Friday, December 31, 1999

Elda Lunelli: la regina degli spumanti compie 90 anni

LA CAPOSTIPITE DELLA FAMIGLIA DEGLI SPUMANTI FERRARI CI RACCONTA LA SUA STORIA

dal nostro inviato a Trento Mauro Suttora

Oggi, 17 dicembre 1999

Ha appena festeggiato i 90 anni, ma da 65 ogni giorno va a lavorare nella sua enoteca, saluta i clienti, controlla la cassa, firma i documenti (ha la carica di amministratrice unica) e porta l’incasso in banca. È Elda Prada Lunelli, la matriarca della dinastia (cinque figli e sei nipoti: «Ne ho fatti più io di loro», scherza) famosa perché produce lo spumante Ferrari, il più venduto in Italia con Berlucchi fra quelli a metodo classico (champenois). E fra i primi dieci in Europa, ormai: nulla più da invidiare agli champagne, dei quali il Ferrari non può usare il nome soltanto per la Denominazione di origine controllata (Doc) che protegge i francesi.

Quattro milioni e 300 mila bottiglie vendute nel 1999, con ritmi di aumento del 20 per cento annuo: «La crescita potrebbe essere anche maggiore, ma preferiamo garantire la qualità piuttosto che inseguire la quantità», ci spiega il primogenito Franco Lunelli, 64 anni, nella sede in stile californiano delle cantine Ferrari accanto all’autostrada del Brennero, all’altezza di Trento. Nel centro della città, in largo Carducci, sua mamma segue l’enoteca di famiglia: ogni mattina e ogni pomeriggio si reca in negozio assistita dalla figlia Carla e dalla nipote Alessandra, diciannovenne universitaria di Economia e commercio. E tutti gli altri figli (Giorgio, Mauro, Gino) dirigono l’azienda.

Appena sposata con Bruno Lunelli, nel 1934, la signora Elda si dedica alla bottega, che allora si chiamava «mescita». Durante la guerra rimane sola con i figli, suo marito finisce a combattere sul mar Baltico, ma lei non si arrende: «C’era poca roba da vendere, da comprare e da mangiare, ma il negozio l’ho voluto tenere aperto lo stesso».

La svolta arriva nel 1952, quando Bruno Lunelli fa la pazzia di acquistare il marchio dello spumante Ferrari di Trento, soffiandolo a concorrenti come la grande Motta di Milano, per una cifra allora enorme: 30 milioni di lire (due-tre miliardi di oggi).
 
«È stata la scommessa più importante della nostra vita», ricorda la signora Elda, «perché quei soldi in realtà mio marito non li aveva: metà se li fece prestare dalle banche, per l’altra metà firmò cambiali. E in cambio di nulla: soltanto il ‘nome’ Ferrari, aveva comprato. Ma il mio Bruno possedeva un dono: ovunque toccava faceva affari. Così, già il primo anno aumentò la produzione da ottomila bottiglie a ventimila. E dopo due anni i debiti erano pagati».

Negli anni Sessanta le bottiglie Ferrari diventarono 80mila all’anno, negli anni Settanta 300mila, nel 1982 si toccò il milione, nel ‘91 tre milioni e oggi, oltre allo spumante, la famiglia Lunelli produce anche l’acqua minerale Surgiva, la grappa Segnana e il vino Lunelli. 

La signora Elda festeggia ogni anno il Natale radunando i parenti nella sua casa in centro, dove dopo la morte del marito (quasi trent’anni) fa vive con la sorella 87enne: «Quest’anno, però, eravamo in troppi, così siamo andati in una sala dell’azienda».

Hanno brindato con le bottiglie della Riserva Ferrari, otto anni d’invecchiamento: le stesse con cui festeggeranno per primi il nuovo millennio il re di Tonga e il presidente di Kiribati, le isole del Pacifico dove l’alba del Duemila anticiperà tutto il mondo. Gliele hanno spedite i Lunelli da Trento, che per diplomazia hanno declinato l’invito del re di Tonga a brindare assieme a lui: sarebbe stato uno sgarbo per Kiribati, che contende all’altra isola il primato geografico.

