Wednesday, February 27, 2002

Convegno su Antonio Russo

Convegno sull'informazione (Università di Udine-Gorizia, 27 febbraio 2002)

testo dell’intervento di Mauro Suttora

ISLAM, ISRAELE, PALESTINA

Qual è il compito dei giornalisti? Raccontare. Far comprendere la vita quotidiana della gente, oltre le speculazioni politiche, religiose, ideologiche. Smontare i luoghi comuni.

Ho pensato ad Antonio Russo, il giornalista di Radio radicale cui è dedicato questo convegno, l’ultima volta che mi hanno mandato in Israele e Palestina, pochi mesi fa. Segnalo anche che Radio radicale sta registrando questo convegno, che poi trasmetterà per centinaia di migliaia di ascoltatori.

Ascoltavo spesso le corrispondenze di Antonio Russo dai Balcani e poi dalla Cecenia, prima che fosse ucciso. Russo era uno che non aveva fretta, che si fermava per mesi nei posti che lo interessavano, fossero o no alla ribalta della cronaca. Faceva, insomma, il contrario di quello che di solito fanno quasi tutti i giornalisti, prigionieri del metodo «mordi-e-fuggi» e della stretta attualità.

Ho pensato a Russo quando, arrivato alla frontiera di Gaza, ho chiesto al tassista palestinese di portarmi al Tahuna, il migliore albergo della città. Durante il tragitto lo chauffeur comincia a dire che anche altri hotel sono belli come il Tahuna... Sospettando che mi voglia portare nell’albergo di qualche suo parente, insisto per il Tahuna. «Ma è bruciato», mi annuncia. Arriviamo è vero, tutto distrutto. Ma chi è stato? «L’Intifada». Come, il proprietario era un collaborazionista degli israeliani? «No, no...»

Il tassista non va oltre con le spiegazioni. Domando ad altri notizie sul disastro del Tahuna, ma c’è imbarazzo e omertà. È stata la mafia? «Nooo, a Gaza non c’è mafia», spara un poliziotto. Alla fine, la triste verità i fondamentalisti hanno bruciato l’albergo perché osava vendere alcolici nel bar (anche se i clienti erano quasi tutti stranieri).

Insomma, una città come Gaza, con due milioni di abitanti, ficcata come un cuneo quasi nel cuore di Israele, è oggi in mano ai fondamentalisti islamici. Con tutte le conseguenze di ogni estremismo religioso culto della morte, appelli alla distruzione totale di Israele, ammirazione per i terroristi suicidi elevati a martiri da imitare, ecc. E’ ciò che leggiamo nelle cronache di ogni giorno. Ma perché ho pensato ad Antonio Russo? Perché lui, condividendo giorno per giorno la vita quotidiana dei palestinesi di Gaza, o quella opposta ma simmetricamente eguale dei coloni ebraici negli insediamenti a 50 metri da campi profughi, avrebbe potuto spiegare bene quello che sta succedendo. E smontare un sacco di luoghi comuni.

Quello dei «poveri profughi palestinesi», per esempio. Perché quando si passa il confine fra Israele e Palestina si ha l’impressione fisica, palpabile, che Berlusconi abbia ragione? E cioè che i paesi arabi sono rimasti indietro, se non di mille anni, almeno di cento? Perché di qua c’è la povertà, mentre di là la ricchezza. Di qua le baracche, i tuguri, di là le case, se non le ville. Ma perché, semplificando, i palestinesi sono poveri mentre gli israeliani sono ricchi?

Viene spontaneo pensare ai ricchissimi emiri arabi miracolati dal petrolio che scorrazzano ogni estate fra Cannes e Porto Cervo sui loro megayacht dal lusso sfrenato. E scandaloso, se paragonato alla miseria in cui sono costretti questi loro «fratelli arabi». Possibile che nessun filantropo saudita pensi a costruire case popolari dove sistemare decentemente gli abitanti di Gaza?

