Wednesday, August 31, 2005

Clan Gotti, trionfo Usa

settimanale Visto, 26 agosto 2005

I MAFIOSI? IN AMERICA SONO GLI IDOLI DEI "REALITY"

Che importa se l'ennesimo Gotti è processato per tentato omicidio? La saga della famiglia continua.
Victoria, figlia del celebre "padrino", insegna ai figli "come stare al mondo". E suo fratello, John junior, se la ride delle accuse

New York. Buon sangue non mente. John Gotti junior, 41 anni, è in questi giorni sotto processo a New York per estorsione e tentato sequestro di persona. Rischia fino a trent'anni di carcere. Tre settimane fa suo zio, il 66enne Peter Gotti, è stato condannato a 25 anni per tentato omicidio. Già ne stava scontando nove per riciclaggio di denaro sporco e crimini di racket. I Gotti volevano far fuori il pentito Sammy Gravano, ex numero due della mafia a New York, perchè aveva tradito e spedito al fresco il capo dei capi: John Gotti senior, padre del junior, morto di cancro in galera tre anni fa.

Il processo di questi giorni attira l'attenzione dei media Usa perchè fa apparire inestirpabile il clan mafioso più potente d'America, quello che controlla la famiglia Gambino da dieci anni. Morto un Gotti se ne fa un altro, anche se sono padrini e non papi. Un destino che sembra ineluttabile: John senior aveva undici fratelli e sorelle, e tutti i maschi si sono dati al crimine. Ora è il turno della generazione dei quarantenni. Cosa Nostra negli Stati Uniti è più viva che mai, nonostante la concorrenza delle mafie russa, colombiana o cinese, e le periodiche retate della polizia. La quale più che infiltrare i clan, si fa infiltrare: sono infatti alla sbarra anche gli agenti Lou Eppolito e Steve Caracappa (accusati di undici omicidi come killer dei Gambino), che hanno fatto il doppio gioco per trent'anni.

Ma, quel che è peggio, oggi i mafiosi italoamericani sono diventati quasi oggetti di culto. Il fenomeno più incredibile, infatti, riguarda la sorella di John junior, la 42enne (finta) bionda platinata Victoria Gotti. La quale prima ha sposato un altro boss, Carmine Agnello. Poi ha chiesto il divorzio, quando nel 2000 le intercettazioni telefoniche hanno dimostrato non solo la colpevolezza criminale del marito, ma anche quella coniugale: lui la tradiva a tutto spiano. In seguito Victoria è riuscita a entrare nel mondo del glamour: Donald Trump la invita ai propri matrimoni, il quotidiano New York Post di Rupert Murdoch le affida una rubrica di gossip. Viene licenziata, ma trova subito rifugio sul settimanale scandalistico Star. Infine, un anno fa, l'incoronamento della marcia verso la rispettabilità di Victoria Gotti: il canale Tv AE (Arts&Entertainment) la fa diventare protagonista del reality show Growing up Gotti (Crescere Gotti). Nel quale si può ammirare la signora mentre cerca di educare (si fa per dire) i suoi tre figli Carmine, 19 anni, John, 18, e Frank, 15.

A Victoria, nonostante le traversie del marito, sono rimasti appiccicati addosso vari miliardi, e così lei alleva i suoi pargoli in un villone con sette camere da letto a Long Island, provvisto di parco, piscina e cavalli. I ragazzotti si comportano da bulli di periferia, non studiano, vagano in auto combinando guai ed esibendo già il cipiglio arrogante dei compari in erba. Mamma Gotti fa finta di preoccuparsi.

Prosegue così la spettacolarizzazione della mafia italoamericana, iniziata all'inizio del decennio con il serial Tv I Soprano. I crimini di questa famiglia mafiosa del New Jersey vengono seguiti con interesse da milioni di spettatori ogni settimana: sparare a freddo in bar a uno sconosciuto che non mostra «rispetto» e fare a pezzi il corpo di un «infame» diventano routine da psicanalizzare...

La trasmissione viene addirittura premiata con gli Oscar Tv, e a poco valgono le proteste della Niaf (National Italian American Foundation) contro la «stereotipizzazione» dei nostri connazionali come mafiosi. D'altronde, cosa fanno da trent'anni registi come Francis Ford Coppola e Martin Scorsese, e attori come Robert De Niro, se non glorificare Padrini?

Ora Gotti junior è accusato - fra le altre cose - di aver tentato di rapire ed eliminare Curtis Sliwa, conduttore radiofonico e fondatore del gruppo di vigilanza civica «Guardian Angels», che nelle sue trasmissioni criticava aspramente suo padre, il patriarca mafioso. Ma gli spettatori dei Tg, distratti, confondono la realtà con il programma successivo, in cui la sorella dell'imputato redarguisce i suoi «bravi ragazzi» (Goodfellas) che imitano i modi spicci di Tony Soprano, ma allo stesso tempo si lamenta perchè «non si può giudicare la gente dal cognome»...

Mauro Suttora

Monday, August 29, 2005

New Orleans/1

KATRINA

lunedi 29 agosto 2005

Diario

Immaginate che il povero Bruno Vespa, per dimostrare la propria virilità, ogni volta che a Trieste soffia la bora si precipiti a farsi filmare barcollante in cerata sotto il vento e la pioggia. Eppure è esattamente quello che succede negli Stati Uniti, dove ad ogni uragano si scatena, oltre alla furia degli elementi, anche la fiera delle vanità delle star tv. E’ con un particolare autocompiacimento masochistico, per esempio, che Anderson Cooper, il figlio della miliardaria Gloria Vanderbilt diventato colonna della Cnn, si è fatto quasi spazzare via dall’uragano Ivan in Florida l’anno scorso.

Fra le tante disgrazie provocate dalle tremende tempeste tropicali estive americane, inimmaginabili per noi fortunati abitanti del placido Mediterraneo, c’è anche il fardello di cronisti dementi che occupano gli schermi Usa per giorni e giorni. Un fenomeno così irritante che il perfido David Letterman, principe della satira tv statunitense, li ha messi alla berlina mostrandoli uno dopo l’altro in pose Ridolini-Blob. La speranza segreta del telespettatore americano, ovviamente, è quello che l’uragano si porti via pure il giornalista vociante: lui sta davanti allo schermo per vedere se quello prima o poi prende il volo. Inconfessabile. Un po’ come il tifo pro toro nella corrida.

Perchè alla fine, si sa, l’uragano perde. Com’è successo anche al tremendissimo Katrina, che appena toccata terra si è sgonfiato, è stato degradato a “tempesta tropicale”, e ha diminuito la velocità dei propri venti da 250 a 150 chilometri l’ora. Una miseria, quasi come la bora nostrana, appunto. Morti, grazie a Dio, relativamente pochi (nel 1969 Camille ne causò 250). Danni, tantissimi: un milione di sfollati (tutta New Orleans), quarantamila case allagate, 26 miliardi di dollari di rimborsi chiesti alle assicurazioni dopo i trenta dell’anno scorso in Florida per Ivan. Una cifra immensa, certo. Però è quello che il Pentagono spende in soli venti giorni.