Sono molto attenti alle relazioni internazionali, i Lunelli. Così lo spumante Ferrari è finito su tutte le tavole che contano al mondo, da Reagan a Gorbaciov, da Mitterrand alla Thatcher e a ogni summit internazionale. 

Un’altra particolarità: il Ferrari non si è mai fatto réclame. Niente pagine pubblicitarie sui giornali, niente spot in Tv: «Ci basta il passaparola», dicono sornioni a Trento. E nonna Elda brinda con la «schiava», un calice di spumante allungato con acqua.

Mauro Suttora

Monday, December 06, 1999

Hanno paura del presepe

Una scuola elementare di Milano lo vuole abolire

Il Foglio, 6 dicembre 1999

di Mauro Suttora

Duemila anni esatti dopo la nascita di Gesù Bambino, stiamo uccidendo il presepe. Siamo diventati così politicamente e religiosamente "corretti", che ci vergogniamo perfino delle tradizioni più gioiose e inoffensive della cultura italiana. Anche a casa nostra.

Succede che in una scuola elementare comunale dell'evolutissima Milano (via Pallanza, quartiere Maggiolina, zona benestante) maestre e direttrice rifiutano di fare il presepe per Natale. Dicono che "è un simbolo troppo nostro, cristiano, occidentale: i bimbi di altre religioni potrebbero sentirsi esclusi". Dopo le proteste di diverse mamme, viene convocata un'assemblea. Partecipano 40 madri su 80. In questo asilo i bambini extracomunitari, contrariamente ad altre zone di Milano, sono pochissimi: cinque o sei. Due cattolici (un sudamericano e un filippino). Due cinesini di due anni, che frequentano il "raccordo" fra asilo nido e scuola materna: i loro genitori non partecipano all'assemblea, presumibilmente non gliene importa assolutamente nulla del nostro delirante buonismo.

La direttrice ribadisce: "Il Natale lo festeggiamo, però all'insegna del 'dono' e del 'fare'". Quindi l'albero (simbolo pagano) sì, ma il presepe no. Una mamma azzarda: "Ma per i bimbi è soltanto un gioco, facciamo portare a ciascuno di loro una statuina da casa..." Un'altra, timidamente sconcertata: "Ma la festa si chiama Natale appunto perché è nato qualcuno, no?" Un'altra ancora: "Il presepe è un'invenzione di San Francesco, è un'usanza popolare: non mi sembra propaganda religiosa. Possiamo festeggiare anche le ricorrenze di altre religioni, se qualche genitore lo chiederà". Niente da fare. Meglio nessuno che tutti.

Prende la parola la madre più decisa: "Io ho vissuto all'estero, in Paesi di religione diversa dalla nostra, e non ho mai visto una tale rinuncia alle proprie tradizioni. Né io mi sono sentita offesa dalle manifestazioni di religiosità locale: al contrario, ne ero attratta per curiosità".

Ma a questo punto si alza una mamma che si autodefinisce "cattolica e praticante", e sentenzia: "Non so neanche se il regolamento permetta di mettere gli allievi di una scuola pubblica a contatto con il simbolo di una religione ben precisa, com'è il presepe. Fatevelo a casa. Oppure iscrivete i vostri figli in istituti privati. Non dobbiamo mettere in imbarazzo gli altri bambini con feste che non sono le loro, alle quali non sono in grado di partecipare tutti". Coro: "Ma il Natale si festeggia comunque! Lo vogliamo ridurre soltanto a una questione di regali, consumistica, all'americana, di business?"

Qualcuno propone di votare. Altolà della direttrice: "Manca la metà dei genitori, e poi bisogna comunque rispettare le minoranze. Lo stesso fatto che ne stiamo parlando da così a lungo dimostra che questo del presepe è un argomento delicato, non condiviso da tutti". Le povere mamme si fanno piccole e timide come le pecorelle del presepe che desidererebbero: meglio non contestare troppo le maestre e la "dirigente", è fastidioso mettersi contro chi tiene in mano i propri figli tutto il giorno. Qualcuno la butta sulla scherzo: "Vabbè, pazienza, poi magari qualcuno ci potrebbe accusare anche di propaganda politica per la presenza dell'asinello..."