In fondo, è la stessa cosa che fanno i miliardari ebrei americani, assai generosi nei confronti di Israele. Ma il tremendo sospetto è che i satrapi arabi giochino al «tanto peggio, tanto meglio», facendo rimanere apposta i palestinesi nella disperazione per meglio aizzarli contro gli israeliani. Hamas, Jihad, l’inferno, nascono proprio nella miseria materiale e spirituale dei campi profughi.

Altro luogo comune il terrorismo islamico nasce dalla povertà. Falso. Osama è uno sceicco miliardario. I 19 kamikaze dell’11 settembre provenivano dalle classi medie dell’Arabia Saudita, uno dei Paesi più ricchi del mondo. Ma anche quasi tutti i giovani suicidi palestinesi sono discretamente istruiti, e non hanno fatto la fame.

E poi perché i profughi sono ancora nei campi, a più di mezzo secolo dalla guerra del 1948? Perché forse sperano di tornare? Non scherziamo, nessuno pensa più a tornare in villaggi che non esistono più, quelli dei nonni. E allora, cosa stanno lì a fare, se non a funzionare da eterna carne da ricatto contro gli israeliani? Anche l’Italia ha avuto centinaia di migliaia di profughi dall’Istria dopo l’ultima guerra, ma dopo pochissimi anni i campi erano vuoti, tutti si sono rifatti una vita.

Vi sembrano considerazioni semplicistiche, banali, volgari? Politicamente bizzarre di sicuro, non in linea con l’informazione media che ci giunge in Italia. Peccato che poi, però, sempre a proposito di Islam, il libro di Oriana Fallaci venda un milione di copie in due mesi, fatto mai accaduto in Italia. Peccato che un fenomeno impressionante come Sharon che vince a man bassa le elezioni non sia stato minimamente previsto né spiegato dai tanti raffinati giornalisti che pretendono di informarci standosene a sorseggiare cocktail al bordo della piscina dell’hotel American Colony a Gerusalemme, distillando preziose analisi politologiche campate in aria. C’è una bella canzone di De Gregori che dice «E tutte queste informazioni di Vincent/girano in tondo e non mi spiegano perché/ e non mi spiegano cos’è che muore».

In Palestina muore la gente. Ma scompare anche la borghesia palestinese mite, intelligente, colta. Laica. Una classe media di mercanti e intellettuali che emergeva in tutto il mondo arabo. E che adesso è silenziata dagli estremismi militari e religiosi. Penso a un nome, Sari Nusseibeh di Gerusalemme. Lo intervistai nell’88 per l’Europeo, c’era la prima Intifada, però era ottimista. Oggi invece quelli come lui hanno perfino paura di parlare.

Ecco, non c’è simmetria fra Israele e Palestina. Non esiste l’equivalente palestinese del movimento pacifista israeliano che è risorto, delle Shulamit Aloni, degli Yossi Sarid, degli Yossi Beilin. Perché oltre che a esserci la divisione fra ricchezza e povertà, fra Primo mondo e Terzo mondo, fra modernità e antichità, fra Israele e Palestina c’è anche la divisione fra libertà e oppressione, fra democrazia e autoritarismo. Purtroppo Israele è oggi, in tutto il Medio Oriente, l’unica oasi di democrazia in mezzo a un deserto di dittature.

I giornalisti dovrebbero, come dice il titolo di questo convegno, rappresentare la realtà, e non crearla. Antonio Russo è un giornalista che questo faceva. Ho adottato, in scala ridotta, il suo stesso metodo, andando a ficcarmi per dieci giorni nei punti più assurdi di tutta la regione, e forse della Terra i kibbutz di Gush Katif e di Netzarim, insediamenti proprio in mezzo alla striscia di Gaza, i primi che dovranno essere evacuati in caso di accordo di pace. A dormire e mangiare con i coloni più fanatici, così come nei giorni precedenti avevo dormito e mangiato con i palestinesi del campo profughi e avevo ascoltato prediche di muezzin altrettanto fanatici.