Quando ancora gli esperti erano convinti che Katrina non si sarebbe diretto verso Louisiana, Mississippi e Alabama, ma avrebbe scaricato tutta la propria potenza sulla Florida, sembrava che anche la serata tv degli Mtv awards da Miami fosse in pericolo. Invece si è svolta regolarmente e i suoi trionfatori, i Green Day, sono riusciti a inventare una via patriottica all’antimilitarismo (o una via antimilitarista al patriottismo), con il loro slogan “Amiamo i nostri soldati, quindi facciamoli tornare presto dall’Iraq”.

Non per buttarla in politica, ma gli uragani servono a qualcosa anche in questo campo. Per tre motivi. Il primo è quello classico: “parlare del tempo” per non affrontare argomenti più seri. Capita sempre in ascensore, e va bene. Ma ora la metereologia, in questi Stati Uniti polarizzati come ai tempi del Vietnam, è uno svicolamento anche per non far naufragare cene familiari o fra amici, se in circolazione c’è un bushista. La seconda funzione sociale ricoperta dagli uragani, poi, è quella di “affidamento al politico”. Di fronte a disgrazie immani non resta che sperare nei risarcimenti procurati dai governatori degli stati, e Jeb Bush l’anno scorso fece vincere le elezioni al fratello in Florida grazie alla propria performance consolatoria e all’efficienza dei soccorsi. Ora in Louisiana potrebbe mettersi in luce la democratica Kathleen Bianco.

La terza grande ragion d’essere dei tifoni, infine, sta nella diffusione della paranoia. Perchè ormai sarebbe il caso di cominciare a chiamarla così, la paura del “terrorismo” in un Paese dove per quattro anni, dall’11 settembre 2001, non è scoppiato neanche un petardo. In mancanza di ulteriori gesta da parte di Osama, ci si consola con il terrore provocato dalla forza distruttrice più antica, potente e misteriosa del mondo: quella della natura. Uno “shock and awe” che Donald Rumsfeld se lo sogna.

Un canale intero della tv Usa, il Weather Channel, si dedica a coltivare l’insicurezza ossessiva provata del cittadino medio statunitense nei confronti dei fenomeni atmosferici. Egli crede alle previsioni del tempo quasi quanto si fida dei discorsi neocon del presidente sull’export della democrazia tramite guerra. La minaccia sorda e imprecisa dei tornadi serve a mantenere un clima di allarme permanente e impreciso nella psiche familiare di tutto il Sud statunitense.

Sociologia d’accatto? Ditelo a Richard Posner, massimo “catastrofologo” statunitense. Nel suo ultimo libro, “Catastrofi: rischio e risposta” pubblicato nove mesi fa, sostiene che gli americani spendono troppo poco per prevenire (e proteggersi da) gli eventi estremi. Intendiamoci, contro gli uragani non c’è nulla da fare. E’ vero solo, statistiche alla mano, che negli ultimi anni è finito il periodo di grazia cominciato negli anni Settanta, e che il numero di uragani e tempeste tropicali è raddoppiato: fino a undici l’anno per i primi, mentre di solito erano sei, e venti per le seconde, il doppio del normale. Dacci il nostro uragano bimestrale: quest’estate Dennis, Emily, Irene e poi Katrina, l’anno scorso Charley, Frances, Ivan e Jeanne... Un allarme continuo che diventa allarmismo, e si somma nel subconscio a quello delle allerte arancioni antiterrorismo.

Per quest’anno non illudiamoci che sia finita. Gli scienziati del Nooa (National Oceanic and Atmospheric Administration), che si sommano al Cpc (Climate Prediction Center), alla Hrd (Hurricane Research Division), e al Nhc (National Hurricane Center), in un trionfo burocratico di enti dalla competenze sovrapposte, hanno già battezzato gli uragani futuri. Ogni anno si ricomincia dalla lettera A, e per il 2005 finora l’elenco è questo: Arlene, Bret, Cindy, Dennis, Emily, Franklin, Gert, Harvey, Irene, Jose e Katrina. Seguiranno (si spera di no) Lee, Maria, Nate, Ophelia, Philippe, Rita, Stan, Tammy, Vince e Wilma.

“Le catastrofi non sarebbero tali se avessero un qualcosa di ragionevole”, scrive Posner, “eppure ci si può ragionevolmente preparare ad esse, che si tratti di uragani, tsunami, asteroidi che impattano sulla Terra o terremoti. Certo, farlo costa molto”. Negli anni Sessanta parecchie società d’assicurazioni smisero di operare nel campo degli allagamenti dopo una serie di enormi inondazioni in California. In seguito all’uragano Andrew del ‘92 (l’ultimo paragonabile a Katrina) i premi assicurativi aumentarono del 200 per cento. Dopo l’11 settembre 2001 è stato impossibile assicurarsi contro atti di terrorismo, finchè non è intervenuto il governo federale Usa. L’anno scorso, le assicurazioni contro i rischi edilizi per tornado in Florida sono di nuovo raddoppiate.

“Il mercato non ha cuore”, ha ammesso James Surowiecki sul settimanale New Yorker, “e da un punto di vista economico le devastazioni del Golfo del Messico la scorsa settimana sono state più gravi di quelle dello tsunami, che aveva colpito zone troppo povere per essere nevralgiche dal punto di vista del business. Ma nonostante l’uragano questa volta abbia distrutto zone ricche, la percentuale di proprietà assicurate è ancora insufficiente. Il problema è che è difficilissimo, per le compagnie assicurative, calcolare attuarialmente quale sia la percentuale di rischio di questi grossi eventi. Sia perchè accadono a intervalli imprevedibili, sia perchè basta una minuscola variazione della traiettoria dell’occhio del ciclone per provocare miliardi invece che milioni di danni, colpendo una metropoli come New Orleans e i terminali del petrolio. Uno dei pochi che non teme di affrontare questi rischi è Warren Buffett (il quarto uomo più ricco del mondo, ndr), che ha guadagnato parecchi soldi proprio assicurando le catastrofi, perchè sa che è nella natura di tale business sopportare annate dure. Ma pochi assicuratori e investitori sono forti abbastanza per accettare l’inevitabilità di perdite grosse in cambio della certezza di molti piccoli guadagni. Per questo assicurarsi contro gli ‘atti di Dio’ costa ancora molto di più di quanto la gente è disposta a sborsare”.

Questo per quanto riguarda il futuro economico degli uragani. Ma quello scientifico? In sostanza: come mai ce ne sono di più da dieci anni a questa parte? “La maggior parte degli uragani”, risponde Stanley Goldenberg del Noaa, “nasce al largo della costa occidentale dell’Africa e si sviluppa nella fascia tropicale caraibica fra il nono e il ventunesimo parallelo. Quasi mai superano il trentesimo pareallelo. Purtroppo, anche se le condizioni del loro sviluppo sono ben conosciute, troppo spesso esse dipendono da circostanze giornaliere invece che stagionali, e quindi risultano impossibili da prevedere a lungo termine. Tuttavia, con l’eccezione dei due anni di attività del Nino, il ‘97 e il 2002, il numero degli uragani è stato sempre il doppio rispetto alla media dei precedenti 25 anni. Ebbene, in mancanza di dati certi sull’effetto serra e sulla temperatura dell’oceano Atlantico, noi siamo in grado soltanto di predirre all’inizio di ogni stagione se si ripeteranno le condizioni di facilità per il formarsi di tempeste tropicali, e di sviluppo della loro forza”.