Da questa surreale vicenda nell'asilo milanese non ci permettiamo di estrarre conclusioni importanti, anche se l'impressione è quella di un'intera civiltà che pratichi l'harakiri. E che lo faccia inconsapevolmente, in nome di una demenziale tolleranza non richiesta, è un po' agghiacciante. Certo che, dopo il libro di storia fazioso, ci mancava solo il presepe pericoloso. Sono queste, purtroppo, le buffe cronache dall'Italia nell'era dell'Ulivo (oddio, presto, cambiate nome, qualcuno potrebbe offendersi...)

Wednesday, December 01, 1999

Siamo antiamericani?


Dibattito tv a "Tout le monde en parle", France 2

di Mauro Suttora

Il Foglio, 1 dicembre 1999

Sul vertice di Seattle è stato detto di tutto, ma il canale France 2 l’altra sera ha preso il toro per le corna e ha posto la vera domanda: «Non è che siamo antiamericani?» A rispondere, un piccolo parterre des rois. Jack Lang, indimenticato ministro della Cultura di François Mitterrand, cade subito nella trappola e (ri)comincia a prendersela con gli Usa, protestando perché «gli americani hanno installato una loro enorme multisala proprio nel cuore di Cinecittà, a Roma, dove sono stati girati i film più belli del dopoguerra». «Non c’è alcuno scandalo», lo rintuzza subito lo scrittore Jean Yanne, «sono stati gli stessi italiani a chiamare gli americani, e adesso tutti sembrano contenti».

Sì, il cinema statunitense ha grandi idee, audacia e innovazione, concede (bontà sua) il grand protecteur dei registi europei, però «noi dobbiamo incoraggiare positivamente la nostra creazione originale, sono inquieto per la crisi del nostro cinema».

Fa bene a inquietarsi, Lang: nonostante le centinaia di miliardi regalate a produttori e registi francesi (o probabilmente proprio a causa di questo finanziamento statale, che incoraggia l’onanismo tendenziale del metteur en scene gallico affrancandolo dal giudizio del pubblico), ormai soltanto due francesi su dieci accettano di farsi tediare dal cinema nazionale. «Questo crollo al 20 per cento mi preoccupa», ammette Lang, «però a Seattle sono tutti d’accordo: la cultura non dev’essere considerata una merce».
 
È questa la magica, attraente parola d’ordine dei protezionisti: non riduciamo tutto a merce. E quei pescecani delle majors americane non protestino troppo per i soldi che Parigi preleva sui biglietti dei loro film, girandoli ai produttori francesi. I quali, a detta del regista Pierre Jolivet, sarebbero nientemeno che benefattori continentali: «La Francia coproduce i film di Pedro Almodovar e Nanni Moretti, siamo l’ultimo polo sfuggito all’egemonia americana, tutti i cineasti d’Europa sognano un sistema come il nostro. Perfino il regista americano David Lynch, che ha problemi a casa sua, ci ha chiesto aiuto. La verità è che gli Usa riducono tutto a mercato, non gliene frega niente della cultura. Lo sostiene anche Robert Redford, che proprio per difendere il cinema di qualità ha creato il Sundance film festival».

L'altra parola chiave, quindi, è "eccezione culturale". Ovvero: libera circolazione mondiale per merci e capitali, ma non per le opere artistiche. "Dobbiamo proteggere le nostre culture nazionali dall'invadenza americana", è stato il ritornello dei francesi sia negli ultimi negoziati Gatt del 1994, sia oggi a Seattle. Tasse sui film, allora, e anche quote contro serial e canzoni americane in tv e alla radio.