Ma quante volte avete visto in tv o letto reportage dal fronte, che lì è rappresentato proprio dalle colonie e dai campi profughi? A Gush Katif mi hanno detto che ero il primo giornalista italiano che arrivava lì. Eppure ci si può andare quando si vuole, non c’è censura. Basta andarci. Magari, invece che sulla macchina in affitto con aria condizionata e autista su cui si muovono preferibilmente i giornalisti italiani, su un autobus, come certamente avrebbe fatto Antonio Russo. Su uno di quegli autobus pieni di giovani israeliani dove ogni tanto sale qualche loro coetaneo palestinese per saltare in aria tutti assieme.

Andando in giro, così, senza pregiudizi, con curiosità, senza schemi mentali e ideologici precostituiti, il giornalista non deve dimostrare tesi, non deve individuare cattivi e buoni, non è suo compito neanche trovare soluzioni. Dovrebbe semplicemente raccontare. Proprio come faceva Antonio Russo. Il quale, intendiamoci, non era affatto un giornalista neutrale era partigiano, perfino testardo a volte. Stava dalla parte degli albanesi kosovari contro gli occupanti serbi, dalla parte dei ceceni contro gli occupanti russi. Ma questo non gli impediva di descrivere con gli occhi, con la mente e anche con il cuore la vita di tutti coloro in mezzo ai quali si era fatto paracadutare da Radio radicale.

Mauro Suttora

Wednesday, February 20, 2002

Radicali e informazione

Conferenza tenuta il 18 febbraio 2002 a Milano, nella sede del partito radicale (corso di Porta Vigentina)

Mauro Suttora 

I radicali non hanno un rapporto con l’informazione. I radicali SONO informazione, informazione pura, sempre e da sempre. Nascono nel ‘55 non con un congresso, ma con un articolo sul settimanale Il Mondo di Pannunzio che annuncia la nascita di un Comitato provvisorio composto da Pannunzio stesso, Carandini, Piccardi, dall’ex segretario del Pli Villabruna e Leo Valiani.

Scalfari dà una versione differente, nel suo libro «La sera andavamo in via Veneto: «Il Pr lo fondammo io, Pannunzio, Paggi e Libonati nella casa di Arrigo Benedetti a Marina di Pietrasanta nel maggio ‘55». Benedetti fondò l’Europeo nel ‘45, e l’Espresso con Scalfari nel ‘55. Un buon terzo dei dirigenti radicali erano giornalisti, da Ernesto Rossi ed Ennio Flaiano in giù.

Pannella è di professione giornalista, e così molti radicali degli anni 60: Gianfranco Spadaccia, Aloisio Rendi, Giuseppe Loteta, che diventerà editorialista del Messaggero. Il principale strumento della politica radicale è un’agenzia distribuita in ciclostile ai giornali, dal ‘63 al ‘67. Denunciarono le bustarelle dell’Eni alla stampa, anche di sinistra: ben 20 miliardi di allora in pochi anni.

Dal ‘65 al ‘70 è un settimanale molto popolare, quasi pornografico, Abc, a condurre la battaglia per il divorzio. Con grande successo, fra l’altro, perché passò da 100 a 500mila copie. Un altro volano lo avrà la campagna per l’aborto nel ‘75: l’Espresso si impegna nella raccolta di firme per il referendum, Pannella tiene una rubrica fissa, che però interrompe bruscamente quando Scalfari caccia Lino Jannuzzi dal settimanale.

Nel ‘68 e ‘72 i radicali non si presentano alle politiche con l’esplicita motivazione della mancanza di par condicio da parte della Rai nei confronti dei partiti non rappresentati in Parlamento. Nel ‘76 si presentano soltanto dopo uno sciopero della fame di Pannella per ottenere una Tribuna stampa di un’ora in prima serata, come tutti gli altri partiti. Nell’83 si presentano ma invitano a votare scheda bianca.