Una notevole dichiarazione d’impotenza, non c’è che dire. Intanto, il quartiere francese di New Orleans è finito sott’acqua con gli argini rotti. E l’allarme inondazione ha provocato uno degli esodi più immani nella storia degli Stati Uniti. Puzza invece di speculazione l’aumento di cinque dollari a barile (raggiunta quota 70, impensabile fino a pochi mesi fa) causato dalla chiusura dei pozzi petroliferi nel Golfo del Messico. In realtà gli Usa producono in loco soltanto un milione e mezzo di barili al giorno, contro i sei e mezzo provenienti dall’estero che vengono succhiati dai terminal di Lousiana e Texas. Ma queste cose i cronisti tv che urlano sotto la pioggia non le spiegano.

Mauro Suttora

Wednesday, August 24, 2005

La mamma del soldato

Oggi, 24 agosto 2005

MIO FIGLIO E' MORTO PER TE: BUSH, SARO' LA TUA CROCE

La guerra di una madre-coraggio americana

Cindy Sheehan non ha piu' pace: suo figlio ha perso la vita in Iraq in un agguato. "La colpa e' del presidente che ha mandato a morire i nostri ragazzi in un conflitto insensato". E ora lo sfida: vuole diventare un incubo per lui. Finche' non ammettera' di avere sbagliato

Crawford (Stati Uniti), agosto
«Sono venuta a Crawford per mio figlio. Perchè finchè il presidente sta qui,
anche il mio posto è qui. E' lui che lo ha mandato a morire in una guerra
insensata. Sono arrivata un mese fa per una sola ragione: incontrare il presidente
e ottenere una sua risposta a questa semplice domanda: qual è la "nobile
causa" per la quale lui dice che mio figlio è morto? La risposta a questa domanda
non farà tornare indietro mio figlio. Ma potrebbe fermare altre morti senza
senso. Perchè ogni morte adesso non ha più senso. E la grande maggioranza del
nostro Paese lo sa. Quindi, perchè altri giovani devono morire? E perchè altri
parenti devono perdere i propri figli e passare il resto della vita con questo
lutto insopportabile?»

La signora Cindy Sheehan, 48 anni, non è una pacifista. Almeno non lo era
fino all'anno scorso, quando il suo figlio 24enne Casey è morto in Iraq. Ci era
arrivato da appena un mese, faceva il meccanico. Il 4 aprile 2004 si era spinto
in missione volontaria a Sadr City per salvare dei soldati feriti in
un'imboscata. Assieme a lui sono stati uccisi altri sei militari americani. Quel giorno
la signora Sheehan guardava la tv nella sua casa californiana: «Quando per
caso ho visto sulla Cnn un blindato che bruciava, ho capito d'istinto che Casey
era morto».

Anche la decisione di andare dalla California a Crawford (Texas) per chiedere
udienza al presidente George Bush junior in vacanza nel suo ranch l'ha presa
d'istinto. Lo aveva già incontrato due mesi dopo la morte di Casey, il
presidente. Ma in quell'occasione se ne era stata tranquilla. Bush ha concesso
udienza a 272 parenti dei duemila soldati statunitensi morti finora in Iraq e
Afghanistan. Per cui i suoi collaboratori hanno detto no a questa signora sconvolta
dal dolore: «Se stabiliamo il precedente che ciascun parente può essere
ricevuto più di una volta, il presidente rischia di dover passare gran parte del suo
tempo con i familiari delle vittime».

E' una decisione che qualcuno potrebbe rimpiangere. Perchè la signora Sheehan
si è intestardita, non è tornata a casa, ed è rimasta ad aspettare fuori dal
ranch per tutto l'agosto afoso del Texas: «Non me ne vado finchè non mi
riceve». Si è piazzata con una seggiolina pieghevole sulla strada, e col passare dei
giorni ha cominciato ad attrarre l'attenzione dei giornalisti. Forse perchè
d'estate non ci sono molte altre notizie, il suo caso è finito su tutte le
prime pagine. Contemporaneamente, i sondaggi per la prima volta hanno avvertito
che la maggioranza degli americani si sta stufando della guerra, e che non ha
più fiducia in Bush.

E' cominciata così una vera e propria sfida fra questa signora, impiegata in
una Usl vicino a San Francisco, e l'uomo più potente della Terra. Ormai è
diventata una questione di principio: se il presidente cede e la incontra, i
pacifisti la prenderebbero come una vittoria. Ma se non la vede potrebbe fare la
stessa fine di un altro presidente texano, Lyndon Johnson, che esattamente
quarant'anni fa, nell'estate '65, snobbò i manifestanti contro la guerra del
Vietnam davanti al suo ranch, ma tre anni dopo perse la Casa Bianca (e alla fine gli
Stati Uniti persero la guerra).

Attorno alla signora Sheehan si sono radunate prima centinaia, poi migliaia
di persone che stringono d'assedio il ranch. Sono arrivati personaggi famosi,
come la cantante antimilitarista Joan Baez che ha tenuto un concerto uguale a
quelli dei tempi del Vietnam. I consiglieri del presidente avevano respirato un
po' quando la Sheehan era dovuta tornare in California per assistere sua
madre che aveva avuto un infarto. Ma la tregua è durata soltanto qualche giorno.
Si sono mobilitati anche i sostenitori del presidente. Altre mamme di soldati
morti in Iraq si sono fatte intervistare, dicendosi favorevoli alla guerra.

Alcuni siti internet vicini al partito repubblicano si sono riempiti di veleni
contro la signora, definita «ex hippy fallita». In effetti la vita della
signora Sheehan dopo la morte del figlio non è più la stessa. La Usl l'ha
licenziata per troppe assenze. Il marito l'ha mollata in giugno perchè non ce la faceva
più a sopportare il dolore ossessivo della moglie: «Io per superare
l’angoscia ho bisogno di distrarmi», ha detto, si è comprato due maggiolini Volkswagen
(che colleziona) e se n'è andato. Gli altri due figli, la 24enne Carly e il
21enne Andy, la appoggiano, ma ora le chiedono di tornare a casa.
Tuttavia, la signora Sheehan sta scuotendo l'America come nessuno era
riuscito a fare nei quattro anni che sono passati dall'11 settembre 2001.

«La verità è che queste guerre stanno costandoci troppo», spiega Linda Bilmes,
professoressa dell’università di Harvard: «Duemila americani uccisi, quasi quindicimila
feriti e mutilati. Ma anche il prezzo economico è alto, nascosto agli occhi
del pubblico, e bisognerà pagarlo anche dopo la fine delle guerre. In totale
sono mille miliardi di dollari. Per 45 anni dovremo dare sette miliardi all’anno
in pensioni d’invalidità a tutti i menomati fra il mezzo milione di soldati
che ha finora servito in Iraq. E dall’inizio della guerra, nel marzo 2003, il
prezzo del petrolio è raddoppiato».

