Wednesday, January 22, 2003

Attori e guerra in Iraq

Presidente, Hollywood non vuole questo brutto film di guerra

I divi del cinema dicono tanti "no" al conflitto contro l' Iraq

"Appoggio la lotta al terrorismo", spiega Whoopi Goldberg, "ma prima bisogna sconfiggere Al Qaeda". "Agiamo solo su mandato dell'Onu", afferma Martin Sheen. E se gli americani sono convinti che Saddam vada spodestato, il dubbio è sui mezzi da usare. Con la domanda di sempre: un intervento per la libertà o per il petrolio ?

dal nostro corrispondente Mauro Suttora

New York (Stati Uniti), 22 gennaio 2003

Barbra Streisand e Robert Redford sono contrari. Clint Eastwood e Tom Cruise sono a favore. E con loro tutta Hollywood, tutta l' America è divisa. La guerra contro l' Iraq, fortemente voluta da George Bush, non scalda gli animi. Dove è finita l' unanimità con cui quindici mesi fa gli Stati Uniti occuparono l'Afghanistan?

I sondaggi lo ripetono: la grande maggioranza dei cittadini statunitensi ha fiducia in Bush, ed è convinta che al dittatore iracheno Saddam Hussein vada data una lezione. Sul come darla, però, c' è divergenza di opinioni. Anche e soprattutto tra i vip. "Dobbiamo agire soltanto su mandato Onu, come per la guerra del Golfo nel 1991", sostiene l' attore Martin Sheen, che impersona il presidente in una serie Tv, West Wing. Per un finto presidente pacifista, eccone un altro militarista: Harrison Ford, che si rifiuta di firmare gli appelli per la pace.

Il 67 per cento degli statunitensi è favorevole all' invasione dell' Iraq, ma la percentuale cala al 54 quando si fa presente che molti soldati americani potrebbero non tornare. E la maggioranza diventa minoranza di fronte alla tentazione di agire senza aspettare "le lungaggini di quei burocrati delle Nazioni Unite", come dice il quotidiano New York Post.

Il falco dei falchi di Hollywood, questa volta, non è Arnold Schwarzenegger, l' unico repubblicano della famiglia Kennedy. "Terminator" ha dichiarato: "Mi devono ancora convincere che invadere l' Iraq sia l' unica soluzione". Ammansitosi il muscoloso marito di Maria Shriver Kennedy, il divo più bellicoso è Harvey Keitel. L' ex marine ha riproposto la leva: "Non penso sia una buona idea avere forze armate composte solo da volontari. Tutti dovrebbero fare il servizio militare. Ogni giovane deve rendersi conto che talvolta è necessario combattere per difendere le libertà che ci stanno a cuore".

Tra i pacifisti, il più cattivo è Harry Belafonte. Il cantante ha attaccato il segretario di Stato Colin Powell, di colore come lui: "Powell è come uno schiavo della piantagione ammesso dal padrone (il presidente Bush, ndr) a frequentare il suo palazzo, e che ora, per riconoscenza, ripete a pappagallo le sue opinioni". I dubbi di Hollywood riflettono quelli del Paese. Un parallelismo non casuale per un popolo abituato a guardare la politica come una scena sul grande schermo. Così, il direttore della rivista di cinema Variety spiega perché l' opinione pubblica è fredda sull' invasione dell' Iraq: "Al pubblico piacciono i film lineari, senza rimaneggiamenti dell' ultimo momento. Invece, a un certo punto Osama Bin Laden è sparito e Saddam lo ha sostituito nella parte del cattivo".

Ecco, quindi, il commento di Whoopi Goldberg: "Appoggio la guerra contro i terroristi, ma vorrei che prima si finisse il lavoro con Al Qaeda. Poi si potrà portare la democrazia in Iraq con i carri armati". Un anno fa, all' indomani dell' 11 settembre, quasi nessuno a Hollywood osava schierarsi contro la politica estera americana. Anche oggi, però, chi critica Bush qualcosa rischia. I dubbi, infatti, riguardano i mezzi più che il fine, che per l' americano medio si riassume in "Kill Saddam".

Ecco perché molte star, per non diventare impopolari, evitano di prendere posizione: "Sono solo un' attrice", si schermisce Gwyneth Paltrow, "non vedo perché si debba sapere la mia opinione". Per farsi un' opinione, viceversa, c' è chi è andato a Baghdad. Come l' attore Sean Penn, che però, tornato nel continente americano per passare le vacanze di Natale in un lussuoso resort messicano, è stato preso in giro: "Sean, come sta il tuo amico Saddam ?". Penn non s' è limitato al turismo politico: in ottobre ha sborsato 56 mila dollari (circa 56 mila euro) per pagarsi una pagina di pubblicità pacifista sul Washington Post, in cui ha sostenuto che "un attacco preventivo contro una nazione sovrana provocherebbe vergogna e orrore".