Il primo sciopero della fame di Pannella contro la Rai è del ‘74 - il più lungo fra i 17 della sua vita, 92 giorni. Il 22 giugno Lietta Tornabuoni rompe un silenzio di 50 giorni con un articolo sulla Stampa. E scrive: «Bernabei (il direttore generale dc, ndr) sa che, la notte del referendum, ben centomila persone sono andate a festeggiare con Pannella in piazza Navona, e teme che il suo successo s'allarghi. Ma i radicali sono una vecchia conoscenza della tv di Stato: nel 1966 Pannella era alla testa delle trenta persone che si ammanettarono davanti alla Rai, portando cartelli al collo con su scritto "Così è ridotta l'informazione". E nel '70 guidava i 19 divorzisti che occuparono per la prima volta la sede tv in via del Babuino».

Il 16 luglio '74 scende in campo Pasolini con un bellissimo articolo sul Corsera. E così il 19 luglio ‘74 Pannella, a 44 anni, debutta in Tv.

In uno studio di via Teulada, si registra il debutto televisivo del leader ancora in digiuno. Modera Gino Pallotta. Pannella è un uragano: «L'Italia non è diventata vittima di lesbiche e omosessuali dopo il referendum sul divorzio, come diceva Fanfani... Siamo contro una legge criminogena che provoca aborti clandestini di massa mentre le signore benestanti abortiscono con 500mila lire in cliniche private, con l'assistenza psicanalitica e magari anche quella religiosa...».

Pallotta è impietrito, inerte, non osa interromperlo. Aborto, lesbiche, omosessuali: è la prima volta che alla tv italiana si sentono queste parole. Alla fine della registrazione nello studio non vola una mosca. I tecnici di sala scoppiano in un applauso spontaneo: «Mejo de Kennedy, dotto'!». Ma Pannella non è contento: «Ho dimenticato di parlare degli otto referendum e del finanziamento ai partiti...»

La mattina dopo alla Rai scoppia un putiferio. Il direttore generale Willy De Luca visiona la registrazione e urla: «Dobbiamo bloccare questo pazzo a ogni costo!». Ma c'è poco tempo: il programma deve andare in onda la sera stessa. Bernabei manda immediatamente, con due motociclisti, la trascrizione completa — parola per parola — dell'intervento di Pannella al segretario dc Fanfani e al presidente del Consiglio Rumor. Ma il segretario psi Francesco De Martino e anche il presidente Leone si oppongono alla censura. Allora i vertici dc della Rai ordinano al capufficio stampa Giampaolo Cresci (che nel ‘98 diventerà direttore del Tempo, con il radicale Giovanni Negri come vicedirettore) di non comunicare l'orario del dibattito ai giornali. La trasmissione viene spostata dal primo al secondo canale, e dalle nove alle dieci di sera. Contemporaneamente a Pannella, sul primo canale viene trasmesso un programma di grande richiamo.

Tutto inutile. Come previsto, quando il capo radicale pronuncia quelle parole dallo schermo, i centralini Rai di tutt'ltalia vengono intasati di telefonate pro e contro. Intanto, sul Corriere della Sera il dibattito su Pannella va avanti. Per controbilanciare l'articolo di Pasolini ne viene pubblicato uno del comunista Maurizio Ferrara (padre di Giuliano),contrario a Pannella

Nel ‘74, nonostante questo exploit, i radicali non riescono a raccogliere le 500mila firme per 8 referendum. Di questi, la metà riguardano l’informazione. Uno è per la libertà d’antenna contro il monopolio Rai, e poi contro i reati d’opinione, l’Ordine dei giornalisti, la legge sulla stampa del ‘48.