Ma la cosa più grave, che provoca frustrazione anche fra i favorevoli alla
guerra, è che non si intravede una via d’uscita. Ormai anche qualche senatore
repubblicano, temendo di non essere rieletto, chiede una «exit strategy»
dall’Iraq. Il presidente Bush ammonisce: «Se tornassimo subito mancheremmo di
rispetto proprio ai soldati come Casey Sheehan che hanno dato la loro vita per la
patria. E anche fissare una data per il nostro rientro sarebbe un regalo per i
terroristi, ai quali non resterebbe che aspettare. No, dobbiamo rimanere finchè
gli iracheni non potranno difendersi da soli con le nuove forze armate e di
polizia che stiamo addestrando».

Casey era molto religioso, aveva fatto il chierichetto e avrebbe voluto
diventare assistente di qualche cappellano militare. Poi è partito volontario, ma
non ha voluto fare l’amore con la sua fidanzata: «Sarebbe poco serio, prima del
mio rientro e del matrimonio». La signora Sheehan ricorda il suo imbarazzo:
«”Non potrò certo dire ai miei colleghi che sono ancora vergine...”, mi diceva».

A Genova per secoli c’è stata la figura della «pittima»: una persona che
seguiva costantemente ciascun debitore in ogni strada, ricordando ad alta voce i
suoi impegni non mantenuti. Oggi la signora Sheehan si è assunta questo ruolo
nei confronti del presidente: vuole imbarazzarlo fino a fargli ammettere che
andare in Iraq è stata una mossa sbagliata. Sicuramente non ci riuscirà, ma è
altrettanto sicuro che il prezzo che lei sta facendo pagare a George Bush junior
per la sua testardaggine cresce di giorno in giorno.

Mauro Suttora

Monday, August 22, 2005

Ristoranti di New York

mensile Dove, agosto 2005

CENA IN PALCOSCENICO

La nuova hit parade gastronomica? Drink sui grattacieli, ristoranti nel quartiere dei macellai, cucina italiana in rialzo. Tutti gli indirizzi per mangiare bene e pagare il giusto. In posti scenografici

Sono oltre 15.000 i ristoranti di New York, industria fondamentale per una città che pranza poco a casa. Ogni anno ne aprono circa 300, e altrettanti chiudono i battenti. "A molti newyorkesi la buona cucina non basta", dice Ruth Reichl, direttore della rivista 'Gourmet', forse il critico gastronomico più famoso degli Usa. "Per loro, andare al ristorante è come andare a teatro, si aspettano un'intera serata di intrattenimento. e sono pronti a giurare amore eterno ai locali che sanno offrire qualità ed effervescenza continue". Dove spesso gli stranieri si divertono, sì, ma per la cucina preferiscono locali dove andare a colpo sicuro e che si sono fatti la reputazione di nuovi classici. Apprezzati da tempo, sono sempre alla moda e uniscono buona cucina, clientela à la page e prezzi corretti. Differenti dai classici-classici come Daniel o Alain Ducasse perchè più creativi e meno impegnativi. Alcuni poi sono di apertura recente, ma grazie alla fama dei cuochi vengono considerati già degli instant classic, destinati a caratterizzare la tavola di New York per il futuro.

Aperitivi con vista

Il vero new style? I tipici aperitivi e la cena con vista. Perchè New York va gustata dall'alto. Altrimenti, a che servono tutti i suoi grattacieli? Lo spettacolo mozzafiato del momento è quello di Central Park visto dal quarantesimo piano delle nuove torri Time Warner, a Columbus Circle. Per ammirarlo bisogna salire al bar di un albergo, il Mandarin Oriental (entrata dalla 60esima strada). La reception si trova al 35esimo piano, con la Lounge, il MObar e il ristorante giapponese Asiate. Per un assaggio di aperitivi basta la prima, accomodatevi il più vicino possibile alla vetrata. Evitate il secondo perchè non ha finestre.

Subito dopo, in un'ipotetica classifica delle viste più inebrianti di New York, c'è il Ge (General Electric) Building, il grattacielo più alto del Rockefeller Center. Si sale al sessantaseiesimo piano di questo gioiello degli anni Trenta, con l'ascensore express che arriva direttamente alla leggendaria Rainbow Room, senza mai fermarsi. Dal 1999 il locale, che occupa gli ultimi due piani del palazzo, è gestito dalla famiglia Cipriani. Il settantenne Arrigo e il figlio Giuseppe hanno trasferito in cima alla capitale del mondo la stessa raffinatezza ovattata dell'Harry's Bar di Venezia, con aperitivi famosi come il Bellini, piatti altrettanto noti come il carpaccio e le altre leccornie. Il massimo è arrivare a cavallo del tramonto, per ammirare la città nel passaggio fra il giorno e la notte. Non c'è bisogno di cenare, basta fermarsi a uno dei tavoli riservati all'aperitivo, o al bancone del bar. La vetrata dà a sud: di fronte svetta l'Empire, dietro in lontananza i grattacieli di Wall Street. Provate a curiosare anche sul lato nord, per vedere Central Park, o verso ovest sul fiume Hudson.

A cinque isolati dal Rockefeller Center, sulla 55esima Strada all'angolo con la Quinta Avenue, c'è poi l'hotel Peninsula, che proprio in questo 2005 festeggia cent'anni. Il suo Pen-Top Bar è molto più basso della Rainbow Room (sta al 23esimo piano), ma in compenso offre anche due terrazze all'aperto. E il colpo d'occhio sulla Fifth Avenue lascia senza respiro, con il palazzo Playboy a nord e i grattacieli Sony e Citicorp a est. Occhio ai prezzi: per un Apple Martini si pagano venti dollari, ma volendo se ne possono scialacquare 75 per un cocktail Dolce Far Niente. Dal piano terra si raggiunge l'ascensore alla fine di un corridoio sulla destra dell'albergo, con accesso anche diretto dalla strada.

Infine, provate i nuovi locali concentrati al quarto piano delle torri Time Warner. Non così in alto come il 35º del Mandarin Oriental, ma con vista egualmente piacevole. Uno accanto all'altro ci sono il bar Stone Rose, sempre pieno di attraenti fanciulle, il ristorante giapponese Masa, la V Steakhouse del celebre chef Jean-George Vongerichten (a New York i grandi cuochi sono star riverite) e il "fusion" Per Se di Thomas Keller.

Quello con il miglior rapporto qualità-prezzo è il Cafè Gray, che prende il nome dal cuoco Gray Kuntz. Il menù è «francese rustico», consigliabili il vitel tonnato e le costatine di manzo (short ribs) marinate in salsa dolce mango-tamarindo. Due consigli: per godere del panorama meglio andarci di giorno, perchè col buio la luce della cucina in vista si riflette sui vetri creando un effetto specchio; e prenotate in anticipo.

In fatto di di prenotazioni, i ristoranti newyorkesi possono causare dolori. Di venerdì e sabato è quasi impossibile trovar posto nei locali buoni o "trendy" (le due caratteristiche non coincidono, occhio alla mania americana per le "novità"). Fate quindi qualche telefonata qualche settimana prima di partire, se avete una meta irrinunciabile.