Anche Robin Williams è partito per l'Asia. La sua meta è stata l'Afghanistan, per far divertire le truppe americane, sulle orme di John Wayne, ai tempi del Vietnam. E per quanto Warren Beatty consideri assurdo "che chi esprime riserve venga liquidato come non patriottico", silenziosi rimangono i giovani pesi massimi: Julia Roberts, Leonardo DiCaprio, Jennifer Lopez, Ben Affleck, Sandra Bullock o Cameron Diaz.

Pure Bruce Willis, amico di Bush, questa volta tace. Insomma, la gente dello spettacolo sa di muoversi su un terreno minato, e che il radicalismo non paga. Lo sanno il regista Oliver Stone e l' attore Alec Baldwin, che hanno visto le carriere danneggiate dalle sparate anti Bush. O Jessica Lange, che del presidente, chissà perché, ha detto: "Lo odio". O Eric Roberts, il fratello scapestrato di Julia, che si è lanciato in congetture da delirio: "Bush è un fascista e cospira con Osama per distruggere l' economia". Woody Harrelson, sul quotidiano inglese Guardian, ha stigmatizzato "la guerra razzista e imperialista condotta dai guerrafondai che si sono rubati la Casa Bianca". Debole in geografia la Streisand, che ha definito iraniano Saddam.

Per reperire opinioni più meditate, gli americani devono rivolgersi ai giornali. Scalpore ha suscitato la copertina del supplemento domenicale del New York Times dal titolo "Impero americano: facciamoci l' abitudine". Per la prima volta un quotidiano "di sinistra" prendeva atto che ormai gli Stati Uniti sono un impero come quello romano, senza rivali al mondo, e che quindi tocca a Washington mantenere pace e ordine, a costo di apparire imperialisti. Altre verità sulle motivazioni di Bush sono troppo scottanti per poterle pubblicare sulla stampa americana. E così c' è chi si è rivolto all' estero, ai giornali di Londra, patria del "compagno di battaglia" Tony Blair. Come l' anonimo alto funzionario del Pentagono che ammette, sul Sunday Express, come il motivo più pressante della campagna d' Iraq sia la necessità americana di conservare la leadership mondiale: "È reale la minaccia che Saddam disponga di armi di distruzione di massa e le usi. Ci sono, quindi, motivi fondati per affrontarlo. Ma alcuni sono importanti per il presente, altri per il futuro. A lungo termine, il nostro grande rivale sarà la Cina. Il modo migliore di contenere Pechino è rafforzare i nostri alleati in Estremo Oriente: Giappone e Corea del Sud. Le cui economie si basano in gran parte sull'industria petrolchimica. Se controlliamo le riserve di petrolio irachene, possiamo garantire ai nostri alleati la prosperità necessaria per controbilanciare l'espansionismo economico cinese".

Altrettanto esplicita, sul Mirror, Sara Flounders, pacifista dell' American International Action Center: "Le compagnie petrolifere angloamericane vogliono accesso illimitato ai giacimenti iracheni". Non è difficile, ragiona il quotidiano, capire perché Washington ammassi truppe nel Golfo, perché l'esercito statunitense sia presente in ogni Paese produttore di petrolio o confinante con un produttore, perché il 20 per cento dell' enorme bilancio militare americano sia destinato alla difesa di giacimenti petroliferi. Basta ricordare il '91 quando Bush senior, padre dell' attuale presidente, veleggiava su indici di gradimento altissimi dopo la vittoria su Saddam. Pochi mesi dopo, la sua carriera politica era finita: colpa di un rincaro della benzina che gli americani, popolo di automobilisti, non gli perdonarono.

Il Bush di oggi non dimentica e, per tenere stabili i prezzi del petrolio, evitando picchi ma anche crolli, ha fatto accumulare nelle miniere abbandonate del Texas e della Louisiana enormi riserve. Non sufficienti, però, per fare a meno della collaborazione dei sauditi che, con i loro 300 miliardi di barili, fanno il bello e il cattivo tempo sul mercato. Tutto bene, finché sono alleati. Ma, come sottolineano gli esperti di politica ed economia mondiale della Rand Corporation al Pentagono, esiste il rischio che i fondamentalisti islamici spodestino il filoamericano Re Fahd e chiudano i rubinetti, con conseguenze catastrofiche.