Il 20 settembre '74 i radicali sfilano in marcia contro la Rai: chiedono la testa di Bernabei. Francesco De Gregori e un centinaio di altri artisti rifiutano di collaborare con la Rai finché durerà il monopolio Dc. Bernabei si dimette.

Qui, nella sede radicale di Milano, fra le foto appese ce n’è una col giovane Litta Modignani durante un sit-in del '76 davanti alla Rai in corso Sempione.

Nel ‘77 durante una Tribuna flash di un quarto d’ora Pannella non si ferma, continua a parlare e costringe i tecnici Rai a sfumarlo

Il 18 maggio '78, a una tribuna del referendum di Jader Jacobelli in tv, i radicali inscenano uno spettacolo che rimarrà nella storia mondiale della televisione: Pannella, la Bonino, Mellini e Spadaccia si fanno riprendere imbavagliati con cartelli di protesta. È il più lungo silenzio mai messo in onda da una tv: 24 interminabili minuti, dalle 20.53 alle 2l.17. La Rai riceve centinaia di telefonate di spettatori allibiti. «I radicali hanno violato le regole fondamentali della comunicazione, perché hanno mescolato politica e spettacolo», commenta il massmediologo Gianfranco Bettetini. «Non è vero che politica e arte sono mondi separati e incomunicabili: in America non è così», corregge Eco. E Sabino Acquaviva: «Pannella ha sovvertito i rituali della classe politica». «Trovata geniale», ammette Scalfari.

Nell’autunno '81 ci vogliono 53 giorni di digiuno a Pannella per conquistare 40 minuti di Ping pong in Rai, un dibattito con Biagi moderato da Vespa sullo sterminio per fame nel mondo.

All’inizio dell’83 l’Europeo pubblica una bella intervista a pannella di Galli della Loggia e Fiamma Nirenstein:

Perché ti lamenti sempre della censura? «I giornalisti hanno subito una vera e propria mutazione antropologica in questi anni. Non parliamo della Rai, che il Psi ha riempito con una schiera di killer dell'informazione ai suoi ordini… Una volta almeno c'erano editori borghesi come Crespi o Perrone che ogni tanto potevano fare i non conformisti».

Intanto, però, dal 1976 è nata Radio radicale, cui va il finanziamento pubblico che il partito rifiuta di incassare. Piano piano i ripetitori coprono tutta Italia. Valter Vecellio inventa le rassegne stampa mattutine che poi passeranno a Taradash e a Melega, grande giornalista, già direttore dell’Europeo fatto licenziare dalla P2 e caporedattore di Repubblica ed Espresso. Radio radicale inventa anche i fili diretti e le rassegne stampa di mezzanotte, che poi copieranno tutti. Ed è una fucina di eccellenti giornalisti:

Paolo Liguori, direttore di Studio Aperto, Stefano Andreani, finito all’Asca e a fare il segretario di Andreotti nell’era del Caf, Bruno Luverà, oggi inviato politico di punta al Tg1, Guido Votano, capo della redazione italiana di Euronews (la Cnn europea) a Lione, Giancarlo Loquenzi (Indipendente, vicedirettore di Liberal, poi alla radio del Sole 24 Ore e oggi capo delle relazioni esterne di Telepiù), Laura Cesaretti (Foglio e poi Giornale), Roberto Giachetti, oggi deputato della Margherita e braccio destro di Rutelli, Ivan Novelli, Gabriele Paci (Europeo, Indipendente, Voce di Montanelli), Stefano Anderson poi capufficio stampa del Csm, o Carlo Romeo, colonna della tv radicale Teleroma 56 e poi direttore delle sedi Rai di Aosta e Bologna.

Dal 1979 e fino alla metà degli anni ‘90 i radicali hanno avuto due canali tv a Roma, Teleroma 56 e 66, guardate anche da papa Wojtyla che così conosce Pannella. Per un certo periodo Stanzani era diventato anche azionista di rilievo del network nazionale Odeon, ma poi come sempre il sogno di un terzo polo tv si è infranto di fronte al duopolio Rai-Mediaset.