Italiani di successo e bistrot

Il New York Times Magazine ha pubblicato a maggio un articolo di due pagine sui trucchi per ottenere un tavolo da Babbo. Il suo chef e padrone, l'italoamericano Mario Batali, è stato consacrato quest'anno miglior cuoco degli Stati Uniti dalla Beard Foundation, l'accademia gastronomica più prestigiosa degli Usa: è quindi d'obbligo una visita nel suo locale, vicino a Washington Square, con un assaggio alle lingue di agnello in vinaigrette di tartufo nero, ai ravioli, alle crostate di pinoli e semifreddi di pistacchio e cioccolato. Aperto nel 1998, Babbo è ormai un classico, ma anche un posto alla moda. Bisogna prenotare un mese prima.

Più alla mano Beppe di Cesare Casella, nel raffinato quartiere di Gramercy Park. Gli antipasti di crostini, cozze o salsicce (da maiali allevati nella sua fattoria americana), le paste (pinci, norcino, pepolino), e poi branzini, quaglie, bistecche: tutto riporta alla ricchezza della trattoria toscana. Casella proprio il mese scorso ha aperto il ristorante Maremma, sulla Decima Strada West, che propone un mix di cucina toscana e texana.

Il Pastis resta il locale-principe del quartiere più "in" per le sere di Manhattan: il Meatpacking district. L'antesignano Keith McNally ebbe il coraggio di aprirlo quando la zona era ancora piena di macellerie all'ingrosso, depositi e magazzini. E questa brasserie francese è sempre affollata di belle donne furibonde perchè sono appena inciampate con i loro tacchi sul porfido irregolare della Nona Avenue. Non si va al Pastis per mangiare sopraffino, ma per godere dell'atmosfera, vedere e farsi vedere.

Stesso discorso per il ristorante-gemello Balthazar, a Soho: inossidabile dai tempi del boom della net-economy e di "Sex and the City", la dolce vita degli anni Zero la trovate qui. "E' il modo più veloce per andare a Parigi ora che non c'è più il Concorde", cameriere belle come attrici, qualcuna ce la fa.

Ma, tornando al quartiere Meatpacking, da raccomandare è Florent su Gansevoort Street, strada che conserva l'antico nome olandese: aperto 24 ore su 24 da un francese vero, ci trovate meno puzza sotto il naso e prezzi eccellenti. Atmosfera da bistrot più che da brasserie, menù franco-americano, artisti e intellettuali si mischiano a miliardari travestiti da barboni, e alle modelle che vi si rifugiano per un boccone alle quattro di notte dopo la discoteca. Hamburgers, minestre di cipolla, lumache, budini neri e insalate niçoise servite su tavoli di fòrmica.

Se invece ricercate lo chic asiatico fusion, due isolati più a nord c'è lo Spice Market, aperto nel 2004 da Vongerichten. E' uno spazio enorme, a due piani, simile alla fumeria d'oppio dove finì Robert De Niro in "C'era una volta in America". Involtini d'uovo ai funghi sgocciolanti salsa galangal, cozze dolci al vapore con basilico thailandese e succo di cocco, fino a temibili ali di pollo fritte con salsa di lime e pesce, più fette di mango: l'estremo oriente sarà vostro. Evitate il tonno con la tapioca, la pescatrice (monkfish) glassata con tamarindo ghiacciato e altre stranezze.

Per un più classico francovietnamita converrà dirigersi a NoHo (Nord di Houston Street), nel vecchio ma sempre valido Indochine. Qui il cuoco cambogiano Huy Chi Le vi servirà involtini primavera caldi e croccanti, con tutti gli ingredienti interni ben identificabili: funghi, pasta, carne di maiale, carote. Da provare anche la sogliola avvolta in una foglia di banano, con ricco curry al latte di cocco. E ci si può comunque sempre rifugiare in un filet mignon. Confini est-ovest infranti anche nella scelta dei dolci: si va dalla banana arrosto con riso alle torte francesi al limone. Un piccolo segreto: fino alle sette di sera menù pre-teatro a 25 dollari.

Pranzare al museo

Anche il coté culturale dei soggiorni newyorkesi va accompagnato da cibo di qualità. E se la "cafeteria" (mensa) sotterranea del Metropolitan Museum è trascurabile, interessante risulta invece l'offerta proposta dal MoMA riaperto otto mesi fa. Il museo ha ben tre ristoranti al proprio interno.
Al piano terra c'è il Modern, locale di lusso aperto anche a clienti che non visitano il museo, i quali hanno un ingresso separato direttamente dalla strada dopo l'orario di chiusura. Il giapponese Yoshio Taniguchi, progettista del nuovo MoMA, ha conservato la disposizione originale dall'architetto Philip Johnson nel '53: sono affascinanti le finestrone del ristorante a tutta altezza sul Giardino delle sculture con i Rodin e i Giacometti.
Il Cafe 2, al secondo piano, è una trattoria italiana: clima informale, prezzi più bassi, bar dove si può ordinare un veloce espresso al banco. Al quinto piano, infine, c'è la Terrace, caffè più intimo con selezione di dolci, cioccolato, sandwich e vino, cocktail, caffè e the.

Molti visitatori del MoMA escono dal retro, sulla 54esima Strada, per andare da Il Gattopardo di Gianfranco Sorrentino, che negli anni '90 gestiva il ristorante interno del museo, e per gustarne le polpette di carne, i carciofi alla parmigiana e la mozzarella affumicata.

Ottimo anche il Café Sabarsky ospitato all'interno della Neue Galerie, museo austro-tedesco situato proprio a metà strada fra il Guggenheim e il Met: un pezzo di Vienna sulla Quinta Avenue. Ma siamo in America, e allora fra i classici occorre inserire il tempio dell'hamburger (Corner Bistro, piccolo e buio locale del West Village che li serve su piatti di carta) e quello della bistecca: Maloney & Porcelli, enorme steakhouse su due piani dove, viste le dimensioni (e i prezzi) delle portate conviene arrivare con lo stomaco ben vuoto.

Pizze e celebrity spotting

Tutti ci vergogniamo ad ammetterlo, ma New York è il posto ideale per incontrare un vip che ci sta mangiando accanto. Ciò può avvenire in tutti i posti che vi abbiamo segnalato, ma per una chance in più provate al Bar Pitti, nel Village. Ai tavoli di legno apparecchiati da Giovanni siedono spesso attori, registi, musicisti. Se li riconoscete, però, siate newyorkesi fino in fondo: fate finta di niente, reprimete ogni richiesta di autografo o foto. E intanto, apprezzate le melanzane alla parmigiana e il resto del menù scritto sulle lavagne.

Gli altri classici del "celebrity spotting" sono la Mercer Kitchen e il Cipriani Downtown, entrambi a Soho. A qualsiasi ora del giorno a fino a tarda sera è possibile imbattersi in Nicole Kidman o in Jack Nicholson. Particolarmente ambiti, da Cipriani, i tavoli all'aperto durante la bella stagione.

A New York si possono mangiare buone pizze. Quelle di John's Pizzeria sono ormai un classico, specialmente nel ristorante di Bleecker Street (uno dei tre, a Manhattan). Numerose sono anche le location di Serafina. Quella all'angolo di Broadway con la 55esima Strada è la quinta, e l'ultima aperta. Appena sbarcata a New York è anche la catena delle pizzerie Piola, nate a Treviso nel 1987 e poi dilagate in tutta l'America Latina. Le pizze hanno i nomi delle città italiane, con innumerevoli combinazioni di ingredienti.