"Ma non serve a niente, con le linee Maginot abbiamo sempre perso", attacca il musicista rock Jean-Louis Murat, "l'80 per cento della musica che i giovani francesi ascoltano è anglosassone. Anche perché il risultato del nostro protezionismo è che dopo 40 anni ci dobbiamo beccare ancora Johnny Halliday, mentre negli Stati Uniti la vetta della hit parade cambia ogni tre mesi, c'è più movimento e alla fine vince il migliore. Anche in altri campi siamo invasi, è vero, oggi ci sono più McDonald's a Parigi che a New York. Ma nei ristoranti francesi con meno di 500 franchi si mangia merda".

Aggiunge il liberale Laurent Dominati: "Gli spettatori americani rifiutano i film francesi, e i nostri cineasti sostengono che questo accadrebbe perché non sono doppiati in inglese. Ma in Italia, dove il doppiaggio c'è, il cinema francese langue egualmente al due per cento. E noi, nonostante l’’eccezione culturale’ di cui andiamo così fieri, siamo invasi dai film Usa". Tocca all'americano Harvey Feigenbaum, timido professore della Georgetown university, concludere lapalissianamente: "E' giusto difendere la cultura, ma se continuate a girare film che nessuno vuole vedere, non difenderete niente. E da parte nostra non c'è alcun pregiudizio: gli americani in realtà sono innamorati della Francia, che è il Paese più visitato dai turisti Usa".

La parola in collegamento da Seattle a José Bové, contadino del Larzac diventato famoso la scorsa estate per avere assaltato un McDonald's: "Non sono antiamericano, anzi: i consumatori statunitensi guidati da Ralph Nader sono nostri alleati, perché anch'essi non vogliono ingurgitare alimenti manipolati geneticamente e carne agli ormoni. Pure gli agricoltori Usa sono in crisi, se continua così il 25 per cento di loro sparirà entro pochi anni, quelli del Texas e dell'Alaska sono con noi, c'è un'altra America che non conosciamo, un'America profonda..."

La Francia profonda, invece, è perfettamente rappresentata da Philippe de Villiers, ex gollista diventato poujadista antieuropeo: "Gli Stati Uniti hanno l'idea della cultura unica, invece bisogna combattere per la diversità, e salvaguardare la nostra agricoltura di qualità con un sistema legittimo di preferenze nazionali". Poi, l'inevitabile stoccata contro Bruxelles: "La Francia, quarta potenza economica ed esportatrice mondiale, contrariamente a paesi come le Maldive o le Grenadine, a Seattle è assente. Ci dovrebbe difendere l'Unione europea, ma anch'io non voglio i cibi transgenici e la carne agli ormoni".

Più a destra di De Villiers rimane soltanto Le Pen, ciononostante Jack Lang non si imbarazza a fargli eco da sinistra: "Sì, non si può separare l'agricoltura dalla cultura! Cinque anni fa eravamo in pochi a batterci contro l'ideologia del mercantilismo, ma oggi la ribellione si è estesa a molti paesi". Niente libero mercato, quindi, anche se per Lang "questa partita non si gioca in opposizione agli Usa, ma salvaguardando la nostra identità giorno dopo giorno".

Identità francese oggi significa anche, nei cartoni animati, Asterix contro Topolino. Chi sta vincendo? Sette anni fa, dopo brusche polemiche, si apriva Eurodisney vicino a Parigi. È stato un successo clamoroso: dodici milioni di visitatori, nonostante il prezzo medio per una famiglia di quattro persone sia di 300mila lire. I francesi si consolano perché gli americani hanno acconsentito ad aggiungere anche uno spazio per l’europeo Pinocchio, e hanno dedicato a Jules Verne il percorso sulla conquista dello spazio. Ma sembrano orgogliosi soprattutto per il vino (bandito da Disneyland in California e da Disneyworld in Florida), che alla fine è stato affiancato alla Coca Cola nel parco d’attrazioni europeo. «All’epoca ero segretario alla Cultura», rivendica patetico De Villiers, «e ottenni che le strade di Eurodisney fossero almeno sottotitolate in francese». Insomma: una dêbacle.