Perciò Bush ha fretta di affrancarsi dalla dipendenza verso i sauditi. E lo può fare solo installando a Baghdad un governo amico e mettendo le mani sui giacimenti di Saddam che, come ha osservato il vicepresidente Dick Cheney, "ha sotto il suo sedere il dieci per cento delle riserve mondiali". Paradossalmente, oggi sono proprio i militari i più riluttanti a invadere l'Iraq. Temono di rimanerci invischiati per anni, come capitò in Vietnam e come accade in Bosnia, Kosovo e Afghanistan. Ma, visto che Bush ha aumentato le spese militari da 300 miliardi di dollari a quasi 400 in due anni, è fatale che prima o poi una guerra scoppi. "Anche se sarebbe più economico eliminare Saddam con una sola pallottola", scherza macabro Ari Fleischer, portavoce della Casa Bianca, alludendo all'ingaggio di un possibile sicario. Quanto a chi accusa il petroliere Bush di far guerra per il petrolio, Peter Beinart del prestigioso settimanale New Republic risponde drastico: "E allora? Ci mancherebbe che non difendessimo i nostri interessi. A tutti piace pagare poco la benzina".
Mauro Suttora

Wednesday, January 15, 2003

Bambini fotocopia? No, grazie. Ma salviamo la clonazione buona

Una setta annuncia la nascita di Eva, la prima bimba clonata, e nel mondo esplodono le polemiche sul tentativo di riprodurre esseri umani

"Eventi choc come questo rischiano di bloccare la ricerca utile per vincere tante malattie", sostiene lo scienziato Boncinelli. È urgente una legge contro l'illusione dell'immortalità

dal nostro corrispondente dagli Stati Uniti Mauro Suttora

Oggi, 15 gennaio 2003

New York. Una setta di 50 mila fanatici rischia di arrecare più danni alla scienza seria e responsabile che non il peggior fondamentalista antiscientifico. I cosiddetti "raeliani"(seguaci di Rael, soprannome di un ex pilota da corsa francese convinto che i primi esseri umani sarebbero stati "clonati" - cioè prodotti in copia - da alcuni extraterrestri 25 mila anni fa) hanno annunciato giovedì 26 dicembre di avere clonato la prima bimba della storia: "Eva pesa 3,2 chili, sta bene e presto ve la mostreremo".

La madre sarebbe una 31enne statunitense dalla quale è stato prelevato un ovulo e una cellula della pelle per effettuare l'esperimento della bimba fotocopia. I raeliani hanno fondato addirittura una società, la Clonaid con sede alle Bahamas, per sfruttare commercialmente la clonazione (su Internet hanno messo in vendita, a 9.199 dollari, una "macchina per clonare", la RMX 2010). Avrebbero già, dicono, più di duemila prenotazioni. Una rivelazione sconvolgente, con ancora misteri e promesse non mantenute, che ha provocato nel mondo orrore, sconcerto e incredulità: solo un inattendibile bluff per farsi pubblicità?

Il nuovo presidente dei senatori repubblicani statunitensi, il medico Bill Frist, ha subito annunciato che farà approvare una legge per mettere al bando qualsiasi tipo di clonazione. Così, però, si rischia di buttare il bambino (è il caso di dirlo) assieme all'acqua sporca. Da anni infatti la parola "clonazione" indica due cose diversissime fra loro. 

"Quella terapeutica", spiega da Trieste il professor Edoardo Boncinelli, uno dei massimi scienziati italiani, "consiste nel tentativo di produrre tessuti e parti di organi da usare nei trapianti. La clonazione riproduttiva, invece, mira a produrre organismi viventi completi "su misura". La prima è una ragionevole speranza, la seconda una folle illusione, almeno per gli esseri umani".

Una pecora, Dolly, è già stata clonata in Scozia nel 1997. Lo zoo dei cloni si è poi arricchito: vitelli, topi, tori, scimmie, maiali, capre, gatti e conigli. Da allora si è aperto il dibattito "bioetico" su quali confini imporre alla ricerca. Si ripete il dilemma dell'energia atomica: fonte pulita (in mancanza di incidenti) e a buon mercato se usata per scopi civili, arma tremenda se utilizzata dai militari. Lo stesso per la clonazione. Le migliori menti scientifiche del mondo stanno lavorando da anni per ricreare i tessuti umani. Ci sono già riusciti con la pelle e la cornea, ma non tutti i tessuti sono di facile ricostruzione.

Le malattie curabili con la clonazione terapeutica sono l'Alzheimer, il Parkinson, la talassemia, l'anemia, i tumori ereditari e la fibrosi cistica. Le cellule utili a rimpiazzare quelle morte si chiamano "staminali". Si trovano soprattutto negli embrioni umani, ritenuti però già esseri viventi dalla religione cattolica. Per i cattolici sono quindi intangibili, non si possono distruggere per prelevarne le cellule staminali: ridurli a "fabbrica" o serbatoio di queste ultime equivarrebbe a un assassinio.