Uno dei riti iperclassici di New York è il brunch. Nell'Upper East Side andate all'Atlantic Grill, grossa sala sulla Terza avenue che offre pesce meravigliosamente fresco ma lunghe code per gli sventurati che nonprenotano. Grande qualità a prezzo fisso anche al ristorante Riingo.

Il segreto ovunque, per gli amanti del brunch improvvisato, è arrivare sul presto (verso le 11). Nell'Upper West Side c'è Barney Greengrass, un negozio di pesce e storione aperto 97 anni fa che si è ampliato in ristorante (ma non per cena). I tavoli di alluminio conferiscono al posto un delizioso squallore fané anni '50, da macchina del tempo. Però la qualità è buona.

Se fa bel tempo, poi, è consigliabile avventurarsi nella Boat House di Central park, all'estremità est del lago con le barche. Posto romantico, oltre alle tradizionali uova e bacon offre insalate, gazpacho di gamberi, toast di mirtilli e mascarpone, nonchè frittate con salmone affumicato, spinaci e feta. Chi si trova downtown, invece, vada alla Blue Ribbon Bakery del Greenwich Village: non si può prenotare se si è in meno di cinque, ma il pasticcio di gamberi e pancetta vale il rischio di un'attesa. E l'arredamento è di gran gusto.

Mauro Suttora

Marilyn Monroe

Oggi, mercoledi' 24 agosto 2005

Davvero Marilyn Monroe, sex symbol per milioni di uomini, era bisessuale?

Le trascrizioni delle sue sedute dallo psicanalista, rese note dall'ex magistrato di Los Angeles John Miner, rivelano che l'attrice ebbe un'avventura lesbica con Joan Crawford. Possibile che preferisse le donne?

"No, Marilyn non preferiva le donne", risponde Miner. "Lo dimostra tutta la sua vita, i suoi numerosi mariti, i numerosi amanti. Ma l'avventura di una sola notte con Joan Crawford, che aveva quasi vent'anni più di lei, effettivamente ebbe luogo. Io, come pubblico ministero della contea di Los Angeles, ebbi il compito di indagare sulla sua morte misteriosa a 36 anni. La trovammo nuda, sul suo letto a testa in giù. Presenziai all'autopsia, e il risultato fu che a ucciderla era stata una fortissima dose di barbiturici.

Con l'avanzare delle indagini conobbi il dottor Ralph Greenson, lo psicanalista che aveva in cura Marilyn. E lui mi fece ascoltare le registrazioni di tutte le sedute di terapia cui l'attrice si era sottoposta, aprendo la propria anima come a nessun altro. Le trascrissi fedelmente, quasi parola per parola, a un'unica condizione: che avrei potuto rivelarne il contenuto soltanto dopo la morte del dottor Greenson, il quale altrimenti avrebbe violato il segreto professionale cui era obbligato.

Ascoltando quelle ore e ore di confessioni intime, ma soprattutto le registrazioni delle ultime sedute avvenute pochi giorni prima della morte, mi convinsi che Marilyn non poteva essersi suicidata: era troppa la voglia di vivere che traspariva ancora dalle sue parole. Voleva studiare Shakespeare e trasformare in film molte delle sue commedie e tragedie. Quanto alla notte d'amore con la Crawford, che era di notorie tendenze bisessuali, Marilyn ne fa un resoconto dettagliato al suo dottore. Dice che quando arrivo' all'orgasmo la Crawford fu come un vulcano, si mise a urlare dal piacere. E che perciò, incontrandola di nuovo, le chiese di ripetere la piacevolissima esperienza. Ma Marilyn rifiutò, le rispose che le donne non le piacevano molto, e la Crawford si indispettì.

Lo stesso episodio è stato riportato pure nella biografia della Monroe scritta da Matthew Smith due anni fa. Ma c'è un particolare curioso: anche Brigitte Bardot nella propria autobiografia scrive che nel '52 Marilyn la «sedusse» nel bagno delle donne dopo un ricevimento della regina Elisabetta.

Monday, August 08, 2005

Nicole Kidman

Oggi, mercoledi 10 agosto 2005

Sopravvivere senza Cruise. La Kidman racconta la grande crisi

DOPO TOM VOLEVO SOLO IL PIGIAMA
Nel 2001 l'attore si separo' dalla splendida Nicole. E lei entro' nel tunnel della depressione: "Vivevo in vestaglia anche quando accompagnavo i figli a scuola". Poi s'è tuffata nel lavoro...

di Mauro Suttora

New York (Stati Uniti)
La donna più bella del mondo non trova un uomo, è sola e racconta la sua sofferenza. «Dopo la separazione con Tom Cruise nel 2001», confessa Nicole Kidman, «per mesi e mesi sono rimasta in pigiama. Vestita così accompagnavo in auto i miei figli a scuola e cucinavo a casa. Non avevo voglia di vestirmi, neanche di darmi una sistemata ai capelli e di truccarmi. Mi chiedevo: "A chi interessa?"

Negli ultimi quattro anni l'attrice è stata legata sentimentalmente al musicista di colore Lenny Kravitz e al miliardario Steve Bing (padre del figlio di Elizabeth Hurley). Ha avuto un'avventura con il cantante inglese Robbie Williams. Recentemente ha frequentato il magnate francese della moda François Pinault. Ma alla fine tutti questi rapporti non sono approdati a nulla: non era vero amore. Anche perchè Nicole sembra aver conferito ai suoi due figli adottivi, Isabella, 12, e Connor, 10, un diritto di veto su ogni proprio nuovo fidanzato: «Dico sempre che siamo in tre a decidere, lui deve piacere anche a loro». E per la verità non è finita qui: il povero aspirante signor Kidman, infatti, deve passare l'esame anche con padre, madre e sorella di Nicole, tutti preoccupati che dopo l'abbandono di Cruise lei non venga più ferita. «Lo so, sembra un po' stupido visto che ho 38 anni», ammette lei, «ma mio padre dice che non vuole più passare attraverso un periodo simile».

Insomma, con l'intera famiglia Kidman traumatizzata, è veramente difficile che la bionda diva possa lasciarsi andare con un uomo. E così si è tuffata nel lavoro. Negli ultimi due anni ha recitato in ben otto film, e altri quattro sono previsti per il 2005. In questi giorni è a New York, dove interpreta la fotografa Diane Arbus in Fur (Pelliccia). Dopo gli spot per Chanel, farà pubblicità agli orologi Omega. Ma tutta questa bulimia professionale non le ha ridotto lo stress: ha diminuito soltanto il tempo a disposizione per i figli. Perciò Nicole avverte che sta per mollare anche su questo fronte: «Presto sparirò, non mi vedrete per molto tempo. Mi prenderò uno, due anni di vacanza, non so: certo non darò il calendario ai giornalisti. Ma ce ne vorrà prima che torni sul set». Quindi, dopo le maternità di Julia Roberts e Gwyneth Paltrow, che le hanno fatte scomparire dallo schermo, anche l'altra superdiva contemporanea privilegierà la vita privata. Con la differenza che Julia e Gwyneth un marito ce l'hanno, mentre Nicole è sola come un cane.