«La verità è che siamo stati noi europei incapaci di creare un’alternativa a questo topo Usa», ammette il gollista Pierre Lellouche, presidente della Commissione esteri dell’Assemblée nationale. «Lo confesso: anch’io pensavo che Eurodisney non avrebbe funzionato, invece mi sono completamente sbagliato. Ora perfino i comunisti cinesi vogliono Disney! Ma la risposta non sono le barriere nazionaliste. Oltretutto, la liberalizzazione degli scambi è un fattore di pace: quando commerciano, i popoli non si fanno la guerra».

Anche dal regista di sinistra Romain Goupil arriva, a sorpresa, un elogio della globalizzazione: «Mi ritengo cittadino del mondo, nato in Francia per caso, e sono convinto che la mondializzazione sia un bene. Un esempio? Il tribunale penale internazionale che sta per nascere, permettendo di punire dittatori e stragi commesse in tutto il pianeta. E questa tanto vituperata Organizzazione mondiale del commercio può fare da arbitro fra 132 nazioni, evitando conflitti di ogni tipo».
Scusi, ma lei si definisce liberale?, domanda incredula la conduttrice di France 2.
«No, libertario. Non ho territorio, non voglio frontiere, vinca il migliore. Nessuno obbliga i francesi a mangiare da McDonald’s, a bere Coca Cola e ad andare a Eurodisney». «Viceversa», aggiunge Yanne, «gli americani sono felici di farsi invadere dalla cucina messicana, dalla pizza italiana, dalla nostra acqua minerale Perrier e da Danone».

E il foie gras cui gli Usa hanno proibito l’importazione? Assieme al roquefort (il formaggio di cui gli Usa hanno proibito l’importazione per vendicarsi del protezionismo europeo sulle banane), il paté di fegato d’oca negli anni scorsi è stato un argomento caldo in mano agli antiamericani francesi: imponendo un dazio del 100 per cento, gli Stati Uniti ne hanno limitato enormemente il consumo.
Ma qui sono i verdi francesi, nemici giurati dell’Omc nonché degli Usa in quanto manipolatori genetici, consumisti e spreconi di energia, a difendere una volta tanto Washington: «Quel provvedimento è stato adottato sotto pressione degli animalisti americani, choccati dalle immagini tv che mostrano come ingozziamo le nostre povere oche del Perigord».

Dalle stalle alle stelle: «I missili Ariane e gli aerei Airbus sono due esempi di come possiamo sfidare con successo gli americani», dice Lellouche, «basta abbandonare i complessi d’inferiorità e riacquistare fiducia in noi stessi».
«Ma quale fiducia può avere quella vecchia signora un po’ stanca che è diventata l’Europa?», gli domanda Yanne.
«È vero», risponde Lellouche, «mezzo milione di francesi hanno lasciato la Francia perché non ne possono più degli ostacoli, della burocrazia e delle imposte che esistono qui».
«Sì, ma molti di quelli che si rifugiano in Inghilterra per motivi fiscali lasciano la famiglia a Parigi, e ogni week-end tornano a casa con il treno Eurostar», ribatte Jolivet. «Così godono contemporaneamente delle tasse basse inglesi, e della maggiore assistenza sociale francese».

Inevitabilmente, però, il dibattito torna sull’Omc (nessuno in Francia si sogna di chiamarla Wto, acronimo inglese, così come la Nato è Otan e l’Ocse a Parigi si chiama Oecd) e su Seattle: «Chi la disprezza perché la ritiene ostaggio delle multinazionali sappia che invece i paesi in via di sviluppo fanno la fila per entrarvi: ce ne sono 50 in lista d’attesa. Per loro, il libero mercato rappresenta la salvezza», sostiene Lellouche. «Però oggi come oggi il libero mercato non esiste, c’è il monopolio e la conseguente mercificazione del mondo», ribatte il contadino Bové. Dimenticando che «laissez-faire» è una parola francese.
Mauro Suttora