La polemica contro la Rai prosegue incessante.

Il 30 maggio '83 Pannella contesta Pippo Baudo a Montecatini (Pistoia) mentre trasmette Serata d'onore dell'Unicef in diretta tv. «Baudo è un buffone!», grida in sala, perché il presentatore ha propagandato in tv contributi contro la fame nel mondo annunciati per telefono da politici dc. Pochi giorni dopo se lo ritrova di fronte, assieme a Enzo Tortora, in una tribuna elettorale Fininvest registrata al teatro Eliseo di Roma. Il clima è gelido. La mattina seguente, all'alba, Tortora viene arrestato per camorra.

Nell’84 si attua una campagna di disobbedienza civile contro il canone Rai, coordinata da Gaetano Benedetto (oggi dirigente Wwf): aderiscono varie centinaia di persone, ma la proptesta non riesce ad avere uno sbocco politico.

Il 15 settembre '86, un anno dopo la condanna a dieci anni e 1185 giorni dopo l'arresto, per Tortora è il giorno della rivincita: assolto con formula piena in appello. Adesso il presentatore desidera tornare in tv. Silvio Berlusconi gli fa la corte, vuole strapparlo alla Rai. Così Canale 5 si apre ai radicali, che vengono invitati in ogni programma. Perfino Drive in, la trasmissione dedicata ai paninari, ospita un Pannella in doppiopetto stile Chicago anni '30, con al fianco Lory Del Santo. «Era il comico che ci mancava», commenta perfido l'autore Antonio Ricci. Ma Fedele Confalonieri, numero due della Fininvest, nega che gli inviti a Pannella servano per spianare la strada a Tortora: «Il Pr stava chiudendo, aveva bisogno di un megafono, e noi glielo abbiamo dato».

C'è un problema: se Tortora sceglie la Rai, non potrà candidarsi con i radicali. Accusa Luciano Violante, pci: «Il Pr è totalizzante. Per Pannella, Tortora è l'uomo che vale 200mila voti». Aggiunge Martelli: «Marco ha un rapporto nevrotico con i mezzi d'informazione, e sbaglia». Ma perfino la socialista Raidue apre improvvisamente le porte a Pannella, grazie a Tortora: Antonio Ghirelli, direttore del Tg2, gli fa un'intervista di ben sei minuti, e viene subito strigliato dal direttore generale dc Biagio Agnes. I radicali premono con Tortora perché scelga la Fininvest, tanto che la figlia del presentatore Silvia (giornalista di Epoca, sposerà l’attore Philippe Leroy) litiga con Pannella e straccia la tessera del Pr. Ma alla fine Tortora decide di tornare con Portobello su Raidue, e inizia la prima puntata del nuovo ciclo con la frase: «Dov'eravamo rimasti?». Fra Pannella e Tortora, comunque, i rapporti restano ottimi,

Nell’ottobre ‘89 Pannella si dimette da deputato, di nuovo in polemica esplicita contro Rai e giornalisti.

Nell’ ottobre ‘92 il capo radicale guida una marcia contro la Rai, ancora in mano al Psi e alla Dc del direttore generale Gianni Pasquarelli nonostante la bufera di Tangentopoli. «Marcio contro il marcio», proclama, 18 anni dopo il primo corteo anti Rai col quale fece fuori Bernabei.

Il 20 novembre ‘93 inizia la raccolta di firme con la Lega Nord per dieci referendum liberisti, fra i quali due sulla Rai: uno per abolire la pubblicità, l’altro per la privatizzazione. Il primo verrà fatto fuori dalla Corte Costituzionale, il secondo vince il 12 giugno 1995 con il 55% di sì. Ma non verrà mai attuato.