Ormai alla fragile attrice australiana sembra stiano per saltare i nervi. Un mese fa si è ridotta a implorare, scherzando ma non troppo: «Alla persona che è destinata a venire a cercarmi e a trovarmi vorrei dire: fallo, ma fallo presto...» Non sono settimane facili, queste, per Nicole. Vede il suo ex Tom che dichiara entusiasta a mari e monti il proprio nuovo amore per l'attrice Katie Holmes, mentre lei è diventata sempre più sospettosa: «Ogni volta non riesco a non chiedermi quale sia il vero scopo degli uomini che mi corteggiano: vogliono solo possedermi, vogliono finire sui giornali? Ho bisogno di una persona normale, non interessata a queste cose».

Ora Nicole ha comprato una casa vicinissima a quella di Tom a Beverly Hills (Los Angeles): per il bene dei figli, i quali così non dovranno viaggiare per passare da una custodia all'altra. E' questo, forse, l'unico successo di questi anni: nonostante le ruggini del divorzio, la Kidman e Cruise hanno sempre messo i figli al primo posto, non facendo pagar loro il prezzo della propria separazione, o peggio, usandoli contro l'ex coniuge.

Mauro Suttora

Giuseppe Cipriani, successo a New York

Smentite e rivelazioni di Giuseppe Cipriani, il re della dolce vita newyorkese

IO E SIMONA VENTURA? 
BUGIE, AMO UNA MODELLA DI 29 ANNI

"Simona è solo un'amica, ci siamo incontrati al mare, tutto qui". L'irresistibile ascesa dell'ex genero di Gardini, ora fidanzato con Carolina Parsons, socio di Briatore e proprietario dei ristoranti più alla moda di Manhattan

dal corrispondente a New York Mauro Suttora

Oggi, 10 agosto 2005

Essere figli di un padre famoso è sempre un problema. Che raddoppia quando si sceglie il suo stesso lavoro. E triplica quando si eredita la sua azienda. A meno che non si riesca a superarlo.

Giuseppe Cipriani ci sta riuscendo. Il figlio del mitico Arrigo, proprietario dell'Harry's Bar di Venezia sbarcato vent'anni fa a New York, è diventato il re delle notti di Manhattan grazie ai ben otto ristoranti e sale di gala aperti negli ultimi anni. 

E' stato addirittura coniato un nuovo aggettivo, «ciprianesque», con cui gli americani invidiosi definiscono l'atmosfera di elegante dolce vita che si respira nei suoi locali. 
«Ormai posso stare tranquillo, qui negli Stati Uniti c'è Giuseppe», sorride soddisfatto papà Arrigo, 72 anni, carattere non facile.

Anche Giuseppe, 40 anni, è scontroso. Non ama i giornalisti, custodisce con cura la propria vita privata. Figurarsi quindi dieci giorni fa, quando qualche rotocalco italiano lo ha spacciato come il nuovo uomo di Simona Ventura. 
Non si è preoccupato neppure di smentire. Per lui lo fa la sua pierre di New York, Stefania Girombelli: «Bufala totale, Giuseppe è felicemente fidanzato da quattro anni con una modella cilena qui a New York». 

Understatement: Carolina Parsons, 29 anni, è «la» modella del Cile, famosa nel suo Paese quanto Valeria Mazza lo è nella vicina Argentina. Amiche e vicine di casa, le due bellezze sudamericane, e ad ogni Capodanno ospiti della magione Cipriani a Punta Del Este, la Portofino dell'Uruguay.

Giuseppe Cipriani si muove con disinvoltura e familiarità nel jet set internazionale. Pochi mesi fa lui e Carolina erano invitati al matrimonio americano del secolo (per ora): quello di Donald Trump in Florida con la sua Melania Knauss, modella slovena pure lei amica di Carolina. 

Ma è rimasto in ottimi rapporti anche con Ivana, ex di Trump, ed è gran compare dell'ex di Ivana, il principe Roffredo Gaetani Lovatelli d'Aragona, il quale a sua volta era l'uomo di fiducia di Gianni Agnelli a New York. E tutto questo giro vorticoso di uomini ricchissimi e donne bellissime si ritrova a ogni pranzo nel ristorante Cipriani sulla Quinta Avenue, davanti a Central Park, e ogni sera in quello di Soho, a West Broadway.

Lì si celebra il trionfo del Bellini, l'aperitivo prosecco/succo di pesca che è il simbolo dell'Harry's Bar di Venezia: inventato da nonno Giuseppe nel 1931, e assaporato da clienti come Ernest Hemingway, Truman Capote, Orson Welles e Peggy Guggenheim. 

Oggi le celebrità ai tavoli newyorkesi si chiamano Roberto Cavalli e Naomi Campbell, Leonardo DiCaprio e Nicole Kidman: tutti sono ghiotti di carpaccio e tartare di tonno. 
«Donne con scollature troppo basse e uomini col portafogli troppo grosso», brontola qualche vecchio americano bigotto dell'Upper East Side, di quelli che corrono a dormire alle dieci, insinuando che le prime siano quasi tutte prezzolate e che per i secondi si tratti di un infernale miscuglio fra protettori, spacciatori e mafiosi. 

Ma ormai lo stile stigmatizzato come «eurotrash» (spazzatura europea) dalle mummie benpensanti ha avuto la meglio, e ha conquistato le nuove generazioni del glamour statunitense. 
Un giorno sì e uno no «Page Six», la rubrica gossip più famosa d'America, pubblica l'elenco dei personaggi apparsi la sera prima da Cipriani Downtown.

Poi ci sono le altre gemme dell'impero di famiglia, che ormai fattura sui 150 milioni di euro all'anno. In primis la Rainbow Room, mitico ristorante con salone per feste al 65esimo piano del grattacielo più alto del Rockefeller Center, con la migliore vista a 360 gradi sui tramonti di Manhattan.

Costruita negli anni Trenta e incastonata da tempo in tutte le guide turistiche, la Rainbow Room è stata conquistata dai Cipriani nel '99. Anche qui, per vendicarsi, qualche geloso newyorkese dell'establishment Wasp (White Anglo Saxon Protestant) ha messo in giro la voce che, per piegare i potenti sindacati dei camerieri, Giuseppe avrebbe fatto intervenire addirittura Cosa Nostra.

Di che cosa può essere accusato un italiano di successo negli Stati Uniti, se non appunto di essere un novello Soprano, affiliato al clan Gotti? 
La verità è che la corporazione dei camerieri in America è così esosa che quasi tutti i ristoranti che impiegavano iscritti al sindacato hanno dovuto chiudere (compreso il più famoso di tutti, "Le Cirque" del lucchese Sirio Maccioni).

Stesso destino ha rischiato il Cipriani della Quinta Avenue, salvato in extremis poche settimane fa da un accordo che ha abbassato il costo del lavoro. Ma ormai la maggioranza dei ristoranti newyorkesi (una vera e propria industria, la maggiore della città) per sopravvivere è costretta ad arruolare sudamericani clandestini e studenti che campano di sole mance.

«Altro che dolce vita, io lavoro dalle nove del mattino alle due di notte», risponde Giuseppe Cipriani a chi lo definisce un playboy. Eppure quegli abbracci e baci alla Supersimo nazionale a Porto Cervo sono stati fotografati, non può negarli.