"Il dibattito sulla clonazione riguarda lo status dell'embrione", spiega Francesco D'Agostino, presidente del Comitato nazionale per la bioetica, "perché chi ritiene che esso meriti rispetto è contrario anche alla clonazione terapeutica, visto che questa dà vita a un embrione clonato per poi distruggerlo, prelevando le sue cellule seppur a fini di ricerca". L'annuncio dei raeliani ha fornito una potente ragione ai "proibizionisti", cioè a coloro che pensano che in questo campo non ci si possa permettere di sottilizzare troppo, e quindi vada proibita la clonazione umana d'ogni tipo: "Una volta clonato un embrione", chiede per esempio il senatore americano Sam Brownback, "chi può garantire che sarà sempre usato per scopi terapeutici, e non da qualche pazzo per impiantarlo in un ovulo e tentare la procreazione?".

Ovviamente, per regolare questa spinosa materia, occorre una legge uguale e valida in tutto il mondo. Altrimenti i "clonatori" emigrerebbero nei Paesi più permissivi, vanificando gli sforzi di controllo negli altri. Ma le opinioni pubbliche sono divise all'interno di ogni Stato. 

Cosicché, quando due mesi fa l'Onu ha affrontato l'argomento, dopo negoziati durati ben due anni, la proposta di divieto mondiale della clonazione è stata respinta. A farla naufragare sono stati gli Stati Uniti. Bush ha ignorato gli appelli della comunità scientifica statunitense, lanciatissima negli studi per la clonazione terapeutica, e ha chiesto che il bando dell'Onu comprendesse anche quest'ultima.

Agli Stati Uniti nella nuova versione "dura" si sono accodati 36 Paesi, fra i quali l'Italia e l'altrettanto cattolica Irlanda. Ma molte altre nazioni avanzate hanno già emanato leggi che permettono la clonazione a scopo di ricerca. 

La Francia mesi fa ha fatto marcia indietro rispetto alla legge del 1994 che la proibiva, esprimendosi favorevolmente sia per la terapeutica che per l'uso degli embrioni "sovrannumerari", cioè gli embrioni congelati non utilizzati nella fecondazione assistita (mezzo milione nel mondo, 25 mila in Italia).

Anche la legge tedesca del 1990 proibiva la creazione di cloni per qualsiasi scopo, ma nel gennaio 2002 Berlino ha permesso l'importazione delle cellule staminali embrionali. Più permissivi Gran Bretagna, Giappone, Canada e Belgio, che consentono la clonazione terapeutica seppur con rigidi controlli pubblici. La Cina vuole introdurre una differenziazione fra gli embrioni con più o meno di 14 giorni.

In Italia l'argomento clonazione non sembrava scaldare né i politici né l'opinione pubblica, almeno fino alla provocazione della setta raeliana. Eppure proprio uno dei più strenui assertori della clonazione riproduttiva è il nostro Severino Antinori, che aveva promesso la prima nascita di un clone entro il gennaio 2003. Due anni fa una commissione di esperti, nominata dall'ex ministro della Sanità Umberto Veronesi e presieduta dal Nobel Renato Dulbecco, aveva proposto una soluzione di compromesso: l'uso di un metodo innovativo per produrre cellule staminali, ma senza creare embrioni. 

Nessuna legge, tuttavia, proibisce la clonazione, né riproduttiva né terapeutica: contro la prima c'è solo un'ordinanza ministeriale emessa per la prima volta dal ministro Rosy Bindi nel 1997, rinnovata ogni sei mesi. Ma proibizionisti e possibilisti sono presenti a destra e a sinistra, tagliando trasversalmente gli schieramenti. 

L'attuale ministro della Sanità Girolamo Sirchia è per il bando totale; su posizioni opposte il presidente dei radicali Luca Coscioni: immobilizzato dalla sclerosi laterale amiotrofica, si è sottoposto egli stesso a un trapianto di cellule staminali.

Se l'Italia è indifferente, in America infuria la polemica. Il 2003 promette di essere l'anno decisivo per risolvere la questione. E, una volta che gli Stati Uniti avranno deciso, per il resto del mondo ci sarà poco da discutere: è nel Paese guida dell'Occidente, infatti, che abitano i padroni dei geni (come la Celera Genomics, sito www.celera.com, e la Geron, www.geron.com). 

Nel 2001 la Camera, su impulso di George Bush jr e dei suoi elettori (cristiani conservatori, Stati del Sud), aveva a sorpresa proibito pure la clonazione terapeutica. Ma l'altro ramo del Parlamento, il Senato, ha bocciato quel testo. 

Molto attive, a favore della clonazione per la ricerca, sono le associazioni dei malati. La moglie di Ronald Reagan, devastato dall'Alzheimer, è contraria alla severità dell'attuale presidente. Recentemente la Stanford University di Palo Alto e lo Stato della California hanno sfidato il divieto imposto da Bush, e contestato soprattutto dal senatore Ted Kennedy, che non a caso viene da Boston, con Mit e Harvard capitale scientifica americana.