Con la Rai, comunque, è rottura totale. Pannella protesta: «Fanno comparire soltanto Occhetto e D'Alema, e contrapponendo loro solo la Lega. Ma D'Alema e Occhetto hanno il loro microfono, Bossi invece ha il gelato che Bianca Berlinguer gli tende e gli toglie con sofisticatissimo modo, per far fuori tutto quel che fa paura al Pds... Guardate le dichiarazioni riportate dal Tg1: 32 di Occhetto o D'Alema e nessuna mia. Questo significa eliminare gli avversari. È ora di indicare anche le "coperture nobili" del Pds. Il non plus ultra della faccia tosta è quell'abatino Gianni Riotta, minutante di segreteria, che con la sua faccia da prete fa scherzi da prete».

Nel ‘94 l’alleanza con Berlusconi viene spiegata anche con la maggiore apertura delle reti Fininvest rispetto a quelle Rai: i radicali non sono stati sempre a sinistra? «Io so che l’Italia», risponde Pannella, «ha potuto vedere le labbra secche di un digiuno della fame e della sete per i referendum grazie alle tv della Fininvest, e non della Rai». Candida Spadaccia per il cda Rai e Umberto Eco per la direzione generale, senza successo.

Taradash diventa presidente della Commissione di vigilanza, e come primo atto fa portare i bilanci Rai in Tribunale.

Il 26 maggio 95 un altro episodio che passerà alla storia: i fantasmi radicali, coperti da un lenzuolo, in tribuna politica. La direttrice dc Angela Buttiglione abolisce le dirette.

Nel dicembre ‘95 arrivano ai vertici Rai avvisi di garanzia per attentato ai diritti politici dei cittadini, su denuncia radicale. Ma non si arriverà mai ai processi.

Nel 95 e 97 scioperi della fame contro la censura tv.

Nel 98 battaglia contro la Rai che offre 25 miliardi per la Radio, cui si vogliono togliere i dieci miliardi annui di convenzione col Parlamento per la trasmissione delle sedute.

1998: appena risvegliatosi dall’anestesia dopo una serie di delicatissime operazioni al cuore, Pannella detta alle agenzie questa dichiarazione: «Spero possa iniziare e rapidamente avviarsi a conclusione, finalmente, il processo di convalescenza. I direttori dei telegiornali, l'associazione per delinquere Rai - che compiono volgari azioni in un unico disegno criminoso: lasciare al potere in Italia il sistema criminogeno della partitocrazia - non possono dunque stare tranquilli»

Oggi molti editorialisti dei quotidiani italiani sono ex radicali o simpatizzanti: Panebianco e Merlo (Corsera), Teodori (Giornale), Ignazi (Sole 24 Ore), Quagliariello (Messaggero), Prado e Farina (Libero)

Penso che l'unica soluzione per trasformare la Rai da quella fogna clientelare che è in qualcosa di decente sia la privatizzazione. Una, due, tre reti, in blocco, a spizzichi, qualsiasi cosa va bene.

Il «servizio pubblico» non esiste. L'informazione è una merce, come tutte le merci il suo valore è determinato dal mercato, e vale la legge della domanda e dell'offerta. Per esempio, se il comune di Milano o la regione Lombardia devono comunicare che il giorno dopo il traffico è vietato, possono diramare questa informazione di pubblica utilità attraverso tutti gli organi d'informazione privati, che saranno ben lieti di veicolarla perche' si tratta d'informazione utile (quindi con un alto valore di mercato), o perfino con gli sms sui telefonini.

Il «servizio pubblico» è solo un pretesto usato dal potere politico per controllare l'informazione e mantenere carrozzoni costosi e inutili. Negli Usa non esiste tv pubblica, solo un piccolo canale (Pbs) noioso che pochi guardano perche' trasmette trasmissioni cosiddette culturali o di pupazzi (Muppet show). Esistono però canali (C-Span) che trasmettono le sedute parlamentari via etere e internet, come Radio radicale