«Solo amici», tronca lui. Che si trovava in Costa Smeralda per un buon motivo, d'altronde: da due anni la cucina del Billionaire di Flavio Briatore è assicurata da Cipriani. Solo luglio e agosto, toccata e fuga, prezzi a livelli newyorkesi: cento euro a testa per il menù fisso al grill della piscina, ancora di più nel ristorante. 

Ma il successo maggiore, attualmente, è quello dell'altra recente joint-venture con Briatore: il ristorante di Londra, che sforna 400 coperti al giorno e che è stato così lodato dal critico del quotidiano Independent: «Dalla più antica città commerciale del mondo (Venezia) ci è giunto l'export che avevano sempre aspettato». 

Meglio così. Perchè quando una rubrica gastronomica newyorkese aveva invece azzardato una stroncatura, i Cipriani hanno ribattuto: «La prossima volta quel giornalista si levi il preservativo dalla bocca...»

«Ma ormai gli orizzonti di Giuseppe si stanno ampliando oltre la ristorazione», spiega il suo amico Paolo Zampolli, che lavora per Trump, «e grazie al suo brillante marketing si espandono nel settore immobiliare». 

Cipriani, alleato al potente gruppo ebraico Witkoff, costruirà sul fiume Hudson il salone per ricevimenti più grande di New York. E nella nuova sala di Wall Street (un'ex banca) ospita una serie di concerti privati di prestigio, da Rod Stewart a Stevie Wonder, da Sheryl Crow ad Alicia Keys. Prezzo per un tavolo: centomila dollari.

Giuseppe Cipriani ha due figli avuti dalla ex moglie Eleonora Gardini, figlia di Raul, il padrone del gruppo Ferruzzi-Montedison suicidatosi nel '93: Ignazio, 17 anni, e Maggio, 14. 

Quel matrimonio è finito. Ma l'ambitissimo cuore di Giuseppe sembra ancora saldamente occupato dalla bella Carolina cilena. La caccia al misterioso nuovo amore americano di Simona Ventura (sempre che ce ne sia mai stato uno) può continuare.
Mauro Suttora

Wednesday, August 03, 2005

Marchio "America"

mercoledi 3 agosto 2005

IL MARCHIO "AMERICA"
Stati Uniti in ribasso nella classifica dei "brand nazionali". Consigli per la scalata: tre parole e un manuale

New York. Non ha fatto notizia, perchè su di lei il consenso è stato unanime. Karen Hughes, la collaboratrice più fidata di George W. Bush dopo Karl Rove, ha ricevuto la settimana scorsa il via libera del Senato all'incarico di sottosegretario di stato per la “diplomazia pubblica”. Un posto delicato e importante: toccherà a lei promuovere l’immagine degli Stati Uniti nel mondo, e combattere quella “battaglia delle idee” che appare sempre più cruciale per sconfiggere i terroristi islamici. Tutti d’accordo quindi sul nome di questa ex giornalista texana, alla quale è stato risparmiato il calvario di John Bolton e quello annunciato per John Roberts, nominato giudice supremo.

Quanto sia impegnativo l’incarico della Hughes lo conferma il risultato appena annunciato del secondo rapporto Anholt-Gmi sul valore dei “marchi nazionali”. Il “brand America” scivola dal quarto all’undicesimo posto nella percezione dei diecimila sondaggiati nei dieci Paesi più ricchi del mondo (lusinghiero sesto posto per l’Italia dopo Australia, Canada, Svizzera, Gran Bretagna e Svezia). Gli Usa primeggiano ancora nell’economia: qualità dei prodotti, investimenti. Risultati misti nel parametro “people”: quinti come “hireability” (americani sempre assai richiesti nelle assunzioni), ma tredicesimi nell’ospitalità: si pagano il giro di vite sui visti e le code per i nuovi controlli alle frontiere. E quando al campione internazionale è stato chiesto qual è il grado di fiducia nei governi sulla politica estera, gli Stati Uniti sono finiti in coda a tutte le nazioni occidentali: diciannovesimi, solo un po’ meglio di Cina e Russia.

“L’impopolarita’ della politica estera americana non è certo un fenomeno nuovo”, spiega il sondaggista Simon Anholt, “basti pensare a Corea e Vietnam. Ora occorre vedere se l’Iraq avrà un effetto cumulativo rispetto alle ‘antipatie’ consolidate nel passato, o se rientra nei ricorrenti alti e bassi dell’antiamericanismo. Perchè i ‘marchi nazionali’ funzionano esattamente come quelli commerciali: sono il portato di opinioni che si stratificano negli anni e addirittura nei decenni. E per cambiare queste percezioni occorrono tempi lunghi”.

“How to outrecruit Osama?” (Come reclutare meglio di Osama?), è la domanda provocatoria con cui commenta questi risultati Keith Reinhard, presidente di Bda (Business for democratic action), organismo bipartisan di cui fanno parte dirigenti di giganti pubblicitari come Tbwa e Bbdo, di multinazionali come McDonald’s, e studiosi di destra come Helle Dale (Heritage Foundation) e di sinistra come Joseph Nye (Harvard, autore di “Soft Power”) o Anne-Marie Slaughter (Princeton). “L’aumento dell’antiamericanismo”, dice Reinhard, “ci deve allarmare non solo per i nostri business e prodotti esportati all’estero, ma anche per il futuro delle nuove generazioni di americani. Il risentimento nei nostri confronti è alimentato dalla percezione che siamo arroganti come popolo, e che la nostra cultura - cinema, musica, tv - sia diventata troppo pervasiva. Nelle risposte al sondaggio, per esempio, spesso gli stranieri ci dipingono come ‘ambiziosi’. Il che a noi sembra un complimento, mentre in molte culture ha una connotazione negativa”.

“Il mio consiglio a Karen Hughes”, dice Anholt, “è quello di aggiungere ogni volta tre magiche paroline alle dichiarazioni degli uomini di governo americani: ‘If you like’, se volete. Perchè oggi la brand America ha bisogno di essere rebranded, ma questa non può essere un’operazione cosmetica: l’intero ‘prodotto’ necessita di una messa a punto. Quindi: vorremmo promuovere la democrazia in Medio Oriente, se volete...»

"Non esprimete giudizi perentori"

Poichè la praticità e’ un’altra caratteristica americana, il Bda ha pubblicato un libretto quasi commovente, destinato ai due milioni di statunitensi impiegati all’estero, ai sei milioni che ci vanno ogni anno per turismo, e ai 200 mila studenti americani in giro per il mondo. Vuole insegnare agli americani come rendersi simpatici, per tornare a farsi amare: “Prima di partire studiate la storia, la lingua, la cultura locale. Quando siete arrivati ascoltate, odorate, guardate, gustate, toccate... Non esprimete giudizi perentori, non date tutto per scontato... Prendete appunti, ricordatevi sempre che su cento persone al mondo solo cinque sono americani. Non paragonate sempre tutto agli Stati Uniti: non siete più nel Kansas... Se entrate in un negozio e nessuno si avvicina subito per chiedervi di cosa avete bisogno, non consideratela una maleducazione...” Normali consigli da guida turistica. Ma anche un’arma per Karen Hughes.

Mauro Suttora