo le radio, per coloro che hanno trovato ancora qualche pila ai piani alti. «Nessuno sa più nulla dei propri parenti e amici», spiega il sindaco di New Orleans, «la nostra città ha mezzo milione di abitanti, ma assieme ai sobborghi si arriva a parecchi milioni. Il giorno prima dell'uragano abbiamo dato l'ordine di evacuazione, però molti sono rimasti barricandosi in casa. E ora non possiamo raggiungerli, perchè tutte le strade sono allagate».

Improvvisamente sono mancate tutte le cose elementari per sopravvivere: acqua, cibo, un giaciglio per dormire, un riparo, vestiti asciutti. New Orleans si trovava sul delta del Mississippi ma sotto il livello del mare, protetta da argini. Che all'inizio avevano tenuto: per un giorno, anche dopo il passaggio dell'uragano. Poi però la pressione dell'acqua è stata troppo forte, e quasi tutta la città è stata invasa dall'acqua. «Un'acqua pericolosa», avvertono quelli della Protezione Civile statunitense, «perchè contiene le carcasse di animali morti, e putroppo non solo di animali».

Per salvare i suoi gattini Ann Griffin ha rischiato di morire: «Non li avrei mai lasciati da soli, così sono salita al secondo piano della mia casa e ho aspettato. Dopo molte ore è arrivata una barca guidata da un privato, il signor Rayes, che ha salvato me e il mio compagno James». Nei giorni successivi al disastro la situazione, invece che migliorare, è peggiorata. Il Genio dell'esercito non è riuscito a ricostruire gli argini artificiali con sacchi di terra, per cui le pompe idrovore non hanno potuto mettersi in azione. Molte macchine della polizia sono rimaste anch'esse bloccate nei loro parcheggi, galleggiando nell'acqua. Le fogne sono saltate, e un puzzo insopportabile ha avvolto la città. «Abbiamo avvisato i sopravvissuti di non avventurarsi in acqua neppure nuotando, perchè c'era il pericolo di imbattersi in un coccodrillo o in un serpente d'acqua velenoso», ha detto il capo dei pompieri di Gulfport Pat Sullivan.

Il peggior disastro naturale nella storia degli Stati Uniti dopo il terremoto di San Francisco del 1906 si è così dipanato per giorni e giorni sotto gli occhi impotenti delle telecamere tv sugli elicotteri, unici mezzi oltre alle barche per raggiungere decine di migliaia di superstiti. E poi si sono scatenati gli sciacalli. Perchè nel centro di New Orleans, così come in quasi tutti i centri storici delle città americane (tranne Manhattan), ormai sono rimasti ad abitare soltanto i più poveri. Le classi medie e alte sono andate quasi tutte nei verdi sobborghi. Ed è stata troppo forte la tentazione, per chi comunque non aveva già niente oppure aveva perso tutto, di andare a saccheggiare negozi, supermercati, appartamenti privati. «Sono dentro, con un cane feroce e armato di fucile», ha scritto un negoziante con lo spray fuori dal suo negozio. Ma per qualche giorno New Orleans, oltre che nel fango, è precipitata anche nel medioevo delle bande armate. «E' una tragedia enorme, ci vorranno anni per ricostruire», ha dovuto commentare sconsolato il presidente George Bush junior.

Mauro Suttora